Ondacinema

recensione di Eugenio Radin
6.5/10

"La fede, si sa... All'inizio si è come bambini che il Padre tiene per mano, e ci si sente sicuri.
Arriva il momento, e penso che arrivi sempre, in cui il Padre lascia la mano.
Si è sperduti, soli nel buio. Chiamiamo e nessuno risponde.
Per quanto ci si prepari si resta sorpresi, si viene colpiti al cuore.
Questa è la croce. Dietro a ogni felicità c'è la croce"



Una carrellata iniziale abbraccia un gruppo di suore benedettine intente a intonare una monodia gregoriana, introducendo così lo spettatore nell'inviolato isolamento monacale dove dovrebbe albergare, al di là di ogni pericolo esterno, l'incontaminata sacralità spirituale.
È proprio questo, in fondo, il senso della clausura: il tentativo di proteggere il proprio sforzo di fede contro il male dilagante al di fuori, compiuto rinchiudendo sé stessi all'interno di un muro, di un'immaginaria cinta difensiva che ignora ogni avvenimento estraneo alla propria piccola monade fatta di lavoro e di preghiera.
Rimane però la cruda violenza della Storia, con tutta la sua carica distruttiva, a ricordarci che tali mura non sono impermeabili, che non sono i confini di un'isola pura e incorruttibile, ma i limiti di una zattera costantemente in balìa della realtà materiale, costretta a seguire anch'essa, come ogni altra cosa, gli angosciosi movimenti delle maree e della corrente.

Per la Polonia come per altri Paesi dell'Est-Europa la fine del Secondo Conflitto Mondiale non significò tanto una liberazione, quanto piuttosto un cambio di regime: il passaggio dall'occupazione nazista all'imposizione del comunismo sovietico comportò la purgazione da ogni elemento contrario alle ideologie di governo, compreso il rispetto per la religione, considerata come l'"oppio dei popoli". Le truppe russofile penetrate in territorio polacco si sentirono libere di razziare i conventi e di violentare chi li abitava, introducendo con la violenza la meschina materialità e il peccato carnale in quell'utopica oasi di castità e spiritualità.

Così il succitato canto sacro dell'apertura viene presto interrotto dall'eco dei dolori di una gravidanza, che porta con sé tutto l'insopportabile peso della violazione forzata di un giuramento, di un voto infranto non per propria colpa, ma col proprio corpo. Una gravidanza che ha il retrogusto della violenza e che mette in crisi la possibilità stessa di una religiosità: "Non riesco a conciliare la mia fede con un evento così traumatico", confessa una delle pazienti visitate dalla giovane crocerossina francese, chiamata a prestare un silenzioso soccorso ai dolori del convento.
La pellicola della Fontaine (che continua a prediligere personaggi femminili, ma che tocca qui temi universali) mette in scena, con tutta l'inesorabile e poetica lentezza del cinema francese, una serie di nodi drammatici, di conflitti tra i personaggi e le idee che ne costituiscono il movente.

La dialettica più evidente è certamente quella tra la chiusura conservatrice del convento, restìo nel mettersi a nudo di fronte a una civile, e la fiducia medico-scientifica della giovane crocerossina; ma su un altro livello è il conflitto interiore tra chi ha giurato eterno amore al Signore ma si ritrova spogliato della propria pudicizia; tra chi non può conciliare la purezza dell'animo con le doglie della carne. E c'è poi soprattutto la necessità di un'alleanza contro la prepotenza annichilente dei soldati: la volontà di ritrovare un valore comune, la ricerca di un principio saldo nel quale confidare.

Lontano dal promuovere l'arroccamento maligno dei propri principi morali (il colpo di scena finale spiazza più dello stesso antefatto, mostrando come la paura di compromettersi possa essere nociva e come una regola seguita senza l'aiuto della riflessione mostri tutto il suo lato maligno) il film mette in luce però l'importanza di uno sforzo di fede, non necessariamente orientato verso la confessione religiosa, quanto verso il ritrovamento di un orizzonte di valori che appare sempre più sbiadito e fragile nella società occidentale contemporanea: la giovane Mathilde è un esempio positivo di ciò.

L'opera è inoltre destinata a raccogliere consensi anche sotto diversi aspetti tecnici su cui spiccano la fotografia di Caroline Champetier, che contribuisce in maniera preminente a creare il clima di sofferenza e di instabilità che la pellicola evoca nelle sue tematiche, e il trittico di attrici protagoniste: Lou de Laage, Agata Buzek e Agata Kulesza ai cui volti la regia lascia spesso un compito principale nell'esternare emozioni e stati d'animo.
Peccato che a un certo punto il ritmo dell'azione inizi a peccare di pesantezza, adoperando una dilatazione dei tempi che difficilmente impedirà allo spettatore di arrivare alla conclusione senza concedersi qualche sbadiglio o qualche occhiata all'orologio.


20/11/2016

Cast e credits

cast:
Lou de Laâge, Vincent Macaigne, Agata Kulesza, Agata Buzek, Joanna Kulig, Katarzyna Dabrowska, Thomas Couman


regia:
Anne Fontaine


titolo originale:
Les innocentes


distribuzione:
Good Films


durata:
100'


produzione:
Mandarin Films, Aeroplan Film, Mars Films


sceneggiatura:
Sabrina B. Karine, Alice Vial


fotografia:
Caroline Champetier


montaggio:
Annette Dutertre


musiche:
Grégoire Hetzel


Trama
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale la polonia passa in breve tempo dal nazismo al comunismo. I soldati sovietici che occupano il paese non hanno la faccia dei liberatori: in un convento di clausura alcune suore vengono stuprate e ingravidate. Ciò genererà un dramma che vede sfidarsi tra loro la candida vita spirituale e la realtà della carne.