Ondacinema

recensione di Diego Capuano
7.0/10
Come un riflesso che concentra lo sguardo dello spettatore e le immagini che scorrono sul grande schermo, come i passi di un balletto (della vita), come un susseguirsi di sguardi ed espressioni rivolti a uno specchio o a una macchina da presa, "Gli abbracci spezzati", con uno schema a scatole cinesi avanza con andamento concentrico.
Il set è ispezionato con alternanze verticali e orizzontali, nel set si riversa la tragicità della vita e nella vita si riversa la passionalità del risultato (il film) prodotto sul set. Luogo d'amore e di guerra, il set brucia di carne. Anche lo schermo si incendia.

Il tema del doppio è evidenziato sin dal principio dalla voce narrante. "Fin da giovane mi ha sempre attratto l'idea di essere un'altra persona, oltre a me stesso. Vivere una vita sola non mi bastava", dice il regista protagonista. I personaggi entrano ed escono dal set, si sdoppiano, indossano parrucche e nomi nuovi di zecca, donano sorrisi distribuiti senza uniformità. La vita sembra troppo piccola per bastare. Quando i due amanti guardano in un momento di intimità "Viaggio in Italia", capolavoro di Roberto Rossellini del 1953, l'uomo fotografa sé e le lacrime dell'amata, immortalando il risultato della visione. La fotografia inquadra bene il condensarsi del reale e della finzione, lo sposalizio tra percezioni visive e regole del cuore. Qual è la verita? Che tragitto intraprende l'autenticità dello sguardo?
Una volta che sei entrato dentro il cinema non puoi uscirne. Vale per i personaggi de "Gli abbracci spezzati", vale per lo spettatore. Nel corso del XX secolo la forza del cinema ha avuto non soltanto un'indiscussa influenza sul modo di percepire e studiare la forza dell'immagine intesa come arte visiva, ma è finita con il riversarsi sul vivere quotidiano, sull'espressività di un volto o sui colori di una spiaggia soleggiata.
Una volta catturata la percezione visiva, il cacciatore di immagini conserverà sempre e comunque l'occhio clinico dell'artefice di queste prospettive visive, che con gli anni hanno acquistato maggior spessore, caratterizzazione. L'occhio è compagno e forse anche un po' prigioniero, anche se cieco.

Almodóvar si serve di quello che è forse - con il western - il genere cinematografico mitico per eccellenza, il noir, per imbstire una dichiarazione d'amore per il cinema. Facendo ciò, il cineasta pur facendo (ri)vivere il cinema che più ama non parla necessariamente di sé e del suo cinema. La sua non è un'auto-analisi, un bilancio della propria carriera professionale. Soltanto poche caratteristiche di Mateo Blanco/ Harry Caine gli appartengono direttamente. Non mette dunque in scena un suo ideale alter-ego, ma un personaggio/ collega con una vita propria che, inevitabilmente, finisce con l'accomunarsi a lui.
"Gli abbracci spezzati" non è dunque, come lo si è sbrigativamente bollato, il suo "8½", quanto piuttosto una sorta di personale "Il disprezzo".
L'incipit del film di Godard recita: "Diceva Andrè Bazin che il Cinema sostituisce al nostro sguardo il mondo che desideriamo. Il disprezzo è la storia di questo mondo". La citazione baziniana si addice anche all'ultima pellicola di Pedro.

Questo cinema sul cinema e nel cinema filtra attraverso un erotismo messo in scena come al solito con maestosa carnalità, è tormentato da gelosia e possessione, tinte forti e cambi di ritmo, fatalità e sensi di colpa, desiderio, potere e amour fou.
Stavolta non ci sono le grandi e sublimi tragedie familari del passato, né lacrime. Il tono è raffreddato, qua e là si fa glaciale. Il coinvolgimento emotivo è premeditatamente raffreddato.
"Gli abbracci spezzati" manca di quella miracolosa armonia dei suoi grandi capolavori ("Parla con lei" e "Volver"). Non è molto probabilmente tra i migliori film di Pedro Almodóvar, ma è certamente uno dei più "inevitabili".
Non si accontenta di imprigionare lo sguardo Pedro Almodóvar, ma vuole rendere tattili le sue immagini, grazie anche al contributo di una fotografia (stavolta di Rodrigo Prieto) che sembra abbracciare, per l'appunto, i personaggi che guida.

Nel bellissimo finale i personaggi si fanno da parte e lasciano che sia il film nel film a parlare. Questa sorta di rilettura di "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" suggella il lavoro metacinmatografico ed evidenzia la filosofia di Almodóvar secondo cui la star (femminile) illumina lo schermo ancor più del regista stesso. E' Lena che, nel bene e nel male, si fa condottiera di tutti coloro che le girano intorno, film che sta realizzando compreso.
L'interpretazione di Penèlope Cruz è degna eppur diversa di quella straordinaria offerta nel precedente "Volver". Quando di rosso fuoco vestita ricalca la celebre sequenza delle scale di "Femmina folle" di John M. Stahl è impressionante.
L'accostamento a Audrey Hepburn non è improprio: Penèlope Cruz, quando diretta da Almodóvar, è forse l'unica attrice del cinema contemporaneo per la quale è giusto scomodare un termine che pur potrebbe sembrare azzardato: divina.
14/11/2009

Cast e credits

cast:
Penélope Cruz, Lluis Homar, Blanca Portillo, José Luis Gómez, Rubén Ochandiano, Tamar Novas, Angela Molina, Chus Lampreave, Kiti Manver, Lola Dueñas, Mariola Fuentes, Carmen Machi, Rossy de Palma, Alejo Sauras, Kira Mirò


regia:
Pedro Almodóvar


titolo originale:
Los abrazos rotos


distribuzione:
Warner Bros.


durata:
129'


produzione:
El Deseo


sceneggiatura:
Pedro Almodóvar


fotografia:
Rodrigo Prieto


scenografie:
Antxón Gómez


montaggio:
José Salcedo


costumi:
Sonia Grande


musiche:
Alberto Iglesias


Trama
Mateo Blanco era un apprezzato regista. Ora e cieco e firma soltanto lavori letterari, racconti e sceneggiature, e si fa chiamare Harry Caine. Perché? Come è diventato cieco? Dietro si nasconde una storia di passioni e tradimenti, gelosia e potere. E di cinema
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