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Tappeto rosso a Berlino

Terminata da una settimana la 60esima edizione del Festival del Cinema di Berlino, diamo un'occhiata ai film vincitori e ad alcune delle pellicole che hanno caratterizzato il ricco programma della kermesse

Sessanta anni e non dimostrarli: poteva essere questo lo slogan della Berlinale 2010, visto e considerato che più passano gli anni più il terzo festival cinematografico europeo in ordine di importanza (dopo Cannes e Venezia, ovvio) sembra ringiovanire e rimodernizzarsi, dimostrandosi al passo coi tempi e soprattutto in grado di far interagire una città intera con l'evento mediatico che si presenta. Quest'anno, per esempio, lo speciale "compleanno" è stato festeggiato più che degnamente in apertura con la magnifica proiezione pubblica sulla Porta di Brandeburgo della versione restaurata e inedita del capolavoro di Fritz Lang "Metropolis", iniziativa che nonostante i meno 8 gradi del temibile inverno tedesco ha potuto contare su una partecipazione di pubblico imponente e meritata, segno di un affetto innegabile dei berlinesi nei confronti della loro storia e della loro cultura cinematografica. Ad ogni modo la selezione delle pellicole in programma, supervisionata dal direttore artistico Dieter Kosslick e coordinata da una giuria in cui a far da presidente era nientepopòdimeno che il signor Werner Herzog (fra gli altri comunque, anche la nostra Francesca Comencini), non ha lesinato anteprime importanti ed attese (Polanski, Scorsese, Zhang Yimou, Vinterberg, Baumbach, i nostri Soldini e Ozpetek, Heisenberg, Winterbottom, più l'esclusiva proiezione di "Welt Am Draht" di Fassbinder, film mai uscito finora), alterandole ad altre interessanti proposte provenienti da tutto il mondo e più adatte alla cornice prettamente "autoriale" che da anni contraddistingue il festival. Anche in questa occasione l'esito della giuria ha dimostrato la tendenza a premiare opere di minore portata mediatica, più che altro per valorizzarne e giustificarne l'importanza: l'Orso d'Oro è andato difatti a "Bal" ("Honey"), del turco Semih Kaplanoglu, terza parte di una trilogia (iniziata nel 2007 con "Yumurta -Egg") sulla difficile vita dei bambini in una regione aspra e povera come l'Anatolia. Fra gli altri premi da segnalare l'Orso D'Argento per la Migliore Regia a Roman Polanski, che però a causa delle famose vicessitudini giudiziare non è potuto essere presente a ritirare la statuetta, e i premi alla carriera per Hanna Schygulla, famosa musa fassbinderiana, e per Yoji Yamada, "vecchio maestro" del cinema giapponese.

E adesso diamo un'occhiata ad alcuni dei film presentati:

In concorso:

Shutter Island - Martin Scorsese

Uno dei film più attesi senza ombra di dubbio, l'ennesima collaborazione del regista americano col suo "nuovo De Niro" ovvero Leonardo Di Caprio. Questa volta le atmosfere sono però più cupe e tetre del solito: l'isola in questione è un penitenziario criminale disperso negli scogli della North American East Coast, e il protagonista è l'ispettore Teddy Daniels (Leonardo Di Caprio), chiamato ad investigare assieme ad un socio (Mark Ruffalo) in merito alla misteriosa scomparsa di una paziente all'interno della clinica psichiatrica gestita dal dottor Cawley (Ben Kingsley). Ovviamente le cose non sono come sembrano, e ben presto l'ufficiale scoprirà di avere a che fare non solo con presunti fantasmi all'interno della prigione, ma anche con quelli del suo passato, che lo legano alla defunta moglie Dolores (Michelle Williams). Scorsese vira decisamente su un thriller psicologico oscuro, morboso, misterioso: lo scenario, l'ambietazione e una fotografia superba lo aiutano a creare un'atmosfera di estrema inquietudine e angoscia, sia che si tratti degli spazi claustrofobici della prigione, di quelli selvaggi dell'isola o di quelli onirici della psiche. Forse si compiace un po' troppo in alcune scene, rallenta l'azione quando non dovrebbe, scivola più volte nell'horror senza convinzione, ma alla fine riesce comunque a convincere. Buoni gli attori, ottime le musiche raffinate ma comunque inquietanti (Lygeti per citare "Eyes Wide Shut").
Voto: 7 +


The Ghost Writer - Roman Polanski
Chi dopo "Oliver Twist" si aspettava un altro lavoro un po' "di maniera" da parte del pluripremiato regista polacco si trova di fronte invece ad un'opera di rara suspence e intensità, ben fatta ben girata e ben(issimo) recitata. Il potenziale thrilling del libro di Richard Harris c'era già tutto in fase di plot, qua viene ancor più evidenziato da una sceneggiatura asciutta, tirata, con dialoghi e battute che non sgarrano di un colpo, come stilettate di fioretto, ed un crescendo drammatico via via sempre più inesorabile e avvinghiante. Ewan McGregor è un "ghostwriter" di professione, ovvero colui il quale scrive sotto nome (e firma) di altri. Quando l'ex-primo ministro britannico Adam Lang (un Pierce Brosnan quanto mai in ruolo) perde il suo ghost di fiducia a causa di un non chiarito incidente, decide di assumere lui per terminare la sua biografia, proprio mentre uno scandalo di dimensioni internazionali scoppia e lo vede coinvolto in prima persona. Trasferitosi nella sua lussuosa villa sulla costa orientale degli USA, il nuovo "fantasma" capisce subito che avrà a che fare con segreti e rivelazioni ben più scottanti di quanto potesse mai immaginarsi. Perfetta la caratterizzazione dei personaggi e ovviamente la recitazione del cast, tra cui va segnalata una splendida Olivia Williams first lady nevrotica, spocchiosa e rassegnata, ma in realtà molto meno all'oscuro della faccenda di quanto si creda. E Polanski fa sentire la sua maestria con una sequenza finale da applausi.
Voto: 8


Mammuth - Benoit Delepine e Gustave Kervern
Il duo più anarchico e politically uncorrect di Francia torna in azione. Dopo la tragicomica "vendetta proletaria" di "Louise-Michel" non allontanano il loro sguardo cinico, grottesco e surreale da un orizzonte prettamente sociale, perchè anche in questo film ritroviamo le vicessitudini farsesche della classe operaia francese. "Mammuth" è il nome di una moto d'annata, ma è anche il soprannome del suo proprietario, un Gerard Depardieu che già dal look col quale si presenta in scena (capelli biondi e lunghe trecce sciolte) dimostra di sapersi prendere decisamente sul ridere come e quando vuole. Dopo una vita spesa a fare i più disparati lavori, è giunto finalmente il momento anche per "Mammuth" di andare in pensione. Se non fosse che nessuno dei suoi precedenti datori di lavoro gli ha lasciato un qualche documento ufficiale col quale poter ricevere la meritata paga. Tocca allora rimettersi in sella e attraversare la Francia alla ricerca di un pezzo di carta, ma anche della libertà, della voglia di non sentirsi inutile, del ricordo della giovinezza. Ma "Mammuth" è 'troppo stupido' per potersi meritare tutto questo. Come in "Louise-Michel" non mancano le scene comiche dovute più che altro all'assurdità e alla demenza della situazione, come in "Louise-Michel" la presunta 'stupidità' dei personaggi non fa altro che da motore per le più disparate e inutili azioni, ma qua stavolta c'è anche molto di più: c'è il ritratto di un personaggio sostanzialmente solo e disperato, sfatto nel fisico e nel carattere, stressato da una moglie ansiosa (una magistrale Yolande Moureau) e tormentato da un senso di colpa fatale (l'apparizione Isabelle Adjani), che cerca di liberarsi delle convenzioni e dalla burocrazia del mondo moderno fuggendo in sella ad una moto, come la più semplice delle vie di fuga. E alla fine si trova della poesia anche nel più sudicio dei mondi.
Voto: 8


The Killer Inside Me - Michael Winterbottom
Lo sceriffo Lou (Casey Affleck) è la legge. Nel suo piccolo paesino della provincia texana è rispettato e ammirato; i cittadini, i suoi colleghi, la sua fidanzata (Kate Hudson) si fidano totalmente di lui. Se non fosse che lo sceriffo Lou ha qualche problema in primis a fidarsi di sè stesso. La sua mente psicolabile e deviata, il suo passato criminale e il suo sentirsi "al di sopra della legge" lo porta difatti prima a invischiarsi in una relazione con una prostituta "scomoda" (Jessica Alba), poi ad ucciderla di botte senza tanti complimenti, poi ancora ad intrappolarsi in una spirale di omicidi, segreti e bugie dai quali non riuscità via via ad uscire più facilmente. Winterbottom ama come al solito provocare e anche stavolta sembra esserci riuscito: il film ha fatto gridare (un po') allo scandalo, ha fatto uscire molti spettatori dalla sala durante la proiezione, si è meritato anche qualche "buu" finale. Merito (o colpa) di una messa in scena che non risparmia praticamente niente: la scena dell'omicidio della prostituta per esempio, presa a pugni, calci e schiaffi come un animale, è mostrata quasi nella sua interezza ed è decisamente sconsigliata ad un pubblico sensibile (o anche solo femminista). Quello che manca però è tutto il resto: al di là della facile volontà di "scioccare" lo spettatore con un uso della violenza più che esplicito ed una rappresentazione del protagonista quasi "hannekiana" (figura impassibile, quasi insensibile a ciò che fa e che gli succede, sostanzialmente adatta ad innervosire ed indispettire chi la osserva) il film si regge praticamente sul nulla (storia inconcludente, sceneggiatura che sbanda, conclusione stupida); al punto che l'effetto finale smentisce ogni suo intento iniziale, e nonostante la bellezza delle attrici e la cura della fotografia rimaniamo freddi e distaccati anche noi, persino un po' annoiati. Winterbottom si conferma il più sopravvalutato degli "autori" contemporanei.
Voto: 4,5


Berlinale Special


Cosa Voglio di Più - Silvio Soldini
Anna (Alba Rohrwacher) incontra Domenico (Pierfrancesco Favino) alla festa d'addio di una sua collega di lavoro. Lui è il cameriere del catering. I due si reincontrano casualmente qualche giorno dopo. Si scambiano i numeri. Si danno appuntamento. Capiscono di piacersi. Fanno l'amore. Decidono di avere una relazione assieme. Tutto facile? No, perchè sia Anna che Domenico hanno una propria vita e una propria famiglia, un marito ignaro e bonaccione (Giuseppe Battiston) che la aspetta a casa nel caso di Anna, una moglie sospettosa e (Teresa Saponangelo) e due bambini nel caso di Domenico. Insomma: la precarietà dei rapporti umani capitolo due. Se col bellissimo "Giorni e Nuvole" Silvio Soldini ci aveva dimostrato concretamente come potesse una famiglia stabile e sicura finire nel lastrico in poche mosse, con "Cosa voglio di più" l'assioma si sposta stavolta nell'ambito delle relazioni sentimentali. Tutto è in bilico: famiglia, soldi, casa, lavoro. Tutto rischia di essere compromesso a causa dell'amore. Ne vale veramente la pena? Come al solito l'uso "realistico" della macchina da presa ci garantisce una vicinanza inevitabile nei confronti dei due protagonisti, certamente anche a causa della estrema fattibilità della storia narrata (e che nasce da un episodio reale capitato ad una parente del regista). La loro relazione clandestina, che ricorre a motel squallidi e a scarsi sotterfugi per poter sopravvivere, è l'esempio lampante della difficoltà di realizzarsi a pieno nella società odierna; il loro amore fugace eppure intenso colpisce sin dall'inizio per il trasporto che comunica e al tempo stesso per il destino segnato che lo deciderà. La Rohrwacher è finalmente perfetta nel ruolo da protagonista, ma anche tutti i comprimari tratteggiano i loro personaggi con credibilità e convinzione. Peccato solo che rispetto a "Giorni e Nuvole" non si vada molto avanti, sia come stile che come contenuto. Ma ci accontentiamo eccome.
Voto: 7


L'autre Dumas - Safy Nebbou
Arriva ancora dalla Francia una delle sorprese più gradite e sottovalutate di questa edizione. Un film che parla di nuovo di "ghostwriters", questa volta però riferendosi all'esempio forse più famoso di tale fenomeno nella storia della letteratura: quello di Alexandre Dumas, celebre autore dei "Tre Moschettieri" e del "Conte di Montecristo", e del suo presunto (ma neanche tanto) alter ego Auguste Maquet, ovvero colui che secondo la leggenda avrebbe in realtà scritto di proprio pugno tali capolavori. La storia dei due personaggi, interpretati degnamente da Gerard Depardieu e Benoit Poelvoorde, è però narrata secondo gli stilemi classici della commedia degli equivoci, per cui lo scambio di identità diventa qualcosa di inevitabile allorchè il timido, impacciato e passivo Maquet ha l'occasione di conquistare la bella Charlotte (Melanie Thierry, una copia quasi impressionante della nostra Carolina Crescentini), giovane rivoluzionaria che vede in lui colui che libererà il vecchio padre dalla prigione e condurrà i giacobini al potere, spacciandosi per l'irruento, carismatico, eclettico Dumas. Il gioco sarà ovviamente destinato a svelarsi, e la commedia piano piano a trasformarsi in dramma allorchè la Rivoluzione Francese comincierà a bussare alle porte dei protagonisti, eppure per un'ora abbondante ci si lascia trasportare più che volentieri in questo turbinio quasi leggiadro di bugie, fraintendimenti, ruoli e doppi ruoli più o meno voluti, situazioni e gag a volte molto divertenti. Il confronto Dumas/Maquet, basato tutto sulle opposte personalità dei due scrittori (l'uno geniale ma incostante, l'altro inappuntabile ma non dotato) e sul rapporto d'amicizia/rivalità di quest'ultimo nei confronti del suo "collega padrone" (dal quale sente di doversi liberare così come di dovergli rimanere fedele) è ben scritto e ben delineato, e ovviamente la dedica finale non vuole altro che riabilitare la memoria di uno dei personaggi più ignorati e taciuti della storia della letteratura francese. Godibile.
Voto: 7


Sezione Panorama


Due vite per caso - Alessandro Aronadio
Per il suo esordio, il giovane regista come Aronadio ha scelto sicuramente un tema non originalissimo, ovvero i giovani e le prospettive nel futuro, ma lo ha sviluppato -questo sì- in un modo personale ed interessante. Cosa succederebbe se la vita di un ragazzo qualsiasi (Lorenzo Balducci) si trovasse, per una pura fatalità, a sdoppiarsi in due vie differenti? Specificando: cosa succederebbe se una notte piovosa Matteo e il suo amico Sandro (Riccardo Cicogna) andassero a sbattere contro un'auto della Polizia, oppure cosa succederebbe se l'incidente venisse evitato? Dietro questo effetto sliding doors si cela piuttosto un messaggio e una domanda molto rilevante, che la scena finale chiaramente ispirata ai tragici fatti del G8 di Genova nel 2001 esplicita e ci rimbalza davanti: fino a che punto si può parlare di "vittime" e di "colpevoli", quando spesso e volentieri l'una e l'altra sono le due facce di una unica medaglia? In questo caso il senso di vuoto e la mancanza di prospettive della generazione "anni 2000" creano e decidono scelte in fin dei conti non  così estreme e opposte come sembra. Insomma, un'opera prima coraggiosa e tutto sommato anche non male: qualche citazione cinefila un po' fuori luogo (passi per i titoli di testa "godardiani", ma Truffaut non ci azzecca niente!), qualche personaggio un po' sopra le righe (il collega di caserma, il poliziotto cattivo), ma per il resto il tutto va senza dubbio sopra la media. Aspettiamo e speriamo, a questo punto, l'opera seconda.
Voto: 6,5




Tappeto rosso a Berlino