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FAR EAST FILM FESTIVAL XXIV - Dopo la fine della ventiquattresima edizione del Far East Film Festival, e con ormai pochi contenuti dal festival da pubblicare, è giunto il momento di riflettere anche quest’anno sulla kermesse udinese, la sua organizzazione, i suoi risultati e, soprattutto, la sua ricca rassegna, come ogni anno non priva di sorprese

Introducendo l’editoriale consuntivo dell’edizione precedente del Far East Film Festival il sottoscritto discuteva i successi di quella sorta di esperimento fra proiezioni in presenza e streaming che è stato il FEFF XXIII, durante il quale l’organizzazione ha fatto di necessità virtù delocalizzando la sede del festival nei cinema cittadini "Visionario" e "Centrale", permettendo una programmazione più flessibile e la possibilità di più spettacoli per quasi ogni film. La speranza era che quella lezione non venisse dimenticata, così come la presenza di una piattaforma online che contenesse quasi tutte le pellicole presentate. La storia è andata diversamente e la ventiquattresima edizione del più importante festival europeo dedicato al cinema asiatico popolare è stata all’insegna della restaurazione, dell’intessere "connessioni", la parola chiave dell’edizione, in primis col glorioso passato rappresentato dal Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" stracolmo di studiosi del cinema asiatico, personalità dell’industria, semplici appassionati e curiosi.


Il Teatro Nuovo "Giovanni da Udine" durante il FEFF XXIV

Si è quindi tornati alle proiezioni singole e alla centralizzazione del festival nella sua location storica, mentre la piattaforma FEFF Online ha potuto presentare (presumibilmente per questioni di diritti) solo una piccola parte della vasta rassegna (28 degli oltre 70 titoli) della ventiquattresima edizione del Far East Film Festival. Un "ritorno alla normalità" a cui ha arriso un considerevole successo, considerando la situazione ancora complessa, fra pandemia, guerra e crisi energetica: circa 40 mila spettatori totali, di cui almeno 10 mila solo per quanto riguarda il servizio streaming, e oltre 1300 accrediti hanno dimostrato la forza della formula classica del festival, nonostante tutto avvicinatosi ai numeri delle annate pre-pandemiche. Anche in questa occasione hanno fatto bene gli organizzatori Sabrina Baracetti e Thomas Bertacche a festeggiare il continuo successo di questo esperimento lungo ormai un quarto di secolo.


"Miracle: Letters to the President"

Lasciando da parte le considerazioni personali riguardo all’organizzazione, anche quest’anno lo scrivente intende iniziare l’analisi della rassegna del festival discutendo le pellicole gioco forza più importanti, i vincitori, anche alla luce dell’aggiunta di un nuovo interessante premio, quello alla miglior sceneggiatura. Ciononostante i protagonisti della cerimonia conclusiva sono sempre i tre vincitori dell’Audience Award, votati dal pubblico in sala (o in streaming) come da tradizione. Il terzo e il secondo posto condividono la nazionalità, cinese, e poco altro: la medaglia di bronzo è spettata alla commedia metacinematografica "Too Cool to Kill" di Xing Wenxiong, mentre il ruolo di "primo degli ultimi" è toccato al nuovo dramma agreste di Li Ruijun, "Return to Dust", già presentato alla Berlinale. Conferma invece l’assoluto dominio della Corea del Sud nel palmares del FEFF (11 vittorie su 24 edizioni) il nuovo Gelso d’oro, il feel-good movie tratto da una storia vera "Miracle: Letters to the President" di Lee Jang-hoon.


"Return to Dust"

I due film cinesi possono però vantare il trionfo in almeno una delle altre categorie del festival: "Too Cool to Kill" ha convinto la giuria composta dai Manetti Bros e Vanja Kaludjercic che gli ha assegnato il Gelso bianco al miglior esordio preferendolo ad altre 12, variegate, pellicole, mentre "Return to Dust" è stato il film più votato dal pubblico di professionisti, esperti e storici frequentatori del festival, ottenendo il Black Dragon Award. Ha invece vinto il MYmovies Award assegnato dai votanti sulla piattaforma online ospitata da Mymovies.it (divenuto quindi una sorta di categoria online only) il dramma politico coreano "Kingmaker" di Byun Sung-hun. Il primo Gelso alla miglior sceneggiatura, votato dai giurati del celebre Premio "Sergio Amidei" di Gorizia, è spettato, fra nove contendenti, al pinku eiga argutamente travestito da commedia sentimentale d’autore "Love Nonetheless" di Jojo Hideo.


"Too Cool to Kill"

Dai vincitori si può intuire quanto anche in questa edizione il concorso (42 titoli) si sia distinto per l’usuale dominio delle quattro colonne portanti del FEFF (d’altronde gli unici paesi ad aver mai vinto un Gelso d’oro), ovvero Corea del Sud, Cina, Giappone e Hong Kong, lasciando ben poco spazio al cinema del Sud-est asiatico, le cui particolarità non riescono ancora a convincere la maggior parte del pubblico del festival, a differenza delle cinematografie più consolidate. Fra le succitate la posizione egemone è spettata alla potenza asiatica per antonomasia, la Repubblica popolare cinese, che ha aperto la ventiquattresima edizione con la co-produzione con Italia e Germania "The Italian Recipe" di Hou Zuxin, commedia romantica ben confezionata che incarna la forza produttiva, e i limiti narrativi e concettuali, della produzione pop cinese più mainstream. Simile per ragioni produttive, ma ben più consapevole (d’altronde si parla di un metafilm), è "Too Cool to Kill" di Xing Wenxiong, una commedia irresistibile, se si accetta di farsi trascinare dal suo ondivago (anche come qualità) fiume di battute. Oltre agli esordi ad alto budget, e a un film d’animazione 3D tonitruante e retorico come "I Am What I Am" di Sun Haipeng, il cinema cinese è stato ben rappresentato anche da cineasti più esperti, e indipendenti, come Geng Ju e Li Ruijun, rispettivamente registi della spiazzante black comedy provinciale "Manchurian Tiger" e della rarefatta love story anti-melodrammatica "Return to Dust", ambientata nel mondo contadino della provincia natale del Gansu.


"I Am What I Am"

Andando in quella che fu la superpotenza cinematografica d’Asia, Hong Kong, si resta quest’anno colpiti dalla quantità di film in concorso (ben otto) ma un po’ meno dalla qualità. Fra thriller che più che omaggiare la gloriosa stagione del noir hongkonghese e dell’heroic bloodshed la profanano in chiave patriottica ("Caught in Time" di Lau Ho-leung) e pellicole che paiono indistinguibili dai blockbuster della Cina continentale ("Schemes in Antiques" di Derek Kwok), anche le pellicole più personali non si sono molto distinte rispetto alle annate passate. In generale anche le produzioni di Hong Kong meno addomesticate paiono ormai arresesi alla rievocazione nostalgica del passato della città e del suo cinema, come si evince dall’ennesimo divertente metafilm ("Legendary in Action!" di Justin Cheung e Li Ho), oppure sublimano quella nostalgia in un’operazione mimetica del passato attraverso la messa in scena di una versione idealizzata dei trascorsi personali, come avviene nel bel coming of age lesbico "The First Girl I Loved" di Candy Ng e Yeung Chiu-hoi. Stavolta neppure Fruit Chan riesce a brillare, confinato in uno dei tre capitoli (forse nemmeno il migliore) dell’horror a episodi (altro genere di punta della Hong Kong che fu) "Tales from the Occult", co-diretto con Fung Chih-chiang e Wesley Hoi.


"The First Girl I Loved"

Di eguali dimensioni è la rappresentativa giapponese, forse più sfaccettata e carismatica rispetto alle ultime edizioni del FEFF. Passando da un notevole esordio come "My Small Land" di Kawawada Emma, a metà strada fra il dramma etnografico e il coming of age più stereotipicamente giapponese, all’apprezzabile ma irresoluto ritorno alla kermesse udinese del prolifico e discontinuo Hiroki Ryūichi, il thriller/black comedy "Noise", il Giappone dà stavolta il suo meglio con pellicole che parlano dell’intimità dei loro protagonisti, pur con l’ambizione di parlare di un’intera nazione (e forse al mondo intero). Il già citato "Love Nonetheless" di Jojo Hideo, raffinata commedia romantica capace di esondare nell’erotico senza una svirgolata, rappresenta bene questa tendenza, similmente all’intenso coming of age "One Day, You Will Reach the Sea" di Nakagawa Ryūtarō, dramma sulla perdita, personale e collettiva, che trova pure il tempo di riflettere sul linguaggio cinematografico. Spiace pertanto che i cineasti già noti al pubblico del Far East Film Festival non si siano distinti quest’anno, come nel caso di Ueda Shinichirō che con "Popran" non ha replicato i fasti di "One Cut of the Dead", al netto della riuscita complessiva del film. Simile discorso può essere fatto anche per Katayama Shinzō, il cui thriller torbido e ricco di colpi di scena "Missing" alterna momenti suggestivi e sequenze pedanti. Fuori scala è invece "What to Do with the Dead Kaiju" di Miki Satoshi, definito un film stupido dal suo stesso autore, che porta alle estreme conseguenze (del trash e della demenzialità) la reinterpretazione satirica kaijū eiga intrapresa da Anno Hideaki con "Shin Gojira".


"Love Nonetheless"

Con ben dieci film in concorso la Corea del Sud ha decisamente aumentato le proprie possibilità di vittoria in questa edizione, d’altronde conseguita dalla dramedy sentimentale (e retorica, ça va sans dire) "Miracle: Letters to the President" di Lee Jang-hoon. A essere sinceri la ricca rappresentativa sudcoreana non si è però distinta per qualità: non con "Tomb of the River" di Yoon Young-bin, pigra rimasticazione di tutti (letteralmente, tutti!) i topoi del gangster movie sudcoreano, non con il confuso, pur non privo di pregi, esordio crime urbano "Thunderbird" di Lee Jae-won, né con l’elegante e avvincente, ma in fondo inerte, remake thriller "Confession" di Yoon Jong-seok, il film di chiusura della ventiquattresima edizione del FEFF. Il divertito gioco metacinematografico di "Hostage: Missing Celebrity", esordio di Pil Gam-sung, e il buon dramma storico "Kingmaker" di Byun Sung-hyun, studio di caratteri in contrapposizione in una Corea in trasformazione come "The Spy Gone North" (ma l’eleganza di Yoon Jong-bin è su un altro livello), convincono forse di più ma certificano in ogni caso i limiti del cinema di genere mainstream sudcoreano, spesso troppo monotono e prevedibile per lasciare il segno come un tempo.


"Kingmaker"

Le restanti quattro nazioni in competizione (Malaysia, Filippine, Thailandia e Taiwan) propongono complessivamente meno pellicole della sola Corea del Sud ma riescono comunque a farsi ricordare. O perlomeno questo è il caso delle Filippine, fra paesi protagonisti di questa edizione del FEFF, soprattutto considerando anche i film fuori dalla competizione, fra cui invece vanta lo spassionato omaggio al potere creativo del cinema "Leonor Will Never Die" dell’esordiente Martika Ramirez Escobar, il discontinuo ma divertente horror a episodi a tema pandemico "Rabid" dell'habitué Erik Matti e l’iperbolico e senza freni rape & revenge ma senza revenge "Reroute" di Lawrence A. Fajardo, con il grande John Arcilla nei panni di uno dei villain più memorabili del sottogenere. Meno interessanti le proposte malesi e thailandesi, che si limitano agli ormai tradizionali horror brutti che infestano ogni edizione del FEFF, come il loffissimo thailandese "Cracked" di Surapong Ploensang, e a pellicole che rimasticano i soliti cliché pop delle rispettive cinematografie. Un’ultima menzione spetta all’"altra Cina", a Taiwan, che ha presentato (solo, ahinoi) il folk horror found footage (in totale violazione di tutte le regole del sottogenere) "Incantation" di Kevin Ko e "Mama Boy", dramma sentimentale che segna il ritorno dietro la macchina da presa di Arvin Chen.


"Rabid"

Con ben 30 film fuori dalla competizione si può intuire quanto siano state soprattutto le sezioni esterne al concorso a splendere nella ventiquattresima edizione del Far East Film Festival, a partire dalla selezione di sette pellicole esplicitamente chiamata "Best of the Best". Dall’affascinante e fluviale thriller politico e giornalistico "On the Job: The Missing 8" di Erik Matti al coming of age in un contesto rigidamente islamico "Yuni" di Kamila Andini, questa sezione ha permesso alle molteplici facce del cinema d’autore asiatico di penetrare nel tempio del cinema più pop. Meritano un accenno anche l’omaggio di Ho Wi-ding al classico di Edward Yang "Terrorizers" nella forma di un mesmerizzante adattamento di quel dramma tripartito a un presente fatto di realtà virtuale(i), anaffettività e lo strapotere dei social media e, ovviamente, l’eccellente nuovo film di Yuasa Masaaki, l’opera rock anime ambientato durante il periodo Muromachi "Inu-Oh", probabilmente fra le visioni più preziose di questa edizione del FEFF.


"Inu-Oh"

Passando rapidamente oltre i documentari della selezione, quasi tutti dedicati a ritratti di personalità molto diverse, dai leggendari Kitano Takeshi e Kon Satoshi di "Citizen K" e "Satoshi Kon: The Illusionist" (diretti rispettivamente da Yves Montmayeur e Pascal-Alex Vincent) all’ignoto eppure carismatico venditore ambulante "Kim Jong-boon of Wangshimni" di Kim Jin-yeoul, i classici, restaurati e non, hanno ottenuto uno spazio ancora più ampio del solito nella kermesse udinese di quest’anno. Una menzione a parte la merita la rassegna dedicata alla rappresentazione di Manila in 40 anni di cinema filippino, partendo dalle pietre miliari "Manila in the Claws of Light" di Lino Brocka e "Manila by Night" di Ishmael Bernal fino ad arrivare alla stilizzata violenza urbana dell’era Duterte con "Neomanila" di Mikhail Red, passando per la quintessenza del cinema drammatico filippino contemporaneo, "Slingshot" di Brillante Mendoza.


"Manila by Night"

Dopo l’ambiziosa ripresa della rassegna del 2019 dedicata alle "odd couples" del cinema fra Occidente e Oriente, ovvero ai reciproci rispecchiamenti fra le cinematografie dalla parte opposta del mondo, concentrandosi però stavolta sulla rappresentazione delle relazioni interraziali in pellicole del calibro di "Hiroshima Mon Amour" di Alain Resnais e "L’anno del Dragone" di Michael Cimino, meritano qualche parola i classici in versione restaurata riproposti al FEFF XXIV, ben sette. Provenienti in egual misura dal Giappone e da Hong Kong, con l’aggiunta della pietra miliare del wuxia taiwanese "The Swordman of All Swordmen" di Joseph Kuo, questi film sono stati un’oasi di altissima qualità in mezzo alle discontinue proposte del concorso (ma d’altronde questo è il bello), per quanto le pellicole hongkonghesi, più onestamente di genere, si siano distinte più per il valore cult che per l’effettiva rilevanza storica (penso al memorabile, ma pacchianissimo, "The Heroic Trio" di Johnnie To).


"The Swordman of All Swordmen"

D’altro canto il capostipite dello yakuza eiga più moderno e nichilista "Pale Flower" di Shinoda Masahiro ha già il suo posto nella storia del cinema giapponese, così come lo spietatissimo, e incredibilmente sentimentale, commiato di Fukasaku Kinji "Battle Royale", presentato nella più completa director’s cut recentemente restaurata. Pur non potendo tralasciare un’altra pietra miliare del cinema giapponese recente come "Audition" di Miike Takashi, il cui restauro è stato presentato in anteprima mondiale, la parte del leone dell’intera line up del Far East Film Festival quest’anno l’ha svolta "Sonatine" di Kitano Takeshi, la cui proiezione è stata preceduta dalla premiazione del leggendario cineasta con il Gelso d’oro alla carriera. Costretta in una forma digitale dalla difficile situazione attuale e, pare, da imprevisti con il volo del regista, la presenza di Kitano rappresenta in ogni caso una pietra miliare per un festival di medie dimensioni come quello udinese, la cui importanza (pur non mancando difficolta tecniche e organizzative, come si è visto) nel panorama internazionale è ormai innegabile.


"Sonatine"

Per quanto il regista di "Dolls" e "Zatōichi" non abbia potuto mettere piede sul suolo friulano, più di 70 altre personalità del cinema (e non solo) asiatico si sono invece fatte vedere al Teatro Nuovo "Giovanni da Udine", dimostrando il riuscito ritorno del festival alla sua dimensione originale, pur mantenendo convenienti spazi di innovazione (con alcuni limiti pare che la versione online, ora pure dotata di un premio apposito, sia qui per restare). Lo scenario è ben diverso da quello che il sottoscritto aveva ipotizzato l’anno scorso ma nondimeno sembra che stia dando i suoi frutti. In questo momento di tensioni internazionali la possibilità di creare nuovi legami, e restaurare parte di quelli vecchi, fra Est e Ovest è sempre apprezzabile, anche se non basteranno a spazzare via gli spettri di un futuro sempre più complesso. Ma questa battaglia, against the grain, è una battaglia che probabilmente vale la pena combattere, ricordandosi dell’importanza che gli eventi culturali possono avere nell’intricato scacchiere geopolitico, così come è stata una battaglia importante quella che due anni fa ha spinto gli organizzatori a tenere il FEFF a ogni costo, seppur online, e lo è stata quella dell’anno scorso per tornare, pur parzialmente, nelle sale. E ovviamente quella che quest’anno ha ricondotto il festival alla sua forma originale, con tutti i caveat del caso. Ora non resta che aspettare il prossimo aprile per vedere quale battaglia donchisciottesca il Far East Film Festival di Udine ci proporrà per il suo venticinquesimo anniversario.


Moving, always, forward!



P.s. Desidero anche quest’anno ringraziare i colleghi Alessio Cossu e Giuseppe Gangi per il confronto e le discussioni riguardo alle pellicole viste e i vari consigli di visione, pur provenienti dalla limitata rassegna online, e in particolar modo Alessio per avermi aiutato nella copertura di questa ricchissima edizione del FEFF.





Alla ricerca delle connessioni perdute. Per concludere col Far East Film Festival 2022