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recensione di Matteo De Simei

“Nelle serate in cui il signore e la signora commentavano la psicologia “indigena”, si prendeva Diouana come testimonianza. I vicini dicevano: “è la Nera di...”
Non era Nera per se stessa. E questo la tormentava” (1)

“Diouana
Raggio delle nostre prossime albe
Tu sei vittima come i nostri antenati
Del baratto
Tu muori per il trapianto
Come i cocchi e i banani
Che popolano le rive di Antibes
Alberi trapiantati e sterili” (2)


Rivoluzione

Al tramonto degli anni Cinquanta Parigi rappresentava la roccaforte del cinema mondiale e ne condivideva l'auge assieme ai più grandi cineasti del post neorealismo italiano. Il lettore converrà sul fatto che sarebbe un delitto non ricordare la stagione del divismo e i più grandi classici di Hollywood che avevano il niveo merito di continuare ad alimentare il motore del mercato cinematografico. Il neorealismo prima e in seguito la Nouvelle Vague hanno però avuto un merito inestimabile in quel periodo: quello di aver creato per la prima volta un cinema “globale”. La ribellione e lo strappo ai canoni del linguaggio filmico, caratteri tanto peculiari quanto essenziali della corrente culturale francese, favorì enormemente la nascita di cineasti quali Wajda, Polanski, Trnka, Forman, Jancsò, Tarkovskij. Solo per citarne alcuni e solo per rimanere in ambito europeo. In Medio Oriente la poetessa persiana Farough Farrokhzad fu l'apripista alla nascita del cinema iraniano che portò ai capolavori di Kiarostami nel decennio successivo. In India Ritwik Ghatak e Satyajit Ray intrapresero la medesima strada. E ancora, cineasti quali Oshima, Yoshida e Imamura raccolsero l'eredità dei giganti dell'età d'oro per creare le basi del “Nuovo cinema giapponese”, mentre in Brasile il Cinéma Nôvo fondato da Glauber Rocha rappresentava forse la massima espressione della trasformazione/codificazione messa in atto dal resto del mondo in risposta alla “nuova ondata” europea.
E l'Africa? Non senza sorpresa, nel silenzio dell'abbandono delle sue terre e del suo popolo, la rivoluzione cinematografica abbarbicò anche nel continente nero, più precisamente in Senegal, paese di nascita di Ousmane Sembène, il padre del cinema subsahariano e l'uomo di cui raccontiamo la storia. Figlio di una povera famiglia di pescatori, Sembène si accostò agli studi e alla cultura da autodidatta e a vent'anni era già arruolato nella Seconda Guerra Mondiale tra le truppe coloniali francesi. L'avvicinamento al marxismo e al Partito Socialista senegalese lo portò a viaggiare tutto il mondo e a diventare uno dei più autorevoli scrittori a stretto contatto con la corrente letteraria della negritudine (3). Tra i suoi racconti Sembène evidenziò soprattutto il divario umano tra coloni e colonialisti, la necessità di una svolta politica, il rifiuto della rassegnazione e la voglia di insorgere rivendicando la propria origine, memoria e tradizione. Quando fece ritorno in patria nel 1960 aveva trentasette anni. Il Senegal era ormai uno stato libero e indipendente ma Sembéne doveva fare i conti con un ostacolo ulteriore che negli altri paesi del mondo era meno considerevole: il livello di analfabetismo pressoché totale del suo popolo. Da qui il cambio di rotta: “L'Africa del passato non tornerà più […] Come parlare a tutti gli africani? Le lingue limitano la comprensione. Il cinema è l'arte che ci è più vicina: passiamo dall'oralità all'immagine” (4).
La tenace convinzione di poter costruire una nuova Torre di Babele tra la sua gente grazie al poderoso ausilio del mezzo cinematografico, non lo indusse però a tralasciare la scrittura. È anzi grazie a essa che l'autore impugnò per la prima volta la camera da presa nel 1962. “Borom Sarret”, (“Il carrettiere”), tratto da un suo romanzo, è il primo film africano mai diretto: venti minuti attraverso i quali il Cinema fa la conoscenza di un nuovo continente ricolmo di luce. Il protagonista è un carrettiere pedinato in una giornata di lavoro a Dakar. All'interno del racconto, Sembéne separa nettamente il quartiere povero da quello benestante inscenando una cruda parentesi neorealista. Tradizione e tribalità fluiscono invece nel secondo lavoro del 1964, “Niaye”, nel quale il cineasta senegalese rimarca la sua spiccata dote nel saper raccontare la donna africana attraverso un linguaggio descrittivo molto simile a quello dei suoi libri da cui trae continua ispirazione. È proprio grazie a un altro dei suoi brevi racconti ispirato a un reale fatto di cronaca che nasce “La noire de...”, il primo lungometraggio africano della storia del cinema (5). L'anno è il 1966 e ad incrementare l’ascesa di Sembéne vi è il fatto che il film verrà selezionato per prendere parte alla Settimana Internazionale della Critica al Festival di Cannes (6).


Diouana


Diouana è una ragazza senegalese che lavora come servitrice nella casa di una famiglia di cooperanti francesi. La vita è dura, “oui monsieur” e “oui madame” sono le uniche forme di interazione e dialettica. In fondo però la serenità non le manca, c'è la famiglia e soprattutto ci sono i sogni che alimentano costantemente la ragazza. Uno di questi, il più bramato, si tramuta improvvisamente in realtà quando si presenta l'occasione di poter accompagnare la famiglia alla volta della Costa Azzurra, nella loro dimora estiva. L'aspirazione di Diouana di evadere verso il benessere europeo la conduce ad accettare senza esitare. La ragazza, al pari dello spettatore, avrà così modo di scorgere sin dalle prime battute la meraviglia e lo stupore di chi non ha mai visto annaffiatoi automatici, strade vorticose come dedali, palazzi dall'altezza sconfinata. Sembéne adotta svariate tecniche che consentono allo spettatore di scardinare le intime emozioni della protagonista: immagini fluide, paesaggi vasti e lucenti, un accompagnamento sonoro vivace, aggraziato. Si arma addirittura di perfidia quando fa pronunciare all'uomo che la sta accompagnando in auto “C'est beau la France”. Quella Francia Diouana non la vedrà mai perché già nella sequenza successiva la ragazza si ritroverà a pulire la vasca da bagno che diverrà presto il suo sepolcro. Rimarrà murata viva, seviziata psicologicamente fino al tragico epilogo.
Il cineasta di Ziguinchor ricorre alla semplicità neorealista e all'eclettismo francese allo stesso tempo (ma anche all'avanguardia russa) e struttura la pellicola in due ambientazioni ben definite, Dakar e Antibes, dicotomia che gli permette di esacerbare l'accezione positiva della prima e negativa della seconda. I flashback, ad esempio, che a una prima lettura potrebbero rappresentare una cura palliativa o una boccata d'ossigeno alle umiliazioni del presente, agiscono per contro da enzima alla progressiva esasperazione della donna, accelerandone perciò l'annichilimento. Dakar è un territorio luminoso e vasto, intrinsecamente legato alla famiglia, agli amori e alla tradizione, componente chiave del pensiero di Sembéne. A tal proposito la metafora della maschera e la relativa sequenza della lotta bambinesca con la signora per detenerne il possesso, descrivono in modo definitivo la coattiva sradicazione perpetrata dal sistema neocolonialista con il conseguente discioglimento di un'identità, quella africana, contaminata ma ancora cosciente di sé. La maschera, già manifestatamente inquietante, allude dunque al fantasma di un popolo che lotta per riottenere ciò che gli appartiene (l'indipendenza ottenuta solo sei anni prima), che rinuncia alla negoziazione capitalista del potere (il rifiuto dei soldi). È un talismano che rincorre e scaccia la minaccia imperialista e che abilmente Sembéne fa indossare a un bambino, simbolo per antonomasia dell'innocenza.
Ma è ad Antibes che Sembéne ha modo di sviluppare il processo di alienazione di Diouana. Lo fa innanzitutto annullando Antibes stessa. Le meraviglie della Costa Azzurra sono infatti ignorate dalla camera da presa del regista, il tempo del racconto si dipana, per contro, tra le mura di un'anonima abitazione.
A differenza di Dakar, lo spazio è angusto e soffocante, la musica da camera meno gioconda di quella folkloristica del villaggio. I sommessi gemiti della donna evocati dalla voice over, accrescono nello spettatore la graduale insofferenza fisica e mentale della donna, così come la criminale ignoranza dei suoi aguzzini (“non ti sembra dimagrita?”. “Sarà per il clima...”). Lui è impassibile, forse nasconde una pulsione erotica nei confronti di Diouana, per tale motivo si sforza di fingersi più accomodante della moglie, che per contro dispensa con puerile assiduità odio e rancore anche per i motivi più insignificanti. Nella malignità dello scontro frontale non c'è mai una forma di comunicazione o di interazione tra le due, in questi frangenti il film assume un'impronta vagamente grottesca e surreale. L'anonimia della coppia è l'allegoria di un atteggiamento dispotico universale che continua a perdurare nel presente, mentre il pranzo con gli amici è la massima espressione di un razzismo apparentemente privo di violenza e per questo motivo ancor più sudicio e meschino (“non ho mai baciato una negra in vita mia” e ancora “comprende come un animale però cucina molto bene”).


Credenza

Gilles Deleuze sosteneva che il potere del cinema moderno è quello di restituirci credenza nel mondo. “La nera di...” è una pellicola profondamente credente e una delle più ragguardevoli passioni rivoluzionarie espresse dal cinema del Terzo Mondo. Non stiamo parlando della trascendenza cattolica di Dreyer o Bresson ma di una confessione spirituale non meno profonda che appartiene a tutti, fedeli e atei: “Il fatto moderno è che noi non crediamo più in questo mondo […] Non siamo noi a fare del cinema, è il mondo che ci appare come un brutto film […] È il legame fra uomo e mondo a essersi rotto, è questo legame quindi a dover diventare oggetto di credenza […] Solo la credenza nel mondo può legare l'uomo a ciò che vede e sente. Bisogna che il cinema filmi, non il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame” (7). C'è questa forma di credenza, di necessità nel cinema di Ousmane Sembéne. Focalizzare il racconto sulla denuncia neocolonialista è un atto doveroso, ma al tempo stesso assistiamo anche a un processo di rigogliosa reazione verso “il brutto film del mondo”, una rappresaglia, se vogliamo, ossimorica e manichea tra la forma di delazione di Antibes e il fiorente orgoglio di Dakar, simbolo di speranza e rinascita che restituisce “credenza nel mondo”.
“La nera di...” è per tale motivo un antesignano del cinema politico del Terzo Mondo. Un cinema che, seguendo le dottrine di Franz Kafka e Paul Klee (8), asserisce la mancanza di un popolo (a causa dell'analfabetismo o dello stato di crisi) e la conseguente urgenza di rigenerazione dello stesso. Sembéne, a differenza del cinema sovietico e classico in genere, preclude a una passerella del popolo, ne sottolinea anzi l'assenza. Ejzenštejn invece lo inquadra, oppresso e raggirato certo, ma pur sempre catturato dalla macchina da presa. “Tale constatazione di un popolo che manca non è una rinuncia al mondo politico, al contrario è la nuova base su cui esso si fonda […] L'arte, soprattutto l'arte cinematografica, deve partecipare a questo compito: non rivolgersi a un popolo presupposto, che c'è già, ma contribuire all'invenzione di un popolo” (9). La rivoluzione di Sembéne è quella di (con)fondere pubblico e privato in oggetto al sociale e politico. Il racconto di Diouana risponde a un cinema “d'agitazione” (come quello di Rocha) e di parola che attraverso le più manifeste pulsioni come la fame e la sete, il sesso e la morte, ha il compito di incanalarsi verso le minoranze, perché il popolo che si vuole ricostruire, quello che ora manca, esiste ora solo tra le minoranze, tra chi detiene ancora coscienza (ecco di nuovo la metafora della maschera). Il francese utilizzato dal cineasta africano è allora la lingua dominante che rappresenta l'atto di parola del popolo futuro.
Il cinema di Ousmane Sembéne proseguirà quindi negli anni a venire il processo di una seconda formazione del popolo africano, ora descritto tra satira e polemiche in veste di nuova borghesia ne “Il vaglia” del 1968, ora oppresso da un'endemica corruzione politica come in “L'impotenza temporanea” del 1974, o ancora vessato dalla religione e dalle incursioni neocolonialiste come l'Islam in “Ceddo” del 1976. “La nera di...” rimane ancora oggi però il film simbolo dell'Africa nera, opera dal valore tematico estremamente (e tristemente) attuale, ancora proscritto ai più e destinato a minoranze ma prontamente recuperato e restaurato prima da Martin Scorsese e negli ultimi anni dalla Cineteca di Bologna. Un’opera di immenso coraggio, di faticosa costruzione, di innovativa sovversione, di cruda, attuale, realtà.


Note:
(1) Ousmane Sembène, “La nera di…” (or. "Voltaïque"), Sellerio Editore, Palermo, 1991, pag. 120
(2) Ousmane Sembène, “Nostalgia”, contenuta in “La nera di…”, pag. 125
(3) Sembène era grande amico del poeta (e futuro presidente del Senegal per vent’anni) Léopold Sédar Senghor, padre della négritude, movimento che interessò da vicino anche i francesi Paul Sartre e Paul Eluard.
(4) Sembène in “Sembène Ousmane” di Thierno Ibrahima Dia, Il Castoro Cinema, 2009.
(5) Il film sarebbe dovuto durare più dei sessanta minuti canonici per essere considerato a tutti gli effetti lungometraggio ma la burocrazia francese vincolò il regista ad accorciarne la durata.
(6) Il film, oltre a vincere il Premio Jean Vigo, assunse un ruolo fondamentale nella genesi e nell’affermazione dei festival cinematografici in Africa. Si rimanda per maggiori informazioni a “Il XX secolo sul red carpet. Politica, economia e cultura nei festival internazionali del cinema”, di Stefano Pisu, edito da Franco Angeli.
(7) Gilles Deleuze, “L’immagine-tempo”, Piccola Biblioteca Einaudi, 2017, pag. 200
(8) Kafka sosteneva che le letterature minori nel Terzo Mondo dovevano rimediare a una coscienza spesso assente e cercare dunque di soddisfare compiti collettivi in assenza di un popolo. Klee invece diceva che la pittura, per collegare tutte le parti della sua grande opera, aveva bisogno di un’ultima forza, quella del popolo che ancora mancava.
(9) Gilles Deleuze, “L’immagine-tempo”, pag. 253


21/01/2019

Cast e credits

cast:
Mbissine Thérèse Diop, Anne-Marie Jelinek, Robert Fontaine


regia:
Ousmane Sembène


titolo originale:
La noire de...


durata:
55'


sceneggiatura:
Ousmane Sembène


fotografia:
Christian Lacoste


montaggio:
André Gaudier


Trama
La giovane Diouana arriva in Francia, dove è impiegata da una famiglia borghese come domestica. Il marito va a prenderla al porto. Giunta nell'appartamento ad Antibes, in Costa Azzurra, incontra la moglie, inizialmente gentile...