fantascienza, distopia, documentario | Gran Bretagna (2024)
Inizia come un film di fantascienza distopica, "2073", con il classico scenario di un mondo post-apocalittico, ambientato nell’anno del titolo, in cui regna la distruzione, il caos e il disordine, con i ricchi da una parte e i ribelli dall’altra, in condizioni di mera sussistenza. La causa di tutto ciò sarebbe da ricercare in un non meglio precisato "evento" avvenuto 37 anni prima, come racconta la voce narrante della protagonista Ghost, una ribelle che vive nei bassifondi e sopravvive per mezzo di ciò che riesce a racimolare con le incursioni nel mondo esterno.
Ben presto questo fantomatico "evento" rivelerà la sua natura di mero escamotage narrativo, come emerge da un lungo flashback che indaga sulle sue cause. Il film si trasforma così in documentario e partendo dagli anni Novanta - emblematicamente rappresentati dall’immagine di un trionfante Nelson Mandela tornato in libertà ed eletto alla presidenza del paese che lo aveva incarcerato per le sue idee e le sue battaglie - giunge agli anni Venti del Duemila, quelli della (vera o presunta) crisi delle democrazie.
La presa di posizione di Asif Kapadia, regista inglese di origine indiana, è netta, come dimostra la scelta di fare nomi e cognomi, mostrando le immagini delle persone che sarebbero alla base di questa involuzione distopica: Trump, Putin, Xi Jinping, Netanyahu, Boris Johnson, Nigel Farage, Bolsonaro, l’argentino Milei, il primo ministro indiano Modi, il presidente delle Filippine Duterte, Giorgia Meloni, Viktor Orbàn, ma anche Silvio Berlusconi, mostrato evidentemente come pioniere di un processo degenerativo giunto oggi a compimento nella sua versione più matura. Sono davvero in pochi a salvarsi, perché non citati nelle varie carrellate di immagini di repertorio (tra coloro che vengono mostrati appaiono pure Joe Biden e l’ex premier inglese Rishi Sunak, ancorché per pochi secondi soltanto).
Ma non sono soltanto i politici, gli autocrati e i dittatori il bersaglio di Kapadia, che si scaglia anche – e soprattutto – contro i multimiliardari (Musk, Bezos, Zuckerberg & co.) e le loro aziende, che di fatto si dividono (e sempre più si divideranno) con i potenti il controllo del pianeta, in vista di un futuro in cui la quasi totalità della restante popolazione sarà relegata al ruolo di consumatori, manodopera o carne da cannone.
E poi ci sono i professionisti della comunicazione e della politica, che con bieco cinismo ci raccontano di quell’evoluzione che poco alla volta sta cancellando la stessa necessità della verità.
Una campagna elettorale va basata non sui fatti ma sui sentimenti.
Non è necessario che una cosa sia vera, basta che qualcuno ci creda.
Questi sono i messaggi veicolati dagli strateghi e dai think tank di chi punta ad acquisire il potere ad ogni costo. Dall’altra parte della barricata, nella visione di Kapadia, ci sono i giornalisti indipendenti, che spesso pagano con la privazione della libertà (se non con la vita) il proprio lavoro volto a far emergere la verità e la realtà dei fatti.
I temi della post-verità, delle derive autoritarie, della crisi della democrazia sono tornati al centro dei dibattiti di filosofia politica da circa una decina di anni, ma nel film di Kapadia li si affrontano, più che con un piglio analitico, con un atteggiamento catastrofista e allarmista che rende la scelta di virare una porzione di film verso la fantascienza distopica una conseguenza pressoché scontata. Eppure Kapadia propone appelli all’attivismo e all’azione che spingono chiaramente il film nell’alveo dell’opera tout court politica, solo incidentalmente fantascientifica.
C’è di sicuro molto da riflettere sui contenuti di questo "2073", a partire da quelle considerazioni, che sono politiche in senso lato, che portano a ragionare sulla nostra stessa condizione di esseri umani, trasformati in cittadini passivi, distratti e disinformati (perché solo così davvero utili al potere). Una condizione che, con l’aiuto delle nuove tecnologie, fa sì che la persona si smaterializzi in un puro flusso di dati oggetto di analisi.
Che Kapadia abbia scelto il mezzo più congruo per rappresentare queste questioni è quanto meno discutibile. Innanzitutto perché la formula del "documentario fantascientifico" non è di certo originale, essendo già stata utilizzata - con le variabili del caso, tra cui quella di un’autorialità sicuramente più strutturata rispetto a quella di Kapadia - da un innovatore come Chris Marker ("La jetée", del resto, è l’opera a cui il regista inglese ha espressamente dichiarato di essersi ispirato) o da un professionista dell’intreccio tra realtà e finzione come Werner Herzog (si pensi a "L'ignoto spazio profondo" o ad "Apocalisse nel deserto"). Qualche dubbio lo solleva anche l’effettiva riuscita cinematografica dell’operazione, considerato che tutta la parte distopica è visivamente piuttosto banale e monocorde.
Forse, nel suo caso, Kapadia ha solamente scelto il mezzo apparentemente più semplice e diretto, quello capace di rafforzare l’indignazione di chi già è coinvolto, ma che di contro solleverà una levata di scudi negli accusati e in chi in essi si identifica. Una scelta di campo sicuramente meno ambigua di quella compiuta da Alex Garland in "Civil War", con il quale "2073" condivide i temi portanti (la politica che porta allo sfacelo, il ruolo di garanzia del giornalismo), pur tenendo, a differenza del primo, un collegamento esplicito con l’attualità ed evitando facili compromessi qualunquisti (l’alleanza tra California e Texas, in Garland).
"2073" è insomma un film a tesi più di pancia che di cervello, anche nel suo essere smaccatamente militante. Eppure il livello del discorso politico è ormai talmente dirottato verso l’irrazionalità che non è detto che, per gli scopi raffigurati da Kapadia, sia una scelta sbagliata.
cast:
Samantha Morton, Naomi Ackie
regia:
Asif Kapadia
titolo originale:
2073
distribuzione:
Filmclub Distribuzione
durata:
83'
produzione:
Lafcadia Productions
sceneggiatura:
Asif Kapadia, Tony Grisoni
fotografia:
Bradford Young
scenografie:
Robin Brown
montaggio:
Chris King, Sylvie Landra
costumi:
Verity May Lane
musiche:
Antonio Pinto