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Speciale Spy Story

Quando il caos regna, al cinema ci piace sognare di persone con abilità eccezionali che compiono imprese incredibili, svelano intrighi e complotti, determinano il corso degli eventi invece di esserne travolti. Ai supereroi per adulti detti "agenti segreti" dedichiamo questo speciale a ridosso dell'uscita de "La talpa" di Alfredson, con una lista dei migliori film di spionaggio selezionati dalla nostra redazione

Il fascino discreto della spia. Deve essere qualcosa di molto vicino ai sentimenti più profondi dell'uomo, la paura e la minaccia incombente. Ma anche il fascino del mascheramento, dell'eroe che opera nell'ombra, in incognito, che svela i trucchi, che conosce i giochi di potere, sempre freddo e a suo agio. Il tema del doppio, amplificato dal cinema, con l'attore che finge di fingere. Un eroe non solo forte fisicamente, ma prima di tutto estremamente furbo e intelligente: senza essere un superuomo, è dotato di capacità eccezionali, memorizza strade, date, lingue tanto da cavarsela ovunque. E, non ultimo, conquista facilmente l’altro sesso.
I film di spie sono capaci di diventare intrattenimento "di genere" senza pensieri, quanto di riflettere le tensioni politiche della propria epoca. E forse per questo hanno spesso affascinato i maestri della regia.

1. Prime Spy Story
Il cinema subisce la seduzione dell'agente segreto fin da subito, nell'epoca del muto, e paga un grande debito alla letteratura di genere mescolata alla paura dell'invasione straniera. Siamo nell'Inghilterra del 1914 quando vengono realizzati "The German Spy Peril" e "O.H.M.S". Ma tra la fine degli anni venti e l'inizio degli anni trenta è Fritz Lang a porre il suo marchio con film come "L'inafferrabile" (1928), "Il testamento del dottor Mabuse" (1933) e più avanti con "Il prigioniero del terrore" (1944), proponendo alcuni temi e situazioni che diventeranno ricorrenti.
A rendere però il genere ancora più popolare nel decennio successivo ci pensa un maestro della tensione come Alfred Hitchcock che trova qui il suo terreno più congeniale: "L'uomo che sapeva troppo" (1934), "Il club dei 39" (1935), "Amore e mistero" (1936), "Sabotaggio" (1936) e "La signora scompare" (1938). Hitchcock racconta spesso l'uomo comune coinvolto suo malgrado in un "Intrigo internazionale" raggiungendo il suo apice con il capolavoro del 1959.
Negli anni quaranta e cinquanta, durante la seconda guerra mondiale, le spie sono principalmente narrate nel contesto del conflitto bellico come infiltrati nei reciproci schieramenti.

2. Guerra Fredda
Il genere della spy story nel cinema, come detto, è legato alla letteratura. Gli autori che prestano le loro storie al grande schermo sono moltissimi e tra i più famosi ricordiamo Somerset Maugham, John Buchan, John Le Carré, Len Deighton e Ian Fleming. Di quest'ultimo l'invenzione del più celebre agente segreto, quel James Bond che a partire dal 1962 con "Agente 007 - Licenza di uccidere" conta una serie di sequel che arrivano fino allo scorso decennio. Lo scrittore inglese prima tenta di portare la sua creatura in tv con la serie "Climax! Casino Royale" che riscuote poco successo, e dopo lo scarso interesse dimostrato tra gli altri da Alexander Korda prima e dallo stesso Hitchcock poi, trova l'entusiasmo di Albert R. Broccoli e di Harry Saltzman con con la EON Productions realizzano i 22 film "ufficiali" tratti da romanzi e racconti di Fleming. Mescolati al fascino dell'esotico e decisamente modaioli, i film di Bond si aggiorneranno di epoca in epoca. La fortunata saga di 007 ispira una serie di imitazioni (tra cui le serie con protagonista Derek Flint e Matt Helm) di cui la televisione non è immune ("Organizzazione U.N.C.L.E", "Le spie", "Danger Man", "The Avengers"), oltre alle parodie ("James Bond 007 - Casino Royale" con Peter Sellers).
Durante la guerra fredda il punto di vista è ovviamente occidentale e il pericolo viene dall'est, così come per il cinema di fantascienza coevo made in Usa dove l'alieno è idealmente orientale. La straordinaria popolarità della spy story negli anni sessanta, tanto nel cinema quanto nella letteratura, è dovuta anche al contesto storico: così come durante le due guerre si respirava la paura dell'invasione, negli anni sessanta il pericolo atomico e soprattutto la Guerra Fredda ispirano diverse vicende come "La spia che venne dal freddo" (1965) di Martin Ritt e "Chiamata per il morto" (1966) di Sidney Lumet - entrambi tratti da John Le Carré. Dallo stesso autore verranno tratti anche "Lo specchio delle spie" (1969) e più recentemente "La tamburina" (1984), "La casa Russia" (1990), "Il sarto di Panama" (2001), "The Constant Gardener - La cospirazione" (2005) e l'ultimissimo "La talpa" (2011).
Negli anni successivi il genere non rimane immune all’influenza della Hollywood progressista degli anni settanta che, portando la guerra in casa come predicavano i Weathermen, crea veri capolavori del genere come "La Conversazione" (Palma d’oro a Cannes nel 1974) e "I tre giorni del condor" (1975).
Infine in un genere che col tempo si fa via via più codificato non possono mancare le parodie: "Se tutte le donne del mondo" (1966), "OK Connery" (1967), fino a "Spie come noi" (1985) e più recentemente "Spia e lascia spiare" (1996), "Johnny English" (2003) e "Agente Smart - Casino Totale" (2008).

3. Caos globale
Quando nel ‘92 Fukuyama scrisse che la storia era finita, tutti gli appassionati di spy story tremarono, perché senza conflitti, intrighi e rischi per l’umanità, non c’è evidentemente materiale per agenti segreti. Riposizionarsi in un mondo in cui lo scontro frontale si era mutato in un caos continuo non fu facile per i nostri eroi - si veda il bel "Ronin" (1998) di Frankenheimer - ma, fortunatamente, dopo pochi anni fu chiaro che Fukuyama si sbagliava e gli agenti segreti tornarono alla grande. Tom Cruise con la serie di "Mission Impossible" rilanciò la sua carriera e chiamando a dirigere registi con personalità dette una scossa tematica e stilistica al genere, all’epoca ingessato negli improponibili film di Noyce con Harrison Ford ("Giochi di potere", 1992), schematici nel patriottismo quanto nella regia. Ma l’eroe delle spy story del mondo globale è senza dubbio il Damon/Bourne degli episodi della trilogia diretti da Greengrass, nei quali la potenza stilistica, la riflessione geopolitica e l’azione incessante (i tre aspetti chiave del genere) si fondono mirabilmente al fine di incassare centinaia di milioni di dollari. Bourne definisce così chiaramente nuove regole da costringere James Bond a un (efficace) reboot e da generare cloni ("Unknown - Senza identità", 2011, di Collet-Serra). La popolarità delle spie è nuovamente sancita dal successo delle sue parodie ("Austin Powers" negli Stati Uniti, "OSS 117" in Francia). Ci sono inoltre numerosi autori che hanno contribuito al genere negli ultimi decenni, con pellicole che piegano la spy story a interessanti riflessioni stilistiche e/o politiche: Scott ("Spy Games", 2001), Mamet ("Spartan", 2004), Clooney ("Confessioni di una mente pericolosa", 2002), Spielberg ("Munich", 2005), Gaghan ("Syriana", 2005), Hood ("Rendition - Detenzione illegale", 2007), Tykwer ("The International", 2009), De Niro ("The Good Shepherd - L'ombra del potere", 2006), e nel loro modo geniale anche i Coen ("Burn after reading - A prova di spia", 2008). In queste pellicole, come nella serie Bourne, il "mondo segreto" non è più solo una cornice in cui ambientare storie spettacolari, ma diviene esso stesso oggetto di indagine.

4. 2012
Cosa ci aspetta per il 2012? L’anno è già cominciato bene con "La talpa" di Alfredson, film che tra l'altro rovescia l'idea della spia-macho presentandoci gli agenti come fragili e soli. Curiosamente potrebbero uscire nuovi episodi di tutte le serie di riferimento del genere: "Mission Impossible IV" di Brad Bird, ben accolto in patria, ma anche "Bourne Legacy" (senza Damon!) di Tony Gilroy che passa dalla sceneggiatura alla regia, e con un po’ di fortuna "Skyfall", cioè il James Bond versione Sam Mendes. Ma ci sono anche altre uscite interessanti, come "Safe House" di Daniel Espinosa, o "Knockout/Haywire" di Soderbergh con una sorta di Bourne femminile che speriamo ci faccia dimenticare l’orrendo "Salt" (2010) di Phillip Noyce. Katryn Bigelow sta invece rifacendo il suo film sull’uccisione di Bin Laden dopo che la realtà ha anticipato la fantasia, quindi non sappiamo se ce la farà per quest’anno.

Per non farvi trovare impreparati, ecco i consigli della Redazione di Ondacinema, con una lista di alcune tra le migliori Spy Story cinematografiche.


Il club dei trentanove - Alfred Hitchcock (1935)
"Il club dei trentanove" è il più famoso tra i film inglesi di Hitchcock e, probabilmente, il più memorabile. È una tappa fondamentale nel genere spionistico: il maestro orchestra la sua sinfonia con la leggerezza di un valzer viennese, con un un tocco paragonabile a quello che Ernst Lubitsch spargeva sulle proprie commedie. Facendo di un genere prevalentemente serio una miniera di trovate, gustose pennellate per delineare personalità sfaccettate dove, a prevalere, è lo scetticismo tra un essere umano e l’altro (anche la donna che aiuta il protagonista è a lungo dubbiosa sull’innocenza dell’uomo). Film d’inseguimento, addirittura d’avventura, spedito a velocità della luce fino alla fine: "Il club dei trentanove" si chiude genialmente con lo stesso spettacolo dell’incipit: i cattivi gironzolano intorno a una serie di informazioni custodite, guarda caso, da un uomo insospettabile. Hitchcock è troppo intelligente per ingarbugliare le carte: prende per mano lo spettatore, lo fa salire sulla sua giostra e lo rispetta al millimetro. (D.C.)

Il prigioniero del terrore - Fritz Lang (1944)
Fritz Lang, autore costantemente affascinato dalla dualità dell'animo umano, dall'onnipresenza di Bene e Male e sul ruolo della giustizia all'interno della società, ritorna su argomenti a lui cari in questo solido film di genere, che è anche una delle opere più genuinamente divertenti nella sua filmografia. Non si chieda troppa verosimiglianza in questo spettacolone pop (tratto da Graham Greene) in cui un poveraccio appena uscito dal manicomio è perseguitato da spie naziste che mirano a recuperare il microfilm nascosto in una torta da lui inavvertitamente vinta ad una festa di paese. Tra momenti di serrata suspense e caratteristi che non si dimenticano (il killer armato di forbici), Lang riesce a costruire un'atmosfera di vera paranoia in cui nulla è quello che sembra e dove il male non ha forme definite. Forse non tra i Capolavori del regista tedesco, ma merita la visione. (A.P.)
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Notorious, l’amante perduta - Alfred Hitchcock (1946)
Per Alfred Hitchcock lo spionaggio è un pretesto per imbastire una mistura di thriller e melodramma, è un contenitore per mescolare due ricette e portarle alle estreme conseguenze. L’antinazismo è innegabile, ma è altrettanto evidente che al regista interessa altro. Il film è imperniato su una struttura che sovrappone strati di tensione servendosi di elementi ossessivi, culminati dalla crescente suspense della scena del ricevimento e, soprattutto, dalla metafora - vero motivo conduttore - del bere: le tormentate inquadrature delle tazzine incutono allo spettatore un malessere che vuole avvicinarsi il più possibile a quello subito della protagonista. "Notorious" utilizza ancor prima che le capacità attoriali dei due protagonisti (comunque al loro massimo), la loro presenza, il carisma, gli sguardi, i volti iper-luminosi, per cospargere lungo tutta la pellicola una sensualità irrefrenabile. Alfred Hitchcock riversa la sua maestria su Cary Grant e Ingrid Bergman, ma si lascia a sua volta incantare dal loro fascino: le scene d’amore tra i due restano immortali. Un film assolutamente inebriante. (D.C.)

Operazione Cicero - Joseph L. Mankiewicz (1952)
Quello di Joseph L. Mankiewicz è un cinema di fantasmi che vanno e vengono, specchi frantumati, ping-pong di alta classe, grandi e piccoli giochi. Il regista non poteva non donare la sua classe a un genere dai molti tragitti come quello spy. Il film è basato su una storia realmente accaduta e già romanzata da L. C. Moyzisch in "Operation Cicero". Non è tanto nell’intrigo dell’agente segreto albanese Elyesa Bazna, che operò durante la seconda guerra mondiale (lavorò per i nazisti) che il regista sparge il suo gioco: non muove le pedine, ma è nelle movenze vellutate del suo protagonista (superbo James Mason) che trova il suo essere, svelando, nella memorabile risata finale la sua grande illusione. Così facendo è come se il genere si disfacesse: lettura impeccabile con continui rilanci di tensione (culminati nel tentativo finale di fotografare i documenti segreti), il ristabilirsi della Morale mette in discussione la rigidezza di altre spy-story, ponendo domande a se stesso oltre che allo spettatore. (D.C.)

Intrigo internazionale - Alfred Hitchcock (1959)
Un agente pubblicitario/uomo qualunque vittima di uno scambio di persona viene ingiustamente accusato di omicidio; coinvolto in un complotto internazionale tenta di scagionarsi da solo. Capolavoro straordinario e irripetibile, antologia di sequenze e scene tra le più analizzate nei libri di storia ed entrate nell'iconografia moderna (ma questo vale per tutta l'opera di Hitchcock), parodiate e omaggiate. Dal viaggio in treno di Cary Grant e Eva Marie Saint, all'inseguimento dell'aereo nel campo di grano, fino al gran finale sui monti Rushmore. La costruzione dell'intreccio e della suspense, l'ironia e l'eleganza dei dialoghi, la regia magistrale e i trucchi cinematografici: con Hitchcock il cinema esprime sempre la sua quintessenza. Ci si cala in un universo che ha a che fare con i sentimenti più profondi della natura umana, la paura e l'amore su tutto. Cameo nella prima parte con Hitchcock tenta di salire su un autobus. (D.D.L.)

Agente 007 - licenza di uccidere - Terence Young (1962)
Le musiche, i dialoghi, la grafica, il design, i colori, gli abiti, le bond girl, gli accessori, il Martini Vodka: James Bond non è solo la più lunga e celebre saga della spy-story, ma uno stile. Aggiornato e rinnovato di decennio in decennio per tecnologie e contesto storico-politico, Ian Fleming viene saccheggiato di ogni suo romanzo e racconto. Affascinante e implacabile, dal modo in cui declina le generalità a quello con cui appende il cappello nell'ufficio di Miss Moneypenny, il Bond di Sean Connery è quello più elegante per quanto i suoi successori saranno cotonati o palestrati. Il doppio zero del nome gli conferisce licenza di uccidere anche in Giamaica, dove opera la Spectre del Dr. No. Atmosfere esotiche e disimpegnate mescolate al pericolo atomico, con Ursula Andress che esce dall'acqua alimentando le fantasie di un'intera generazione: il primo Bond non è certo un capolavoro, ma un prototipo per quelli che seguiranno. (D.D.L.)
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Va' e uccidi - John Frankenheimer (1962)
Spy-thriller sullo sfondo della guerra in Corea e del maccartismo, è la storia del sergente Shaw (l’inquietante Laurence Harvey) che, catturato, subisce dai "rossi" un lavaggio del cervello che ne fa, a comando, un killer implacabile.
Capolavoro di Frankenheimer, le scene di battaglia iniziali rievocano il miglior Samuel Fuller, focalizzate sulla tensione emotiva dei combattenti, per poi trasformarsi in una storia sì di genere ma perfettamente assimilabile ai migliori drammi di Aldrich e Mankiewicz, intrisi di sudore (elemento ricorrente), isteria collettiva, alcolismo e un complesso edipico che trova il suo culmine nel triplo bacio (fronte, guancia e infine labbra) della cattivissima Angela Lansbury (sì, "la signora in giallo") al suo figliolo.
Bellissima Janet Leigh, più che in "Psycho". Finale con un apparentemente pigro montaggio alternato che giustifica la sorpresa finale. Nel 2004 ne è stato tratto un remake, di Jonhatan Demme, decisamente trascurabile. (P.C.)

Ipcress - Sidney J. Furie (1965)
In un universo parallelo il grande Michael Caine avrebbe potuto essere il primo indimenticabile volto di James Bond, l'agente 007. Nella realtà dei fatti ha invece impersonato la spia britannica Harry Palmer, personaggio inventato dallo scrittore Len Deighton, che tornerà anche in altre due pellicole ("Funerale a Berlino" e "Il cervello da un miliardo di dollari"). "Ipcress" resta però quella più memorabile: il tono è asciutto, più cinico e realista rispetto ai film di 007, la violenza è insistita per un prodotto del genere e si tira in ballo anche la manipolazione cerebrale come in "Va' e uccidi" di Frankenheimer. Ma soprattutto si ricorda la performance di Caine, spia dai modi garbati e dalla sottile ironia british, dedito al proprio compito per obbligo più che per vera passione (l'esotismo e le belle donne dei film con Sean Connery sono lontani anni luce). Una pellicola da rivalutare. (A.P.)

La spia che venne dal freddo - Martin Ritt (1965)
John le Carrè è tra i più grandi romanzieri del genere spionistico e certamente tra i più amati dal cinema (tra le altre: riduzioni di Lumet e Boorman, Schepisi e Meirelles). Prima della realizzazione de "La talpa" di Tomas Alfredson (2011), la più nota produzione tributata allo scrittore risale al 1965, anno di uscita de "La spia che venne dal freddo" di Martin Ritt. All’epoca il film venne visto come un anti-James Bond. Liddove l’agente segreto era un fascinoso gentiluomo che si lanciava in brillanti avventure (technicolor più colonna sonora sgargiante), qui i toni sono grigi (notevole fotografia di Oswald Morris) e l’impianto realista. Viene rappresentata la quotidiana noia del protagonista Alec Leamas. Se la sceneggiatura è un po’ macchinosa a destare ancora interesse è il personaggio principale interpretato da un mirabile Richard Burton: la piatta oppressione della messa in scena si fonde e si confonde con il suo essere. La spia ne viene sconfitta in tutti i sensi. (D.C.)

Agente speciale Mackintosh - John Huston (1973)
Bizzarra incursione del grande John Huston nel cinema di genere spionistico, "Agente speciale Mackintosh" è una pellicola inferiore alla somma delle sue parti. La sceneggiatura è firmata da un ancora giovanissimo Walter Hill, e Paul Newman nel ruolo del protagonista è come al solito in perfetto equilibrio tra glamour e perfezionismo. Ma in questo gioco di spie, dove l'agente britannico Newman si finge ladro di diamanti per infiltrarsi in un'organizzazione criminale e far uscire allo scoperto una spia, non tutto funziona come dovrebbe. L'azione è concitata e si sposta tra l'Irlanda e Malta, colpi di scena e doppi giochi si sprecano, ma l'impressione è quella di un prodotto freddo, macchinoso nel suo svolgimento, e con una patina di cinismo figlia dei tempi (erano gli anni della guerra fredda) appiccicata senza troppa convinzione. Solo per fan. (A.P.)

La conversazione – Francis F. Coppola (1974)
Non si parla di spie in questo capolavoro di Francis Ford Coppola. Ma di intercettatori e di intercettati. Film simbolo dell'America paranoica e senza linee guida dell'era Nixon e dello scandalo Watergate è un saggio disilluso e pessimista sulla solitudine umana e sull'impossibilità di trovare un senso nel caos dell'esistenza; ci prova, invano, l'investigatore privato Harry Caul-Gene Hackman che tenta di scovare la verità nel marasma di registrazioni da lui effettuate, e nei segreti di una giovane coppia d'amanti. Pellicola diretta con precisione geometrica, inquietante (la sequenza della sangue che riemerge dalla toilette non si dimentica), avanguardistica nell'utilizzo del sonoro (ad opera di Walter Murch) la cui importanza diventa pari, se non superiore a quella dell'elemento visivo. Ancora attualissimo, "La conversazione" è forse la vetta assoluta del regista di "Apocalypse Now". (A.P.)
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I tre giorni del condor – Sidney Pollack (1975)
Quando iniziano a girare "I tre giorni del condor" Robert Redford e Sidney Pollack si trovano nel momento migliore delle loro carriere: a un successo ottenuto con comunità d’intenti uniscono la visione di un cinema capace di mettere in discussione gli uomini e le loro storie. Una formula adatta alla storia di Joseph Turner (Robert Redford), nome in codice Condor, impiegato della CIA con l’incarico di decriptare eventuali informazioni contenute nelle pagine dei libri, sopravvissuto alla morte dei suoi colleghi sterminati da un fantomatico commando. Da un incipit crudele e spiazzante, Pollack mette in scena le paure di un America lacerata dalla guerra del Vietnam e sconvolta dallo scandalo Watergate. Uno smarrimento riprodotto dal protagonista, prototipo dell’uomo qualunque travolto da un bigger than life che lo porterà a confrontarsi con la Cia. Pollack racconta quel momento costruendo un congegno che si sviluppa come una partita a scacchi giocata sul filo della ragione e dell’intuito; scandita da tempi dilatati quanto basta per aspettare l’inevitabile errore dell’avversario. Ma anche nel gioco di specchi che impedisce fino all’ultimo la comprensione dei caratteri, quello di Jobert (uno splendido Max von Sydow) killer enigmatico e malinconico, e del vicedirettore Higgins (Cliff Robertson), sospeso tra ragion di stato e ammirazione per le doti del fuggiasco. Pollack è bravo a far convivere le parti arricchendole di pathos – l’amore impossibile tra il fuggiasco e la donna che finirà per aiutarlo – e di continua tensione. In bilico tra l’autorialità de "La conversazione" (1974) e il realismo di "Tutti gli uomini del presidente" (1976), questo film ancora oggi non ha perso neppure un grammo del suo appeal. (C.C.)

Spy Game - Tony Scott (2001)
Regia funambolica e chiassosa di Tony Scott per uno dei suoi film migliori, divertente e spettacolare. Due ore tutto d'un fiato a spasso per la storia della CIA e per la storia contemporanea, dal 1991 negli Usa e in Cina, a ritroso nel Vietnam nel 1975, Germania est nel 1976, Beirut nel 1985. Robert Redford/Nathan Muir nel suo giorno di pensione deve salvare il suo allievo, il "boy scout", Brad Pitt/Tom Bishop, finito nei guai e arrestato in una prigione cinese. Amore e amicizia prevalgono sui giochi delle spie. Un po' di retorica, qualche esagerazione di troppo e un rallentamento nella seconda parte, ma buona prova d'attori per quello che è stato anche un ideale passaggio di testimone fra due icone hollywoodiane. (D.D.L.)

Munich - Steven Spielberg (2005)
Racconto morale travestito da thriller politico, "Munich" di Steven Spielberg è, a qualche anno dalla sua uscita, un vero scrigno: quello dentro cui è custodita la poetica di un grande cineasta, capace, nel pieno della sua maturità, di forgiare qualsiasi storia al servizio del suo profondo umanesimo. Le avventure dei cinque agenti al soldo del Mossad che, nei mesi seguenti alle Olimpiadi di sangue di Monaco, girarono per l’Europa alla ricerca della vendetta, viene messo in scena con una doppia sensibilità. Da una parte, un’analisi utopistica sul perché alla violenza si cercò una risposta con altra violenza. E d’altro canto, ogni singola esecuzione contiene invece un sentito omaggio al cinema di genere, sia americano sia europeo, degli anni 70. Una duplice anima che fece molto discutere all’epoca della presentazione. Ma che, a distanza di più tempo, lascia il ricordo di una visione indimenticabile. (G.U.)

Casino Royale/Quantum of solace – Martin Campbell/Marc Foster (2006/2008)
"Casino Royale", primo capitolo di un reboot con Daniel Craig che arriva a rinfrescare l'immagine dell'agente 007, vede la nascita di un Bond nettamente anticanonico e completamente rinnovato sia nella veste fisica che in quella psicologica. Con il Martin Campbell del discreto "GoldenEye" (1995) alla regia, e fondandosi su una solida sceneggiatura di cui il Paul Haggis di "Crash - Contatto fisico" (2004) è scrittore illustre, "Casino Royale" si distingue dal resto dei film bondiani per il ritratto che offre di un agente 007 tormentato, rude, disilluso. Un Bond che, appoggiato dalla femme fatale Eva Green e dall'epico villain Mads Mikkelsen, sembra echeggiare una psicologia più propria dell'eroe noir che non degli 007 bellocci e sicuri di sé costruiti a partire da Connery fino a Brosnan.
A distanza di solo un paio di anni arriva, fatto senza precedenti nella storia delle pellicole bondiane, "Quantum of solace", un vero e proprio seguito per "Casino Royale", che riprende a narrare immediatamente dopo la fine del precedente. Se però "Casino Royale2 era un film davvero ben congegnato, "Quantum of solace" non manca di diversi punti oscuri nella narrazione, e la componente dell'azione torna ad essere quella intensa e ininterrotta di sempre: un sequel comunque discretamente riuscito, ma che fa rimpiangere più volte il perfetto equilibrio, la limpida scorrevolezza e le vette di tensione raggiunte dal primo capitolo. (G.M.)

The Good Shepherd – L’ombra del potere - Robert De Niro (2007)
La storia romanzata della CIA nell’arco di 25 anni, dai ’40 ai ’60.
Edward Wilson (Matt Damon) interpreta una sorta di kafkiano contabile della Ragion di Stato, spesso in conflitto con la ragione tout court; quando si trova di fronte la scelta più difficile prende la sua decisione finale.
Robert de Niro, col suo carisma, permette alla storia l’amalgama dell’ottimo cast: da Matt Damon a Angelina Jolie, da William Hurt a uno straordinario John Turturro, dal sulfureo Alec Baldwin a Joe Pesci. Caratterizzato da una fotografia funerea sullo stile di "C’era una volta in America" (1984), condivide con il capolavoro di Sergio Leone anche la struttura analettica, giocata su tre piani spazio-temporali a incastro (Germania 1940, Cuba 1961, Washington nei mentre e subito dopo) e la solitudine profonda del protagonista, oggi Matt Damon e ieri proprio De Niro-Noodles. Il risultato è un buon pasticcio, che ti rimane un po’ sullo stomaco. (P.C.)
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Mission Impossible – Brian De Palma/John Woo/JJ Abrams (1996/2000/2006)
Tom Cruise recupera una serie televisiva anni sessanta per ri-definirsi da adulto come star planetaria interpretando l’invincibile agente segreto supercool Ethan Hunt e chiamando alla regia diversi nomi di punta. Oggetto definente la serie: maschere facciali/vocali perfette grazie alle quali nessuno è mai chi sembra. Il primo episodio, interessante e intelligente, è diretto da Brian de Palma che si/ci diverte con i suoi soliti giochi di specchi. Cruise sospeso da cavi fa parte dell’immaginario mondiale cinematografico. Il secondo, adrenalinico, è girato da un John Woo al suo meglio che alterna scontri acrobatici a squisiti tocchi di stile. Nel terzo episodio JJ Abrams cerca di essere intimista ma purtroppo riesce solo ad essere scialbo. Ci auguriamo che Brad Bird faccia tornare la serie ai suoi standard di divertimento con stile nel quarto episodio. (A.M.)

Bourne – Doug Liman/Paul Greengrass/Paul Greengrass
(2002/2004/2007)
"The Bourne Identity", il primo episodio diretto da Doug Liman, introduce un personaggio senza memoria che si ritrova a combattere la CIA. La serie grazie al suo realismo riesce ad essere allo stesso tempo più coinvolgente e più minacciosa delle classiche serie di "spie infallibili con nemici grotteschi in giro per location esotiche". Ma sono il secondo e terzo episodio, diretti da Paul Greengrass, che fanno del Bourne interpretato da Matt Damon un personaggio chiave del cinema popolare del terzo millennio. Regia, suoni, fotografia, coreografia delle scene d’azione, tutto il livello tecnico definisce nuovi standard per i blockbuster hollywoodiani, mentre attraverso il percorso di redenzione di una singola persona la sceneggiatura affronta il passato e il presente delle crudeli, sporche guerre segrete condotte dagli USA. Il tutto strutturato in modo tale da essere in primo luogo appassionante per lo spettatore. Temiamo il quarto episodio privo di Damon e di Greengrass. (A.M.)




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