I "perfect days" del titolo sono quelli di Hirayama, interpretato da Kōji Yakusho (attore feticcio di Kiyoshi Kurosawa), coinvolto nel film anche in veste di produttore esecutivo. Hirayama vive solo. Per lavoro pulisce i gabinetti pubblici di Tokyo. Conduce una vita scandita dalla routine e sembra trarre un'invidiabile soddisfazione da tutte le piccole cose cui si dedica nel corso delle sue giornate. Quelle che costellano la sua quotidianità cominciano presto a somigliare a liturgie: la cura amorevole per le piante che coltiva nel suo piccolo appartamento, l'ascolto del rock classico rigorosamente in audiocassetta (anche in "Perfect Days" Wenders si concede una colonna sonora che rispecchia il suo gusto per il rock degli anni Sessanta e Settanta). Ci sono poi la lettura e la fotografia, altre due passioni che scandiscono il tempo libero del solitario protagonista di "Perfect Days". Ma è soprattutto a partire dalla scansione dei gesti più minimali e meticolosi (spuntare i baffi, indossare la tuta di lavoro, prendere un caffè al distributore automatico, lavarsi ai bagni pubblici) e dal tempo che è dedicato alla loro descrizione, oltre che naturalmente dal loro ripetersi quotidiano proprio come dei riti, che Wenders costruisce la dimensione esistenziale del personaggio, che compie tutti questi gesti in uno stato d'animo d'assoluta pacatezza. Quasi fossero parte di qualcosa di più ampio e trascendente.
A partire dal formato (4:3) "Perfect Days" vuole essere in sintonia con l'animo vintage del protagonista, che ascolta rock su nastri magnetici, legge libri cartacei e fa sogni che paiono indecifrabili flashback analogici in bianco e nero, simili alle immagini oniriche che venivano catturate in "Fino alla fine del mondo" (di queste dream installations è autrice Donata Wenders, moglie del regista). Alla base della pace interiore di Hirayama c'è una dote tutt'altro che comune, l'accettazione della sorte, frutto di una grande umiltà. È umiltà, infatti, quella che esprimono i suoi sorrisi trasognati (mentre guida nel furgone, nelle pause dal lavoro). Sono frutto di umiltà la metodicità e la dedizione che riversa nel suo (umile) lavoro. È umiltà, in fondo, anche l'esigenza di catturare con le sue fotografie il komorebi, "la luce che filtra tra le fronde degli alberi, quella foto sempre uguale che ogni giorno scatta e fa sviluppare in b/n (come i sogni). Hirayama vive tra le immagini oniriche e le immagini delle sue giornate, senza giudicare ma accettando quello che accade come componente di un unico flusso esistenziale" (come scrive bene Giuseppe Gangi in un suo post su Fb).
Soffermiamoci su questo voler catturare con lo sguardo la luce che filtra tra le fronde. Quello di "catturare con lo sguardo" è tema centrale in Wenders, che porta con sé una contraddizione non risolvibile: la duplicazione della realtà con la fotografia, infatti (Wenders è anche fotografo), le fa violenza, perché sottrae alla realtà la sua impermanenza. E sappiamo come apprezzare l'impermanenza sia un valore squisitamente giapponese. Bene: questo nuovo approdo di Wenders in Giappone avviene con un film che mira a presentarsi giapponese nella sua essenza. Anche per il rilievo che assumono valori come la dignità e l'importanza di ogni lavoro al servizio della comunità, o il rispetto che si sente di dovere al prossimo (il cliente ha sempre la priorità, anche nei bagni pubblici – per quanto il rispetto di Hirayama non sia sempre ricambiato). "Perfect Days", come film giapponese, assume il sentore di una pacificazione, all'interno della filmografia di Wenders. Lo sguardo del regista, dietro la macchina da presa di un film di finzione, sembra sussumere quello del protagonista di "Lisbon Story" (1995) e quello del Wenders documentarista. Scoprire mondi estranei alla propria cultura, porsi a osservarli per esserne sorpresi, avviene spesso in Wenders con più di una sfumatura vagamente nostalgica per un'armonia interiore che non è concessa all'uomo occidentale.
In "Perfect Days", è come se il protagonista di "Paris, Texas" (1984) avesse trovato finalmente pace con sé stesso. Anche qui, come nel film vincitore della Palma d'Oro, entra in gioco a un certo punto il passato personale, con figure importanti che irrompono nella vita del protagonista ad agitarne un po' le acque. Tuttavia - ecco la differenza fondamentale col film del 1984 - non è il protagonista a mettersi alla ricerca di queste figure del passato. Lui la sua dimensione l'ha trovata. Certamente ha delle ferite non rimarginate, ma da tempo ha settato la sua vita sulla dimensione che ora la contraddistingue.
Per l'assoluto minimalismo drammaturgico soprattutto della prima parte del film, "Perfect Days" sembra un ritorno di Wenders ai suoi primissimi film ambientati in Germania, in particolare "Nel corso del tempo" (1976). A loro volta in parte debitori nei confronti del cinema di Ozu. Il grande cineasta nipponico aleggia come una sorta di nume tutelare su "Perfect Days". Non è certamente un caso che il nome del protagonista – Hirayama – sia lo stesso di quello della famiglia di "Il gusto del sakè" (1963). Ricordiamo l'appassionato omaggio di Wenders a Ozu in "Tokyo-Ga" (1985), che a Ozu era dedicato. Ci sembra però importante sottolineare, nella predisposizione di Wenders verso il Giappone, le divergenze, piuttosto che le affinità, con "Tokyo-Ga". Lì, l'omaggio a Ozu era nostalgia di un Giappone che si temeva perduto, nel contesto di uno sguardo impaurito dall'omologazione culturale del Giappone all'Occidente. Verso il Giappone contemporaneo prevalevano disincanto e scetticismo; qui invece c'è adesione. "Perfect Days" si pone quasi come sineddoche di un Giappone non sappiamo quanto idealizzato. A più di qualcuno, "Perfect Days", a partire dall'umiltà del protagonista, dall'attitudine a vivere la quotidianità come un rito e dalla capacità di intercettare un certo lirismo della vita, ha ricordato "Paterson" (2016) di Jim Jarmusch. Eppure, mi pare vi siano col film di Jarmusch differenze significative. In "Paterson" tante piccole crepe, imprevisti, pur descritti con ironia, finivano per insinuare il dubbio che le vite del protagonista e della sua compagna, sotto a un'apparente armonia, nascondessero un conflitto latente, un'irrisolta insoddisfazione di fondo. Non è certamente così in "Perfect Days", dove mai il protagonista appare prigioniero dei suoi riti quotidiani.
Viene da chiedersi allora: è più corretto o più ingenuo, l'atteggiamento senile del Wenders di oggi, rispetto a quello di "Tokyo-Ga"? Appartengono davvero al Giappone il rispetto e la dignità che il film trasmette per uno dei mestieri più umili? Sinceramente ci sentiamo di sospendere il giudizio. Anche perché sospettiamo che porsi domande di questo tipo sia distante da ciò che "Perfect Days" riesce a comunicare e trasmettere, non sul Giappone contemporaneo ma sulla capacità di porsi in relazione con l'essere qui e ora nel momento in cui si esiste. È arte non così semplice, quella della sottrazione. Per Hirayama, è accettazione di una vita cui tante cose sono state sottratte. Ed è arte della sottrazione anche quella di chi, di fronte a un film, si ferma a un certo punto sulla soglia di ciò che appare bello, senza corromperlo (almeno non troppo) con il logos.
cast:
Kōji Yakusho, Tokio Emoto
regia:
Wim Wenders
titolo originale:
Perfect Days
distribuzione:
Lucky Red
durata:
123'
produzione:
Master Mind
sceneggiatura:
Wim Wenders, Takuma Takasaki
fotografia:
Franz Lustig
scenografie:
Tawako Kuwajima
montaggio:
Toni Froschhammer