Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
7.0/10

Suzume


[Prevedibilmente, seguono SPOILER]

"Mada mada sagasu ki desu ka?
sore yori boku to odorimasen ka?
yume no naka e yume no naka e
itte mitai to omoimasen ka?"[1]

Inoue Yōsui, "Yume no naka e"

"Maybe together we can make a mark in the stars we embark
And keep us together as the lights go dark"

CHVRCHES, "Death Stranding"

Per un cineasta che ha fatto di spazi liminali, soglie e del loro attraversamento un pilastro del proprio immaginario (fig. 1) "Suzume" rappresenta un ulteriore tentativo di rendere visibile questa centralità tematica, mettendo in scena una storia di porte infradimensionali che sarebbe meglio non aprire e soglie figurate che è invece necessario attraversare nel percorso di crescita. Non si è invero molto distanti da ciò che Shinaki Makoto fa da più di dieci anni, e con notevole chiarezza a partire dal grande successo "Your Name.", coi suoi coming of age sentimentali dalle tinte fantastiche (con le tre componenti in genere mescolate in proporzioni sempre differenti), ma il film del 2022 si distingue per la chiarezza con cui queste componenti vengono espresse e rapidamente mescolate nella narrazione. "Suzume" è caratterizzato difatti da un fugace incipit che, dopo l’usuale sogno destinato a essere dimenticato dalla protagonista, proietta subito la ragazza in un mondo di creature magiche e letterali porte fra il nostro mondo e l’Al di là. Il rapido incedere della trama è senza dubbio coinvolgente e permette fin da subito a Shinkai di sfoggiare l’usuale cura per la messa in scena, partendo dalla resa della luce e dalla costruzione di spazi surreali, ma finisce per privare quasi tutti i personaggi di un background approfondito, a eccezione della protagonista, rendendo le loro azioni e motivazioni non sempre chiare nel corso della pellicola.


Fig. 1: soglie, porte e spazi liminali nella produzione di Shinkai

Si potrebbe quasi supporre che la necessità di realizzare una pellicola che mettesse in scena in modo quanto più accurato possibile vari elementi centrali della filmografia del cineasta giapponese (e tra l’altro la più lunga della sua intera produzione) lo abbia spinto a concentrarsi sulla costruzione di un simile edificio di riferimenti, temi e stilemi invece che dedicarsi alla caratterizzazione dei personaggi comprimari. Bisogna considerare che d’altronde "Suzume", come si potrebbe forse arguire fin dal titolo, è, a differenza della maggior parte delle storie d’amore shinkaiane, una narrazione al singolare, concentrata soprattutto sulla sua protagonista e sulla sua maturazione, mentre tutti gli altri personaggi, compreso il misterioso giovane di cui si è innamorata, si limitano in primis a ricoprire un preciso ruolo in questo processo. La costruzione piuttosto episodica della narrazione, in particolar modo della prima parte, finisce per enfatizzare questa componente, lasciando la protagonista eponima a essere l’unica presenza costante nella pellicola, forse anche per questo capace di rimembrare quasi tutti i protagonisti dei film di Shinkai: è apparentemente priva di direzione come Kanae in "5 cm al secondo", si getta all’avventura un po’ per caso, un po’ per amore, come Asuna di "Viaggio verso Agartha" ed è disposta a sfidare la struttura stessa dello spazio-tempo per la persona amata come i protagonisti di "Your Name.". Suzume quindi si carica sulle spalle la stessa donchisciottesca sfida contro il tempo, stavolta però replicata più volte, resa a sua volta episodica, per ogni occasione in cui una porta fra l’Al di là e il nostro mondo va chiusa per evitare enormi catastrofi.

Il rischio principale di quest’accumulo di situazioni narrative e scelte estetiche ormai tipiche del cinema di Shinkai è la trasformazione di "Suzume" in una sorta di bignami della produzione, soprattutto recente, del cineasta. D’altronde il film condivide con i precedenti "Your Name." e "Weathering with You" anche la medesima struttura narrativa, che oppone una lineare e più schematica prima parte, spesso costruita ricorrendo al montaggio parallelo o alla deliberata ripetizione di situazioni, a una seconda che, a partire dalla torsione narrativa che usualmente la introduce, accumula spesso colpi di scena e sequenze adrenaliniche col rischio di lasciare dietro di sé la chiarezza espositiva. È difficile ormai negare che la formula dia segni di stanchezza (soprattutto se si considera che già una pellicola realistica e prettamente sentimentale come "Il giardino delle parole" aveva in nuce questa struttura) e difatti la prima metà di "Suzume" parrebbe quasi la tradizionale riduzione in film di una serie di successo, dato il ripetersi di situazioni e gag, destinata a confluire poi in un’ultima missione, più lineare e meno sincopata rispetto al passato, per salvare sé stessi, il proprio amore e l’intero Giappone (sì, anche la dimensione fantastica dei film di Shinkai pare divenire più magniloquente film dopo film).


Fig. 2: il road movie e la narrazione episodica in "Suzume"

Quel che distanzia il film del 2022 dai predecessori, e invece lo avvicina al discusso primo esperimento con il fantastico di "Viaggio verso Agartha", è (oltre ai palesi riferimenti alla produzione di Miyazaki Hayao) la struttura da vero e proprio road movie, con Suzume e il suo amato "chiudiporte" Sōta trasformato in una sedia mobile e parlante che intraprendono un viaggio per il Giappone dalla punta meridionale del Kyūshū fino a Tōkyō cercando di catturare il gatto magico Daijin per farlo tornare a essere il sigillo delle porte infradimensionali tolto per caso dalla stessa ragazza (fig. 2). Laddove i film precedenti hanno utilizzato il viaggio come strumento per introdurre il colpo di scena che divide la pellicola in due, "Suzume" adatta la medesima struttura anche alla più compassata seconda parte, presentando stavolta il ritorno a casa (quella ancestrale devastata dallo tsunami del 2011[2]) della ragazza in compagnia della zia Tamaki, sua tutrice legale, e di Tomoya, collega di università di Sōta. Prosegue quindi il viaggio di quest’improbabile compagnia per un Giappone di piccoli locali, stazioni di servizio isolate e desolazione dovuta allo spopolamento, accompagnato dalla malinconica playlist di hit j-pop di Tomoya, e dall’eccellente colonna sonora di Jinnouchi Kazuma e dei Radwimps.

Ma interessantemente l’ultimo film di Shinkai Makoto è un viaggio non solo attraverso lo spazio dell’arcipelago nipponico ma anche attraverso la sua storia, nello specifico la storia delle sue catastrofi, dal grande terremoto del Kantō del 1923, con successivi incendi ed eccidi politicamente e razzialmente motivati, al terremoto del Tōhoku e relativo tsunami nel 2011, passando per la catastrofe demografica che da decenni sta spopolando ampie aree del paese. Una "history of suffering" che lascia anche tuttora le sue tracce sulla vita delle persone, in primis Suzume, e che si accompagna all’attraversamento di comunità una volta fiorenti e ora abbandonate già al centro de "La città incantata" di Miyazaki e per cui Shinkai aveva già mostrato interesse in passato, da "5 cm al secondo" a "Your Name.", ma anche a quello di una galleria di kami e figure mitologiche che va dal mostruoso "verme" che scatena terremoti una volta liberatosi dalle porte agli spiriti che le custodiscono. Il bianco gatto Daijin, che inizialmente pare essere, per la prima volta nella filmografia di Shinkai, un effettivo antagonista, intenzionato com’è a non tornare a essere il sigillo originale delle porte, risulta infatti ispirato a una delle creature più iconiche del gattofilo folklore nipponico, ovvero il combinaguai sawarineko, o più genericamente bakeneko. Piccoli trickster e mutaforma che approfittano della disponibilità umana per portare caos nella vita quotidiana, già resi celebri nella notevole serie anime del 2009 "Bakemonogatari" (fig. 3), questi spiriti divengono per Shinkai un altro modo per giocare con le aspettative del pubblico e rendere l’apparente antagonista l’aiutante più importante dell’eroina, così come per tornare all’immaginario fantastico tipico di Miyazaki Hayao che aveva già tentato di rielaborare con l’affascinante ma irresoluto "Viaggio verso Agartha".


Fig. 3: i sawarineko dal mito a "Suzume", passando per "Bakemonogatari"

Laddove quella pellicola narrava la discesa in abissi dimenticati e l’entrata in contatto con una civiltà decadente e millenaria, ricordando non poco il classico "Il castello nel cielo" col suo racconto d’avventura adolescenziale[3], "Suzume" assume invece la forma di una quête per il ristabilimento di un equilibrio spezzato, canovaccio alla base di molte pellicole di Miyazaki, da "Nausicaa della Valle del vento" a "Principessa Mononoke". Anche la commistione fra l’attenzione dedicata al Giappone rurale e periferico, pur presente in opere precedenti di Shinkai (cha d’altronde ha natali provinciali), e la centralità dell’elemento fantastico avvicina ulteriormente l’ultima opera del cineasta della prefettura di Nagano a quel del suo "maestro" putativo, dando a "Suzume" un tono miyazakiano anche più di quanto facesse il citazionismo di "Viaggio verso Agartha" (il quale ricordava piuttosto un altro rip-off di lusso dell’opera del maestro, ovvero "I racconti di Terramare" di Miyazaki Gorō). Non che riferimenti estetici piuttosto palesi all’immaginario di Miyazaki Hayao manchino, fra trasfigurazioni in oggetti parlanti e ambigui animali mistici ispirati al folklore giapponese, ma essi risultano alla fine ben integrati dentro un’opera che codifica ulteriormente l’estetica shinkaiana come concepita in "Your Name.", il quale aveva ridimensionato i riferimenti al cinema di Wong Kar-wai per sostituirli con uno stile argutamente assimilabile a quello di molta produzione anime mainstream.

Il character design dai tratti netti e tondeggianti, verosimile senza mai puntare al fotorealismo, il quale invece caratterizza le ambientazioni in cui i personaggi si muovono e gli oggetti che adoperano, si accompagna quindi a un uso della luce e dei colori che dal ricercato fotorealismo degli esordi si è mosso sempre di più verso un iperrealismo che è ormai la caratteristica stilistica più riconoscibile delle opere di Shinkai. In un film che parla di dimensioni parallele e catastrofi sovrannaturali questo dualismo centrale nella rappresentazione del mondo in Shinkai viene infine adeguatamente messo in immagini con le porte che si fanno effettiva soglia fra i due mondi, e i due stili rappresentativi, le quali sono non a caso, strabilianti, immagini bidimensionali, nelle quali non è, se non a condizioni specifiche, possibile entrare: un’adeguata rappresentazione del cinema stesso di Shinkai Makoto, fra immagini accuratamente composte, cieli stellati multicolori e lens flare. Se l’elaborazione dell’immaginario di Miyazaki svolge quindi un ruolo centrale nella (definitiva?) codificazione dell’immaginario shinkaiano in "Suzume", un ruolo altrettanto importante lo ha la ripresa della produzione di un altro animatore giapponese maestro della rappresentazione stilisticamente oppositiva di mondi diversi, destinati poi a mescolarsi sempre di più, ovvero Anno Hideaki.


Fig. 4: il "verme", un case study di influenze di Miyazaki e Anno

Se difatti parlare di "Suzume" come del film più miyazakiano di Shinkai può parere esagerato, considerarlo invece il film del regista più anniano è probabilmente meno discutibile. Se Shinkai ha sempre guardato ad Anno (d’altronde narratore di drammi adolescenziali come pochi nell’industria mediale nipponica), tanto più che il suo OVA del 2002 "Voices of a Distant Star" è un coming of age ibridato col filone mecha alla maniera di "Neon Genesis Evangelion", raramente il legame fra le opere dei due autori è poi andato oltre alla comunanza di alcuni temi, come l’inadeguatezza percepita dai protagonisti e l’irrisolvibile distanza che ne separa gli animi, non importa quanto i loro sentimenti siano forti. Nel film del 2022 non scarseggiano invece le citazioni alle opere in Anno, in primo luogo alla recente "Rebuild of Evangelion", dando al mostruoso "verme" che ricorda lo shishigami notturno di "Principessa Mononoke" una morte che ogni volta rassomiglia più quella degli Angeli della "Rebuild" (fig. 4), dopo aver assunto forme geometriche sempre più eccentriche, anche queste tipiche degli esseri sovrannaturali di Anno. Se altri riferimenti visivi, come l’abbondare di crocicchi, rotaie che si biforcano e passaggi a livello, possono essere considerati ormai parte dell’immaginario di Shinkai, pur rifacendosi chiaramente a quello di Anno come significanti del medesimo difficile controllo sul flusso della propria vita e di ciò che impedisce un autentico contatto con l’altro, è la riflessione sulla catastrofe ad avvicinare ancor di più tematicamente le opere dei due autori.

Da sempre Anno Hideaki (che d’altronde ha iniziato la sua carriera come animatore con "Nausicaa della Valle del vento") racconta mondi devastati sull’orlo di ulteriori catastrofi, fino a culminare nell’accumulo di Impact, e quindi di apocalissi, in "You Can (Not) Redo" e "Thrice Upon a Time", ove la devastazione che ha reso l’ambiente omogeneo e ricco di detriti (comprese navi levitanti) è una possibile resa in immagini dell’ultima grande catastrofe di cui il Giappone è stato vittima, ovvero il terremoto del Tōhoku. Immagini simili, compresa quella della nave, tornano anche in "Suzume"[4] mentre la protagonista raggiunge quel che resta della casa natia dove perse sua madre e poi sé stessa, finendo oltre una delle porte che conducono all’Al di là prima di venire soccorsa da una sconosciuta. L’ultimo punto che lega quindi Anno e Shinkai è la resa della storia dell’arcipelago nipponico come una storia di catastrofi che non si possono evitare del tutto (come d’altronde avveniva già in "Your Name.") ma che vanno invece affrontate ripetutamente fino a che non si riesce a carpirne il senso e a imparare come sopravvivere, trovando finalmente dopo tanti anni un modo per uscire da questa impasse di eterni ritorni. Non sorprende a questo punto che sia l’ultimo film di Anno sia l’ultima pellicola di Shinkai terminino finalmente in maniera pacificata, mettendo forse la parola fine sulla "stessa storia che si ripete"[5], una storia di incontri fugaci e oltre tempo massimo che finalmente porta alla maturazione e all’incontro con l’altro, senza dover più temere di potersene dimenticare.


Fig. 5: il progresso verso lo happy ending negli epiloghi di Shinkai

L’aver dedicato così ampio spazio ai principali modelli di Shinkai e allo loro influenza su "Suzume" (e molti altri riferimenti si potrebbero fare al riguardo) serve anche a mettere in luce una delle principali criticità della pellicola, ovvero la sua dipendenza da riferimenti così ingombranti, i quali a volte rischiano di soffocare l’immaginario di Shinkai e di privare un’opera così importante per il suo autore proprio della sua personalità. Portando avanti la normalizzazione stilistica intrapresa da "Your Name.", che al di fuori della fotografia è stilisticamente un anime piuttosto tradizionale per quanto riguarda regia e character design, la presente opera, con la sua costruzione episodica e l’accumulo di citazioni pare a volte perdere il filo del racconto e, senza una montage sequence a evidenziare i punti focali della trama e del percorso dei protagonisti, "Suzume" si trova a essere piuttosto diverso dalla sua risoluta, eponima, protagonista. È curioso che prima del finale, con uno dei plot twist spazio-temporali ormai tipici di Shinkai, si scopra che è stata la Suzume del futuro a salvare la sé infante dopo che s’era persa dentro una delle porte infradimesionali[6], quasi a sottolineare l’autoreferenzialità del film. Un’autoreferenzialità che per chi scrive è più programmatica che reale, considerando anche la notevole quantità di citazioni e modelli che rendono "Suzume" ciò che è.

Nondimeno, è una scelta significativa, che segnala la possibile volontà di Shinkai Makoto di distanziarsi infine dai suoi ingombranti padri creativi, ora che essi sono stati rielaborati più compiutamente di quanto fatto in passato. Come tutti i coming of age, e come molti road movie, "Suzume" è in primo luogo la storia del percorso che porta a trovare la propria identità, una quête drammatica e complessa anche senza missioni per salvare il mondo (o il proprio paese), come si può evincere anche dall’attenzione dedicata all’aspetto più umano delle difficoltà di questa missione nella forma del contrastato rapporto con la frustrata zia Tamaki. Che Shinkai abbia voluto compiere con questo narrativamente discontinuo e visivamente a volte ridondante (i cieli multicolore dell’Al di là sembrano davvero le immagini di un ipotetico film del regista sviluppato da un’intelligenza artificiale) viaggio attraverso il Giappone e attraverso i propri principali modelli un simile percorso di emancipazione è per il momento pura speculazione. Ma indubbiamente è affascinante l’idea che un maestro del coming of age contemporaneo sia riuscito a mettere in immagini il suo stesso percorso di maturazione artistica attraverso le peregrinazioni della più risoluta delle sue protagoniste, nonché l’unica a cui, per il momento, è concesso un finale che sia totalmente soddisfacente.




[1] "Intendi ancora cercare?/ Non balleresti invece con me?/ Dentro un sogno, dentro un sogno/ Non ti piacerebbe entrare?"
[2] Sarebbe interessante riflettere sui punti di contatto fra "Suzume" e "One Day, You Will Reach the Sea" di Nakagawa Ryūtarō, sentito coming of age con un interessante elemento metalinguistico, in cui l’elaborazione della catastrofe del 2011 trova il suo culmine proprio nella messa in immagini, animate, di chi si è perso e tramite l’esorcizzazione della perdita con l’adozione di un registro fantastico
[3] E ispirando probabilmente un’altra delle serie manga e anime più interessanti degli ultimi 15 anni, ovvero "Made in Abyss" (2012- ) di Tsukushi Akihito, sia per quanto concerne il design di certi aspetti del mondo sotterraneo sia per la raffigurazione dell’eponimo Abisso
[4] Ma tornano anche "immagini sonore", come l’effetto audio che accompagna l’esplosione del "verme" dopo che è stato sigillato, identico a quello della morte degli Angeli della "Rebuild", o dirette citazioni musicali come il brano riportato in esergo, presente nella colonna sonora di "Suzume" come parte (preminente) della playlist di Tomoya e utilizzato per la prima volta come ending dell’innovativa serie anime "Le situazioni di lui e lei" (1998-1999) di Anno Hideaki
[5] H. Anno, "Considerazioni sulla Nuova Versione Cinematografica", 28/09/2006, documento programmatico che accompagnò l’uscita cinematografica di "You Are (Not) Alone" e delle successive versioni home video della pellicola
[6] È inoltre interessante che la ragazza alla fine del proprio percorso di maturazione, e di comprensione dei rituali che permettono al mondo di andare avanti (elemento anticipato da "Your Name."), si trovi in una posizione simile a quella conseguita dalla Chihiro consapevole del rapporto con la natura e il passato de "La città incantata", quanto meno nell’interpretazione datane dalla studiosa delle religioni Monica Alice Quirk nell’articolo "Stepping Into the Bathhouse: Physical Space and Shinto Revival in Miyazaki's Spirited Away", in Intermountain West Journal of Religious Studies, vol. 11, n. 1 (2021), pp. 31-2


17/05/2023

Cast e credits

cast:
Nanoka Hara, Chiara Fabiano, Hokuto Matsumura, Manuel Meli, Eri Fukatsu, Francesca Manicone, Ryūnosuke Kamiki, Emanuele Ruzza, Ann Yamane, Alberto Vannini


regia:
Makoto Shinkai


titolo originale:
Suzume no tojimari


distribuzione:
Sony Pictures Entertainment Italia


durata:
122'


produzione:
CoMix Wave Films, Story Inc.


sceneggiatura:
Makoto Shinkai


scenografie:
Takumi Tanji


montaggio:
Makoto Shinkai


costumi:
character design: Masayoshi Tanaka


musiche:
Radwimps, Kazuma Jinnouchi


Trama
La 17enne Suzume vive in una cittadina del Kyushu insieme alla zia Tamaki, la quale l'ha adottata in seguito alla scomparsa della sorella durante lo tsunami del 2011. La sua serena quotidianità viene interrotta quando incontra un giovane misterioso nei pressi di un centro termale abbandonato. Dopo averlo aiutato, infatti, a sigillare una mistica porta interdimensionale i due si ritrovano in un viaggio per il Giappone cercando di rimediare a un errore commesso inconsciamente dalla ragazza.