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recensione di Matteo Pernini
6.5/10

In un condominio nella periferia francese si avvicendano tre solitudini. L'inquilino Sternkowitz (Gustave Kervern), abitando al primo piano, non vuole contribuire alle spese per l'ascensore, ma un incidente in cyclette lo priverà momentaneamente dell'uso delle gambe. Il giovane Charly (Jules Benchetrit), trascurato dalla madre, soccorre la nuova vicina (Isabelle Huppert), attrice in declino rimasta chiusa fuori dalla porta. L'anziana madame Hamida (Tassadit Mandi) invita a casa sua un astronauta (Michael Pitt) erroneamente precipitato sul tetto dell'edificio.

Che questa quinta fatica di Samuel Benchetrit intenda muoversi agile, in punta di piedi, tra parentesi quotidiane e virate surreali lo capiamo al solo udire Clint Eastwood parlare in francese, in un passaggio televisivo de "I ponti di Madison County". Occorre un certo grado di imperturbabilità per non trasalire dinanzi a questo garbuglio di "oui" e "d'accord", di rotacismi, vocali arrotolate e accenti pastosi e ci auguriamo che il doppiaggio italiano abbia preservato questa soluzione straniante, che è, certo, il più grottesco - seppur involontario - lascito di un film, al quale rimproveriamo solo di non aver accentuato la nostra sorpresa optando per un episodio dell'ispettore Callaghan.

A prescindere dalle goliardiche parentesi linguistiche, "Il condominio dei cuori infranti" è un'operetta deliziosa, naturalmente minimalista e dal programmatico gusto poetico, tutta intenta a nobilitare la quotidianità per virtù di stile, con il fissarsi di uno sguardo pulito ed essenziale che restituisce la vita in attoniti quadri fissi.
Benchetrit parte da una sua raccolta di racconti in quattro volumi, "Les Chrnoniques de l'Asphalte", per rielaborare ricordi ed esperienze di gioventù; da ciò quell'idealizzazione dello sguardo, quel respiro quieto, di soffusa e malinconica ironia, che ha allarmato parte della critica, timorosa di mancare l'appuntamento con il consueto campionario di prevaricazioni, violenze e tensioni razziali, che animano da due buoni decenni l'immaginario cinematografico delle banlieue. Che il libero amarcord del regista collimi o meno con la realtà in atto, poco importa: non è, in fondo, uno spirito di critica rappresentazione a muovere Benchetrit in questo indugio nelle pieghe degli affetti. Non per un istante dubitiamo della sua sincerità, dell'amore sconfinato che egli porta ai suoi personaggi, all'intero universo, vorremmo dire, delle periferie, col loro carico di solitudini stipate in mucchi di edifici fatiscenti. Con tutte le correzioni umoristiche del caso.
E proprio la risata è il punto di partenza per Benchetrit, che declina le sue vivide memorie di infanzia nelle tonalità lievemente surreali del sogno, svolgendo dinanzi allo spettatore un nutrito catalogo di risorse comiche: dall'impiego di una logica ferrea nel montaggio, che, contraendo i tempi, concatena i quadri in rapida successione per produrre senso - si veda la muta progressione cyclette/ospedale/uscio in cui è scomposto l'incidente di Sternkowitz - all'uso degli spazi - la sequenza della riunione condominiale - sino ai più tradizionali espedienti delle aspettative rovesciate - il centralino della NASA che lascia in attesa sul più celebre walzer di Strauss - e delle incomprensioni linguistiche - i graziosi siparietti tra l'astronauta statunitense e madame Hamida.

Pur franto in episodi sconnessi, il film non patisce la frammentarietà di prodotti analoghi, in virtù di un'unità sentimentale che ne guida gli esiti più riusciti. E sebbene i registri subiscano differenti progressioni - più compatti nel procedere dall'ironia iniziale a una allegra malinconia gli episodi di Sternkowitz e dell'astronauta, meno centrato (e, in fondo, più convenzionale) il frammento con la Huppert (l'unico scritto per l'occasione) - si rivelano, infine, complementari nel descrivere lo spettro emotivo del film, che, d'altra parte, non riserva grandi sorprese e si adagia su un sentimentalismo mai ruffiano, ma, certo, un po' facile, privo com'è di veri conflitti.
Praticando, Benchetrit, un cinema della memoria, intimamente divertito e nostalgico, sarebbe ineducato pretendere da lui altro che una delicata elegia del suo mondo interiore. Sorprende, in questo senso, la tremenda umanità di alcuni gesti di Sternkowitz, pure imbrigliato, come gli altri, nella rete di un racconto che non dubita mai di elargire una facile ricompensa all'emotività dei suoi spettatori. Tornato dall'ospedale, cerca di prendere l'ascensore, ma non appena si accorge che qualcuno lo sta usando ritira il dito e si affretta a fingere di controllare la posta. Ben lontano dall'assumere un atteggiamento colpevole, non è la vergogna per la propria meschinità a trattenerlo, ma la paura di essere scoperto, giudicato e rimproverato. A essere franchi, non tardiamo a riconoscere in questa immagine il segno dei piccoli egoismi quotidiani, che hanno, talvolta, la meglio sulle nostre più nobili intenzioni. Sternkowitz ci assomiglia più di ogni altro personaggio di questa comédie humane, ci rappresenta e, in ultima analisi, ci redime grazie a una caparbietà in odore di ammirazione.
Pur lontano dagli esiti del precedente "J'ai toujours rêvé d'être un gangster", "Il condominio dei cuori infranti" merita una visione, fosse anche solo per questo.

Nota a margine: Che il doppiaggio abbia le sue regole è risaputo, che agli spettatori esse sfuggano pure. Nella nostra ignoranza continuiamo a sperare che un filo di buon senso e un sano rispetto per l'opera originale muovano le decisioni di chi vi si dedica, ma tocca scoraggiarsi. Ne "Il condominio dei cuori infranti" il rapporto tra l'astronauta e l'anziana che lo ospita (lui statunitense, lei francofona) verte sull'ostacolo del linguaggio e la loro incomprensione non dà solo l'avvio a momenti umoristici, ma prelude alla nascita di un reciproco affetto, di una comunione di gesti e suoni, che non teme l'assenza di parole. Dare a entrambi la stessa lingua (sorvoliamo sugli accenti) è, dunque, un'operazione sconsiderata, che tradisce il senso del loro rapporto e ridicolizza i personaggi nella misura in cui li vediamo ricorrere a gesti enfatici per comunicare qualcosa che si sono già detti a parole. Viene da chiedersi quale perversa distribuzione possa ritenere appetibile un simile scempio. Dal leggendario doppiaggio de "Il disprezzo" di Jean-Luc Godard sono passati cinquant'anni, ma, a quanto pare, non è cambiato niente.


27/03/2016

Cast e credits

cast:
Isabelle Huppert, Gustave Kervern, Valeria Bruni Tedeschi, Tassadit Mandi, Jules Benchetrit, Michael Pitt


regia:
Samuel Benchetrit


titolo originale:
Asphalte


distribuzione:
Cinema


durata:
100'


produzione:
La Camera Deluxe, Maje Productions, Julien Madon


sceneggiatura:
Samuel Benchetrit


fotografia:
Pierre Aim


scenografie:
Jean Moulin, Gabor Rassov,


montaggio:
Thomas Fernandez


costumi:
Mimi Lempicka


musiche:
Raphaël Haroche


Trama
In un condominio nella periferia francese si avvicendano tre solitudini. L'inquilino Sternkowitz (Gustave Kervern), abitando al primo piano, non vuole contribuire alle spese per l'ascensore, ma un incidente in cyclette lo priverà momentaneamente dell'uso delle gambe. Il giovane Charly (Jules Benchetrit), trascurato dalla madre, soccorre la nuova vicina (Isabelle Huppert), attrice in declino rimasta chiusa fuori dalla porta. L'anziana madame Hamida (Tassadit Mandi) invita a casa sua un astronauta (Michael Pitt) erroneamente precipitato sul tetto dell'edificio.