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Speciale registi - Il miglior film di Sofia Coppola

Classe 1971, figlia d'arte amata oppure odiata dal mondo della critica internazionale. Cinque film, uno più controverso dell'altro. Vi diciamo quale ci è piaciuto di più e vi spieghiamo anche il perché...

Il padre l'aveva destinata, forse involontariamente, a una ben poco brillante carriera da attrice. Ce la ricordiamo nei panni della giovane figlia del vecchio Michael Corleone ne "Il padrino parte terza". La prova recitativa, però, aveva scatenato le ire dei critici di tutto il mondo, che le avevano dato della "sporca raccomandata", l'avevano definita "una cagna con un cognome rispettabile". Insomma, l'avevano bollata come la peggior attrice che potesse essere scelta per quel ruolo. Dopo il terzo capitolo di una delle saghe più celebri del secolo, la carriera davanti alla macchina da presa di Sofia Coppola si arrestò quasi totalmente. Chi poteva immaginare che qualche anno dopo, soltanto 28enne, la sua carriera si sarebbe trasformata in quella di brillante e osannata autrice, corteggiata nei maggiori Festival internazionali?

"Il giardino delle vergini suicide", "Lost in Translation", "Marie Antoinette", "Somewhere", "Bling Ring": la somma dà un Oscar alla miglior sceneggiatura, un Golden Globe, un Leone d'oro ricevuto dalle mani del suo ex Quentin Tarantino. Oltre a questo, tre passaggi sulla Croisette, di cui uno in concorso tra le favorite dell'edizione per la Palma d'oro. Cinque lungometraggi soltanto in sedici anni, uno più controverso dell'altro. La nostra redazione ha deciso di proseguire proprio con la Coppola il percorso attraverso le filmografie dei giovani cineasti che stanno segnando il nuovo millennio; e ha deciso di stilare, anche in questo caso, una "parziale" classifica di preferenze dei titoli in questione. Vince, in modo abbastanza prevedibile, il suo film più amato e conosciuto anche dal grande pubblico, che non solo le ha dato premi e ottimi incassi, ma ha anche permesso di rilanciare alla grande la carriera di una eccezionale maschera hollywoodiana, troppo spesso, negli anni addietro, relegata in ruoli marginali: Bill Murray.

Le regole del nostro speciale sono semplici: oltre alla classifica, appunto, scaturita da un democratico voto redazionale, arricchiamo il tutto con pillole individuali che ogni redattore che ha partecipato al voto ha deciso di scrivere del suo personale "primo posto". Quattro pellicole su cinque hanno avuto almeno un riconoscimento: soltanto il suo ultimo lavoro, "Bling Ring", è rimasto a bocca asciutta.

Potremmo sottolineare in questa breve introduzione diversi aspetti, tra i più dibattuti, sullo stile e la poetica del cinema di Sofia Coppola. Potremmo soffermarci su ciò che è particolarmente positivo, come ad esempio l'abilità del cambio di registro, in grado di passare da piccole commedie dal tono intimista a tripudi postmoderni che altro non sono se non un frullato di citazioni pop; potremmo anche evidenziare i suoi peggiori difetti, come la sua eccessiva dipendenza dai tic e dalle nevrosi di quel cinema della provincia americana, quello stile indie che ha fatto la fortuna di molti suoi colleghi negli anni 90, ma che al giorno d'oggi ha francamente stancato. Ma preferiamo parlare e dire la nostra attraverso i suoi film. Per questo, buona lettura.



5. BLING RING
(The Bling Ring, 2013)

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4. SOMEWHERE
(2010)

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Girando sul vuoto
È il 2010 quando Sofia Coppola vince il Leone d'Oro alla Mostra del cinema di Venezia, generando un malcontento di cui si porta appresso gli strascichi (almeno in sede critica). Eppure, "Somewhere" è la sua opera più matura, in cui l'estetica indie fa spazio a uno stile asciutto e, per certi versi, estremo, dove il vuoto esistenziale e generazionale al centro del suo cinema non è un mero orpello, un'aggiunta tematica ma l'asse portante di un progetto etico/estetico. Servendosi dei colori e della grana luministica di un ispirato Harris Savides, la Coppola racconta la dolce vita di Johnny Marco che scorre lenta girando a vuoto: il film ha come cerniere due scene-concept, ossia i giri con la Ferrari all'inizio e, prima della fine, Johnny in piscina che galleggiando sul materassino va fuori dall'inquadratura. L'attore protagonista occupa il tempo tra sbronze, psicofarmaci e qualche scopata casuale, tutto nel leggendario Chateau Marmont finché accidentalmente si ritrova in camera la figlia Cleo che successivamente la madre spedirà dall'ex-marito, per risolvere qualche problema. Ma in questa parentesi progressiva, che si ritaglia uno spazio nel vuoto, la Coppola è bravissima a non adagiarsi sul cliché del padre ritrovato, riuscendo a costruire un rapporto padre-figlia credibile sebbene superficiale. In questa non-storia di ritorno alla vita, la regista sfrutta alcuni procedimenti felliniani per inibire la comunicazione: in sottofondo c'è sempre musica ad alto volume, rombo di motore o rumori circostanziali. È un film che andrebbe rivisto oggi, a freddo, per coglierne la finezza compositiva e per notare come la figlia di cotanto padre abbia qualcosa da dire, ma preferisca suggerirla piuttosto che urlarla.
Giuseppe Gangi

Cinéma d'ameublement
Intercalato in una manciata di pellicole dal contenuto uniforme, "Somewhere" rischia di essere accantonato come l'ennesima variazione sul tema della solitudine e il vuoto esistenziale. Emerge, invece, per forza di stile, per l'abilità di Sofia Coppola nel portare alle estreme conseguenze - e cioè costringere all'essenziale - quel suo minimalismo ovattato, che rovescia d'un colpo i fasti paterni e rinuncia all'introspezione, allo scavo di mondi interiori, per darci, con naturalezza, il puro sentire dei personaggi. Oltre la zoppia di certi passaggi in cui si avvertono più spinte le astuzie di una scrittura sovrastante, "Somewhere" si presenta disadorno, un distillato di visioni insistite e sospese, che riempiono gli occhi e assecondano il libero fluire dei pensieri. Pur pago di un Leone d'Oro, il film si è conquistato il discutibile onore di scontentare tutti: ondivago e sonnolento per il grande pubblico, grossolano e meccanico per la critica, condivide il destino degli ultimi, incompresi brani di Erik Satie, di cui possiede per intero la forza ipnotica e la stupenda levità.
Matteo Pernini


3. MARIE ANTOINETTE
(2006)

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Plainsong
Sofia Coppola è da sempre interessata agli adolescenti. Alle ragazze, in particolare. Ragazzine angosciate dalla solitudine, o mogli troppo precoci: affascinate e intristite dalla stessa gabbia dorata in cui sono imprigionate dalla famiglia o dalla società cui appartengono. Gli uomini sono adulti con tutte le caratteristiche di ragazzini spaesati e immaturi (Lost in traslation, Somewhere). Un'adolescente viziata e infelice, sposata a un autentico imbecille: ecco la regina e il re di Francia in "Marie Antoinette", il risultato più deviante e più riuscito della filmografia di Sofia Coppola. Il film si fa amare per la spavalderia con la quale ci fa intendere che non si sta parlando (soltanto) della regina al tempo della Rivoluzione. La colonna sonora meticcia, in cui al repertorio del Settecento si accostano i brani new wave ed elettronici con cui la Coppola da sempre accompagna i suoi film, è un'idea spregiudicata e felice: quei suoni ammantano di una patina più che malinconica l'accecante caleidoscopio pop che costituisce la superficie del film. La Coppola affoga la sua povera Maria Antonietta in un tripudio di colori sgargianti - ghiottonerie, abiti e accessori - che fanno della reggia di Versailles una gabbia dorata non così lontana dalle ville delle star di "Bling Ring".
Stefano Santoli

Lost in Versailles
La Regina di Francia come una teenager inquieta, alla dolorosa ricerca di sé. Un progetto ambizioso, rischioso, spericolato. Dopo Il giardino delle vergini suicide e Lost in Traslation, Sofia Coppola piega la Storia alla sua poetica personale per tornare a investigare il disagio di un'adolescente irrisolta, vittima di un mondo che la imprigiona in uno stato di cattività permanente. Poco importa se quel mondo è una casetta sprofondata nella più conformista provincia americana, un lussuoso albergo giapponese o una corte frenetica e sfarzosa. Marie Antoinette è dunque ancora una volta un film su un sentimento e uno stato d'animo, un delicato e sincero racconto di formazione, un' intensa storia di solitudine, adolescenza e maturazione. Un film in costume, certo, ma non storico. Ci vogliono il coraggio e la coerenza di un vero Autore per rivendica una simile libertà creativa. Sofia Coppola lo è.
Stefano Guerini Rocco

La Storia secondo Sofia Coppola
Ad oggi, "Marie Antoniette" è il film più coraggioso, contestato e indifeso della (ancora) esigua filmografia di Sofia Coppola. Presentato in concorso al Festival di Cannes del 2006, il terzo film della regista newyorkese ricevette qualche fischio e diverse stroncature sia da parte americana che francese. Quello che le venne rimproverato fu d'aver fatto, della sposa di Luigi XVI, un ritratto troppo pop e superficiale. Tale difetto è invece il punto di forza non solo del film, ma di tutta la sua carriera. Il film vive in bilico tra una rigorosa ricostruzione storica nei luoghi reali (la vera Versailles) e una rivisitazione in chiave moderna, corredata da volontari anacronismi. Il tutto frullato da una colonna sonora pop e classica (da Antonio Vivaldi a i Bow Wow Wow e i New Order). Il risultato è una Maria Antonietta post moderna, sintonizzata al gusto contemporaneo e, per questo motivo, fuori tempo. Sembra di vederla vivere in un acquario e diventare sempre più incosciente di quello che sta per accadere. È l'ennesimo personaggio fanciullesco e anticonvenzionale, attraversato dagli entusiasmi e le ansie adolescenziali. La rivoluzione rimane fuori campo e il film racconta solo la vita di corte. Solo un accenno al tragico epilogo: la giovane ragazza allunga il collo per sporgersi dalla finestra. È il modo audace e seducente di Sofia Coppola di raccontare la Storia.
Alessandro Corda


2. IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE (The Virgin Suicides, 1999)

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Gli anni spezzati
Raccontando delle sorelle Lisbon e del loro tragico destino, l'esordiente Sofia Coppola mette in scena la prima tappa ("Lost in Translation" e "Marie Antoinette" completano la sequenza) di un'emancipazione personale e cinematografica che trasfigura quella intrapresa dalla regista nei confronti dell'ingombrante genitore, messo in discussione dal punto di vista artistico attraverso figure femminili se non ribelli, certamente fuori della norma per la forza con cui cercano di ritagliarsi il proprio posto nel mondo. "Il giardino delle vergini suicide" nonostante la dose di reminiscenze Coppoliane, alimentate dalla nostalgia nei confronti di un passato che non può più tornare ("Peggy Sue si è sposata", "Il giardino di pietra") trova la sua strada nel delicato romanticismo con cui descrive il paradiso perduto di una giovinezza interrotta anzitempo. Tra vecchie glorie e nuove scoperte a essere davvero indimenticabile è la Lux di Kirsten Dust. A lei va il nostro cuore e quelli di coloro che hanno amato il film.
Carlo Cerofolini

La fanciulla in fiore
Crescere all'ombra della barba di un padre che ha girato alcuni dei più grandi capolavori della storia del cinema, in una famiglia di artisti, non dev'essere semplice, anche se in tanti vorrebbero fare cambio. Soprattutto perché, se porti un nome così pesante, puoi essere agevolata nel fare il tuo primo film, ma di sicuro ti aspetteranno al varco. Allora per provarci racconti una storia solida, all'ombra di fanciulle in fiore. L'adolescenza e gli inganni della famiglia, le bellissime sorelle Lisbon rinchiuse nella stupida e grigia prigione dell'ottusità nella provincia borghese. Sì, americana, perché un po' di critica socio-politica devi mettercela. Passi il primo esame, e allora non sei più solo la figlia del grande regista, ma la regista talentuosa che finirà per vincere Venezia. E poco importa se a consegnarti il Leone d'Oro sarà il tuo ex. Sofia Coppola centra l'esordio, confeziona il film successivo con cautela e stile ("Lost in Translation"), e poi, quando arriva il momento di trovare se stessa ("Marie Antoinette") si perde, scivolando verso opere via via più piatte, ostentate, grigie e di maniera.
Davide De Lucca

Urla nere e prati verdi
Il lavoro più convincente della regista newyorkese coincide con la sua opera prima presentata alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes. Un esordio sfavillante e audace sia per quel che concerne la forma (con quel linguaggio adolescenziale tipicamente “indie” che sarà ripreso qualche anno più tardi anche da Jason Reitman), sia per l’'ambiguo, dunque coraggioso, contenuto della pellicola. “"Il giardino delle vergini suicide"” è un’'opera grottesca e claustrofobica che disegna uno spaccato dell’'America borghese degli anni 70, focalizzando l'obiettivo su una famiglia tanto inflessibile e perbenista quanto anaffettiva, improntata sull'’ossessione cattolica e sulla negazione della libertà in concomitanza con il tragico destino dell’'emancipazione adolescenziale. Giano bifronte delle più celeberrime pellicole di John Hughes, la forza del film è proprio quella di imprimere la tragedia ostentando colori vivissimi (i giardini ornati alla “Blue Velvet”) e soavi suoni (la meravigliosa colonna sonora degli Air) che paradossalmente amplificano, anziché eclissare, il lancinante dolore trattenuto a stento dalle cinque ragazze. Un esordio che, visto oggi, ha altresì il sapore del rimpianto, considerate le ultime scricchiolanti prestazioni dell’'autrice figlia d’'arte.
Matteo De Simei


1. LOST IN TRANSLATION - L'AMORE TRADOTTO (Lost in Translation, 2003)

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Un momento di serenità
"Lost in Translation" è romanticismo declinato in chiave contemporanea, un riuscito esperimento di commedia sentimentale che riflette sul nostro tempo, in modo assolutamente brillante e leggero. È un film di un ottimismo incredibile, che fa della possibilità di rivedere il proprio futuro in chiave migliorativa quasi una necessità ineludibile. L'amicizia-affetto-amore fra Bob e Charlotte è la scintilla in due vite schiacciate dalla quotidianità, dalla solitudine, dal senso inutilità delle azioni ripetute per senso del dovere. Non succede quasi nulla in questo accenno di storia d'amore, ma la Coppola fa deflagrare tutto in pochi istanti, nel finale. Forse non c'è avvenire per questa love story, certo, ma il senso più profondo di ciò cui abbiamo assistito basta a riaccendere la fiducia nella propria esistenza. Insomma, sembra una cosa da poco e invece è tantissimo.
Giancarlo Usai

Tokyo Love Story
Commedia di rara eleganza, che non rinuncia ai silenzi se mancano le parole. L'incontro fra due persone lontane da casa e dai rispettivi ideali di vita. Bob (Murray) è un attore americano in declino, sposato da venticinque anni, sedici al netto del tempo dormito: il matrimonio sopravvive, l'amore no. Charlotte (Johannson) è una giovane laureata che accompagna il marito fotografo nei suoi viaggi di lavoro: il matrimonio è all'inizio, l'amore forse già finito. Ospiti di un lussuoso hotel di Tokyo i due si confidano senza "traduzione", mostrando i propri limiti. I sentimenti sono assorbiti dallo sfavillio dei neon, si spandono nelle panoramiche di Tokyo per poi raccogliersi negli interni insonorizzati. L'amore è raccontato senza proclami, affiora nei dialoghi, dai toni sempre contenuti, come anche nei gesti, nelle atmosfere, persino nel karaoke. Se certo non è facile dimenticare la scena di apertura - le mutandine salmone che sobriamente traspaiono il fondoschiena della Johannson - ancor più memorabile è l'abbraccio che separa i due protagonisti: nessuno sa quel che si sono detti, a parte Murray, la Johannson e ognuno di noi.
Lorenzo Taddei

Perduti e ritrovati(si)
Un maturo attore in trasferta in Giappone per girare uno spot pubblicitario; una giovane moglie trascurata dal marito preso dal lavoro. Due solitudini a confronto, due naufraghi perduti nel mare della vita approdati in una Tokyo notturna, aliena, terra di mezzo, dove nella traduzione della realtà va sempre perso qualcosa. Bill Murray rinasce incontrando Scarlett Johansson; Scarlett Johansson rifiorisce nell'abbraccio di Bill Murray. La Coppola narra con delicatezza e misura la nascita di un amore puro tra due persone che s'incontrano per caso. Un'opera lieve come una carezza, curativa per la solitudine dell'anima di un qualsiasi viaggiatore della sera.
Antonio Pettierre