Parte prima: lo Spazio, il Nulla, la Vita
A giudicare più da vicino il cinema di Wim Wenders, esso rivelerebbe il suo essere una continua emanazione dello stesso identico pensiero, un riproporre, sotto spoglie di volta in volta rinnovate e diverse, la stessa medesima intuizione iniziale.
E la radicale idea che il cinema wendersiano ripropone sistematicamente, preoccupandosi di nasconderla tra i livelli narrativi di ogni sua storia, è quella che vede lo Spazio come il principale protagonista della diegesi, l'ambiente come la matrice da cui ogni azione deve scaturire.
Nel trasformare l'azione in una conseguenza dello spazio in cui essa si trova a svolgersi, il regista di Düsseldorf opera quindi una totale inversione dei rapporti gerarchici tra gli elementi della narrazione: non è più il luogo a trasformarsi in base alle scelte dei protagonisti che lo abitano (com'è ad esempio nel cinema classico), ma è il personaggio a dover modellare le sue scelte sul paesaggio che lo circonda e, potremmo dire, lo sovrasta.
Da "Alice nelle città" fino a "Paris, Texas" e oltre, lo spazio dell'azione è sempre uno spazio vivo, che gioca un ruolo di primo piano nel determinare lo sviluppo delle vicende. L'Essere in Wenders è cioè sempre, heideggerianamente, un Essere-gettato in un ambiente col quale la sua vita non può evitare di confrontarsi.
In particolar modo, in "Paris, Texas" lo spazio è quello immenso del deserto, in cui il protagonista, il taciturno Travis, si trova disperso sin dalla prima scena. Il deserto esemplifica sostanzialmente lo spazio vuoto, la solitudine, il silenzio che domina l'intera pellicola, il nulla. L'uomo gettato nel nulla ne interrompe per un attimo il dominio, ma la sua presenza è sempre minacciata, il suo essere rischia in ogni istante di ritornare nel nulla dal quale proviene. E se "il sorgere dal nulla per ritornare nel nulla" è il modo in cui la tradizione occidentale ha sempre inteso il divenire, allora lo spazio di "Paris, Texas" è lo spazio del divenire stesso: il luogo in cui l'uomo avverte la costante minaccia dell'annichilimento e tenta, per sopravvivere, di affermare in ogni modo la propria essenza.
È necessario tener ben presente questa fenomenologia dello spazio per comprendere appieno gli snodi narrativi che scandiscono l'opera, ma prima di procedere è opportuno chiarire sin da subito che la vicinanza da molti riscontrata tra il film di Wenders e alcuni altri luoghi della cultura americana (con particolare riferimento alla pittura di Hopper e all'opera letteraria di Raimond Carver) non è ascrivibile solamente a un particolare utilizzo della fotografia o a un certo minimalismo della storia, ma al fatto che nei quadri di Hopper e nei racconti di Carver la minaccia del nulla sia avvertita in maniera altrettanto forte.
I dipinti di Hopper hanno per soggetto delle grandi solitudini: bar semivuoti, figure in attesa, letti disfatti, teatri senza pubblico etc. E tuttavia sono d'accordo con la storica dell'arte Elena Pontiggia quando sostiene che più che la solitudine, al pittore di Nyack interessi l'ontologia: le vedute che riproduce sono istanti di vita quotidiana sottratti al movimento del divenire, ma già il fatto che il pittore prediliga la casualità dell'istante-qualsiasi alla magnificenza della scena-madre inserisce tali opere in un contesto in cui sono proprio la fuggevolezza e l'ineffabilità a farsi oggetto della pittura. Lo stesso dicasi del minimalismo carveriano, con la sola aggiunta, in Wenders, che tale minimalismo è accentuato dal confronto con lo spazio smisurato del deserto, che non può che rendere minimale qualsiasi storia si svolga al suo interno.
La vicenda di Travis, il suo pellegrinaggio attraverso il deserto americano, scandito dalla formidabile colonna sonora di Ry Cooder, è un tentativo di riaffermare il proprio Essere di fronte al nulla. Un nulla divenuto evidente agli occhi del protagonista nell'antefatto della pellicola, raccontatoci indirettamente attraverso la memorabile sequenza finale del peep-show, dove si narra la disgregazione dei suoi rapporti sentimentali e familiari. Il termine della storia d'amore con la bellissima e giovanissima Jane (Nastassja Kinski) nonché il necessario abbandono del figlio Hunter gettano letteralmente Travis nella bocca del deserto, creano il vuoto attorno a lui, privano la sua vita di un qualsiasi scopo.
Tale vuoto è sottolineato dal silenzio iniziale del protagonista, incapace persino della più primordiale affermazione del proprio Sé, ovvero del linguaggio. Ritornerà a parlare dopo l'incontro col fratello Walt, cioè nel momento in cui ricomincerà a tessere attorno a sé una rete di rapporti che contribuisca a delineare il suo proprio Io.
L'inesorabile nenia firmata dalla chitarra di Ry Cooder scandisce le tappe di questo cammino verso il proprio ritrovamento, rincorso con i piedi ben piantati a terra, come testimoniano la paura di volare e l'ossessione maniacale per le scarpe, che ogni notte Travis lucida e riordina per bene.
Ed è proprio la terra, intesa come grembo-madre, la meta del pellegrinare: il piccolo appezzamento di deserto comprato con lo scopo di costruirci la propria felicità è la destinazione da raggiungere: lo stesso terreno in cui, anni prima, Travis era stato concepito. "Ho comprato quel terreno perché è il luogo dove ho iniziato a essere". Esso è quindi forse anche il luogo dove si può tornare ad affermare la propria esistenza di fronte all'implacabile avanzare del Nulla.
Ma non è l'azione, cioè il viaggio, a trovare come conseguenza lo spazio del deserto; bensì è il deserto stesso, precedente a qualsiasi azione, a causare nel protagonista la necessità di mettersi in cammino; è il Nulla che improvvisamente si impone nella vita del protagonista a innescare ogni vicenda; è la smisurata landa già presente nella prima inquadratura ad attivare ogni altro movimento all'interno dell'opera.
Parte seconda: il Tempo, il Viaggio, il Sogno
Tuttavia il cinema di Wenders non contiene mai uno spazio statico e risulta invece sempre attraversato dalla dimensione temporale del viaggio. Molti personaggi del suo cinema (in questo senso quasi degli alter ego del regista stesso) sono continuamente attraversati da nuovi paesaggi: è così nei primi lungometraggi, da "Alice nelle città" a "Nel corso del tempo"; è così nei documentari, dove spesso è Wenders stesso a vestire i panni del viaggiatore; è così anche in "Paris, Texas" e nei film successivi, dove le sequenze girate in movimento (su un'automobile o a piedi) rivestono un ruolo di primaria importanza.
Ma il viaggio ha spesso una meta misteriosa o non ben precisata, è un viaggio che ha le sue ragioni nello stesso viaggiare e che è definito più che altro come un non sapere cosa si troverà oltre: il tempo di Wenders, che coincide col viaggio attraverso lo spazio, si pone cioè in una situazione di apertura nei confronti del futuro, in uno stato di libertà verso l'orizzonte degli eventi a venire.
Qui oltre tutto il filmico finisce per coincidere con l'extrafilmico, ovvero con la lavorazione stessa dell'opera. Wenders gira il film con un'idea in testa: quella di tradurre in immagini il romanzo di Sam Shepard "Motel Chronicles", ma senza alcuna scaletta definita. Sarà lo spazio in cui si trova a guidarlo di giorno in giorno nelle riprese a riprova, una volta ancora, che i rapporti gerarchici nel suo cinema risultano invertiti.
In "Paris, Texas" l'atteggiamento di apertura è ribadito peraltro dalla scelta del deserto quale spazio privilegiato: l'orizzonte infinito che esso disegna concede al protagonista di immaginarsi un futuro nel quale ancora può sopravvivere la speranza. Viaggiare verso l'orizzonte aperto significa viaggiare verso un futuro in cui ancora nessuna possibilità è preclusa, in cui è ancora possibile riconquistare il proprio essere e sfuggire alla morsa del nulla. L'immensità del deserto confina sempre con un fuori campo in cui è verosimile figurarsi la felicità.
Così Travis marcia spedito verso quell'orizzonte che ancora gli permette di immaginare che in quel piccolo terreno da lui acquistato possa nascondersi il sogno di Parigi, il sogno dell'amore, il sogno di un'integrità ormai perduta e irrecuperabile.
Ma l'altra faccia del Tempo, oltre all'apertura nei confronti del futuro, è l'irrompere del ricordo, è l'irresistibile tentazione di riportare alla mente un benessere perduto, l'esplorazione del passato vista come un momento drammatico ma necessario nel cammino di ricostruzione della propria identità.
È proprio nella succitata sequenza del peep-show, in cui i volti dei due vecchi amanti si incontrano e per un attimo si sovrappongono, che Travis fa i conti una volta per tutte con gli errori del proprio passato. È solamente nel monologo finale che anche lo spettatore può venire a conoscenza degli sbagli che l'hanno costretto all'autoesilio.
La tremenda gelosia nei confronti di Jane, l'abuso di alcolici e il rifiuto di trovare un lavoro stabile sono stati i motivi che hanno condotto al disfacimento la vita del protagonista e che lo hanno obbligato alla visione tremenda del nulla.
Ed è sempre nel finale che ci si rende conto dell'impossibilità reale di riconquistare il proprio sé, ormai disperso in mille brandelli lontani; è qui che si prende atto dell'immaterialità di quell'orizzonte infinito, impossibile da raggiungere se non nella condizione del sogno, che aveva consentito la speranza in una risoluzione pacifica della frattura, ma che svanisce ogni qualvolta si tenti di afferrarlo.
E se Travis è ormai condannato, chi non è necessariamente costretto al medesimo destino è il giovane Hunter: dopo aver sperato in un improbabile costruzione di un autentico rapporto tra padre e figlio, questi dev'essere lasciato alla madre, ovvero a quello spazio in cui il suo Essere è iniziato, il grembo, il terreno, il principio in cui la sua essenza può ancora essere custodita; almeno finché non arrivi anche per lui il momento di fare i conti con la realtà drammatica del divenire.
cast:
Harry Dean Stanton, Nastassja Kinski, Dean Stockwell, Aurore Clément, Hunter Carson, Bernhard Wicki
regia:
Wim Wenders
durata:
147'
produzione:
Road Movies Filmproduktion, Argos Films
sceneggiatura:
Sam Shepard, L.M. Kit Carson
fotografia:
Robby Müller
scenografie:
Kate Altman
montaggio:
Peter Przygodda
costumi:
Birgitta Bjerke
musiche:
Ry Cooder