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recensione di Lorenzo Taddei

                                                                           A Mauro, che l'altro ieri "si è avviato", a t'arcurdé.

 

A m'arcord        
Al so, al so, al so,                                  
Che un om a zinquent'ann                          
L'ha sempra al mèni puloidi                        
E me a li lèv do, tre volti e dè,                  
Ma l'è sultènt s'a m vaid al mèni sporchi       
Che me a m'arcord                                  
Ad quand ch'a s'era burdèll.                      


Io mi ricordo
Lo so, lo so, lo so,
Che un uomo a cinquant'anni
ha sempre le mani pulite
e io me le lavo due o tre volte al giorno,
Ma è soltanto se mi vedo le mani sporche
che io mi ricordo
di quando ero ragazzo

(Tonino Guerra)


"Vitellone" e "bidone" sono vocaboli che ormai si sono trasferiti dal titolo dei rispettivi film al nostro patrimonio linguistico. E addirittura triplice è stato il contributo de "La dolce vita": il nome "Paparazzo" del fotografo interpretato da Walter Santesso è diventato definizione di un mestiere; con "dolce vita" si intende un'esistenza frivola, godereccia, ispirata a quella che alcuni potevano permettersi nella Roma a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta; "dolcevita" indica anche quel tipo di maglione a collo alto con risvolto che Pierone (Giò Staiano)indossava nel film.
Ma il "fellinismo" di maggior pregio assimilato dalla lingua italiana viene direttamente dal dialetto romagnolo ed è tratto da una poesia di Tonino Guerra: l'espressione "a m'arcord" (io mi ricordo) si contrae in una sola parola, "amarcord", che il vocabolario definisce "ricordo, rievocazione nostalgica del passato". Una parola esotica come un aperitivo e familiare come una grappa, le erre che obbligano a una doppia capriola insieme briosa e raffinata, romagnola e francese. Parafrasando il maestro: c'è dentro l'amore, l'amaro, il "core" e il ricordo.
Il testo di "Amarcord", scritto da Fellini e Tonino Guerra, viene pubblicato da Rizzoli nell'agosto del 1973 e anticipa di pochi mesi l'uscita del film, il 13 dicembre. L'anno seguente inaugura fuori concorso il Festival di Cannes e nel 1975 si aggiudica l'Oscar come miglior film straniero, il quarto e ultimo di Fellini prima di quello alla carriera ricevuto nel 1993.
Nel settembre scorso, grazie al lavoro della Cineteca di Bologna in collaborazione con Cristaldi Film e Warner Bros, la versione restaurata è stata presentata al Festival di Venezia e poi distribuita per pochi giorni nelle sale. Si è così potuto apprezzare di nuovo il colore originale dei costumi e delle scenografie di Danilo Donati, è stata restituita vitalità alla fotografia di Rotunno, che illumina senza mai essere invasiva l'affresco di Fellini e lo rende accessibile fin nei particolari. Persino il manifesto del pittore Giuliano Geleng (figlio d'arte di Rinaldo, amico storico di Fellini) con tutti i personaggi schierati in primo piano e sullo sfondo il Grand Hotel e il Rex che solca il mare, è stato ristampato con tinte più accese. L'opera di restauro del film, necessaria per salvaguardare i negativi originali, si è arricchita di otto minuti inediti, personalmente selezionati - tra ore di materiale fornito dalla Cristaldi Film - e montati da Giuseppe Tornatore. Si svela così l'effetto dei teli-onda, agitati dagli assistenti di scena nel momento che precede il passaggio del transatlantico Rex, una delle sequenze più celebri e poetiche del film. Un effetto che ricorda la scena de "Lo sceicco bianco" in cui l'arenile viene spacciato per mare aperto: ma allora si trattava di una soluzione ardita che metteva una pezza per salvare la giornata di riprese, con Amarcord l'effetto artigianale diventa uno stile che anticipa di quarant'anni l'estetica visionaria di Gondry, celebrando il sogno nella sua forma più infantile e autentica. Ancora negli inediti si può ammirare Magali Noël al trucco, e infine il maestro impegnato a sistemare la scena della grande nevicata, il "nevone", prima di affermare soddisfatto: "Ora si può girare".


La realtà (s)oggettiva e la provincia universale

I film di Fellini sono anzi tutto universali. Collocarli entro precise coordinate storiche o geografiche è un esercizio utile e inutile. Un bisogno comprensibile, ma che col crescere delle speculazioni può impedire un dialogo intimo con l'opera filmica e il godimento della sua bellezza. Il discorso felliniano prende vita dalla realtà, viene fecondato dalla fantasia, o nel caso di Amarcord dalla memoria (che pur sempre alla fantasia attinge) e dunque torna alla realtà, attraverso la realizzazione del film. L'attendibilità storiografica non è indispensabile e in Amarcord viene ignorata o quantomeno in buona parte sacrificata in funzione dell'opera. Le origini di Fellini sono neorealiste, com'è indubbio che sia stato Rossellini il suo primo modello di riferimento. Fellini è neorealista, ma interessato alla realtà spirituale, interiore oltre che a quella sociale. E a coloro che lo hanno accusato di tradimento ha ribadito che non è sufficiente documentare la realtà, è determinante come la si mostra e dunque palesare chi la sta mostrando. E' quindi un nuovo neorealismo quello che si riscontra in tutta la filmografia del maestro, una sorta di "realismo dell'anima".
La realtà oggettiva è soggettiva. La regia è il modo in cui il regista propone la sua visione della realtà. In questo e in nessun altro "spazio" il cinema di Fellini da racconto autobiografico, da interpretazione individualizzante  della realtà diventa messinscena universale. Si emancipa dagli obblighi storici, dalle questioni sociali, dagli orientamenti politici e mostra l'unica realtà conoscibile, ovvero la sua personale visione. Una visione che, nel caso di Fellini, restituisce al pubblico una realtà più vera del reale, e a nessuno importa quanto sia storicamente attendibile. Il paese dove Fellini è cresciuto diventa un luogo che appartiene a tutti, di più, diventa  un'età che abbiamo attraversato e dalla quale ci chiediamo ancora se siamo riusciti a separarci. 
Nella sua carriera Fellini non ha mai girato una scena a Rimini. In Amarcord il "borg" di Rimini (il quartiere di San Giuliano) è ricostruito interamente a Cinecittà, così come ne "I Vitelloni" tutte le scene "marittime" furono girate a Ostia. I ricordi non appartengono più alla realtà da cui provengono, questa ha mantenuto dei tratti confusi, oppure determinati dall'ondivaga precisione della memoria. Negli anni le numerose evocazioni finiscono per privilegiare un dettaglio e offuscare magari un episodio apparentemente significativo. I colori sfumano o cambiano del tutto, le misure dei luoghi o delle persone crescono o rimpiccioliscono, certi fatti che non sono mai esistiti (come il passaggio del Rex) finiscono con l'esistere.
Amarcord, pur doppiato con accento romagnolo (solo alcune espressioni, soprattutto del nonno, sono mantenute in dialetto vero e proprio) è stato apprezzato dal pubblico di tutto il mondo. Rimini diventa una provincia universale, un contenitore accessibile a culture diverse, che raccoglie emozioni, fatti accaduti o immaginati, persone e personaggi che si muovono tra realtà e pura fantasia.
Perciò Donati privilegia certi particolari scenografici che ricordano la minuziosità del sogno, perché il ricordo è anche tale: ad esempio gli oggetti appesi al muro o i soprammobili che accompagnano sullo sfondo la carrellata degli insegnanti in "trance oratoria". Oppure si presta ad allestire la scena per coreografie barocche come le notti del Grand Hotel o la parata fascista, culminante con l'omaggio floreale al duce che celebra l'immaginario matrimonio tra Ciccio e la "giovane italiana" Aldina Cordini. Prezioso il contributo di Rotunno, che ad esempio nella scena della tabaccaia (che con la testa colpisce il lampadario) alterna luci e ombre in una danza che trascina una scena potenzialmente volgare in una dimensione "mitologica" (sullo sfondo il profilo di Dante dal cervello scoperchiato).
I costumi, sempre a cura di Donati, e il trucco di Rino Carboni accentuano i tratti più grotteschi e bizzarri dei personaggi (i professori, il preside Zeus, la Volpina, Biscein, per dirne alcuni, ma lo sono tutti) così come furono percepiti da Fellini adolescente, o meglio, così come Fellini uomo maturo ricorda o immagina di aver percepito. E' trascorso quasi un secolo dal tempo in cui Fellini ha vissuto la sua adolescenza eppure il sentimento della realtà rappresentato in Amarcord ancora oggi commuove e ci spinge a condividerlo. E' cambiata nel tempo la società, sono cambiate le persone (gli interpreti della realtà) eppure restano ancora attuali i sentimenti che affiorano dal film: il senso di oppressione, la curiosità insolente, il presente così pieno di ugge, l'illusione di un futuro migliore, l'ignoranza impietosa, l'ignoranza mistica, la casa, la chiesa, la confusione, la continua attesa, l'educazione forzata e la beffa come stile, l'istinto sessuale e il sesso come intrattenimento, la follia come metro di giudizio. 


Aspettare

Il vento gonfia le lenzuola stese, asciuga le giacche appese all'albero che sta mettendo i primi fiori. Suonano le campane, sono arrivate le "manine", tutto il paese esulta perché significano primavera. "Giudizio" il matto salta, ne acchiappa una e guarda dritto in camera, accingendosi a declamare il ritorno delle manine, raffazzonando con fatica un italiano che è come il prolungamento del titolo del film, una specie di formula magica che alza il sipario sulla memoria. Dal barbiere ci si prepara per la festa di San Giuseppe, un fascista esce rasato lucido e imbronciato come il duce, dalla stanza dietro si affaccia la Ninola, parrucchiera sognatrice da tutti conosciuta come "la Gradisca", per quella sua storia col principe. Al suono del flauto traverso la "Gradisca" sculetta e si ritira. Scende la sera e per le strade, da sotto i portici, la gente si riversa nella piazza dove è allestita la "fogarazza" più alta del paese. Una pila di legni e sterpi su cui si impilano sedie, tavoli e mobili che bruceranno insieme alla strega vecchia, per buon auspicio. In cima alla pila c'è "Giudizio" che raccoglie le ultime cose da bruciare e anche le beffe dei più spietati. Intorno alla fogarazza si è radunato l'intero paese: Ronald Colman, Titta e i suoi compagni con i loro petardi, lo zio Lallo "er pataca", il cieco di Cantarel e la sua fisarmonica, la tabaccaia e il padre, il preside alla finestra, Volpina, Gradisca e le sorelle. Rievocati da Giudizio (personaggio che Fellini ha ripreso da "Roma", insieme al preside Zeus e alla monica nana che tirerà giù lo zio Teo dall'albero) eccoli tutti quanti, i personaggi che tornano alle mente di Fellini e quelli che da essa sono stati partoriti. Resta giusto il tempo per l'evoluzione motociclistica di "Scureza di Corpolo" e la festa finisce, il grande falò ormai ridotto in cenere, la piazza si svuota. In lontananza compare l'avvocato, insieme all'inseparabile bicicletta. E' il secondo narratore che - dopo Giudizio - si presenta al pubblico come diretto interlocutore, lo sguardo dritto in camera. La ripetizione del resto, è vitale per ogni forma di narrazione che voglia tramandarsi. L'avvocato racconta la storia di Rimini fin dalle origini come colonia romana nel 268 a.C. in una piacevole digressione interrotta da irriverenze fuori campo altrettanto piacevoli.
Fellini è bravissimo nel creare caratteri, durante gli esordi come sceneggiatore e vignettista ha sviluppato un talento naturale nell'approfondire i personaggi, anche e soprattutto quelli secondari, dei quali è capace di fornire un'immediata visione, una rappresentazione visiva delle loro personalità. Gli è sufficiente una scena, un'immagine, una pennellata. Anche i soggetti meno perfezionati, solo abbozzati, hanno una loro chiara identità che sopravvive e fermenta grazie anche a un'atmosfera ben costruita, carica di tensione e sottintesi.
I numerosi personaggi che animano Amarcord (come ne "La dolce vita") farebbero pensare a un film collettivo, corale, ma in realtà essi convergono verso uno scopo comune soltanto in tre occasioni e lo "scopo" è aspettare: all'inizio, in modo confusionario, intorno alla fogarazza, aspettano che la strega vecchia bruci; sul mare, nella lunga attesa del transatlantico Rex e infine un'ultima volta nel banchetto che festeggia le nozze e la partenza di Gradisca.  In tutti e tre i casi il paese al completo attende gli eventi, in modo talora beffardo, talora festoso, ma sempre passivo. Un atteggiamento che può essere compreso (l'educazione cattolica e il fascismo sono validi conduttori di ignoranza) ma non compatito. Persino nelle proverbiali parole di Calinàzz, si rintraccia questo atteggiamento irresponsabile (da adolescenti), che ripone in un fantomatico intervento dall'alto la soluzione dei propri problemi: "Mio nonno fava i mattoni, mio babbo fava i mattoni, `a faz i mattoni anche me, ostia i mattoni, ma la casa mia dov'è?"».  Manca un senso comunitario e anziché di coralità è più corretto parlare di somma di solitudini, di creature asociali che trovano difficoltà nell'adeguarsi agli altri, che sono sì persone semplici e amabili, ma al tempo stesso prive della capacità di riflettere e agire per migliorare le cose. Non resta che aspettare. 


Il tempo

Fellini ha 53 anni quando gira Amarcord ed è ormai da oltre trent'anni "esule" volontario da Rimini. Si è trasferito a Roma nel 1939 ed è tornato a Rimini poche volte: alla fine della guerra, ritrovando un paese ridotto in macerie e nel 1967, trovando già in atto il grande piano di urbanizzazione promosso dagli americani, che trasformerà Rimini da paese rurale a meta del turismo estivo giovanile. Dopo aver girato "Roma" (1972) e aver in qualche modo chiuso i conti (filmografici) con la città che lo ha adottato, si fa assillante il bisogno di continuare a mettere ordine, di "separarsi" quindi anche dal proprio paese natio, realizzando un film che evochi per l'ultima volta quel passato lontano eppure ancora così vivo. Dagli eventi citati in Amarcord si desume che il racconto si riferisca a un anno, da primavera a primavera, tra il 1933 e il 1937: nel 1935 fu composta e musicata "Faccetta nera", come motivo di propaganda della guerra in Etiopia; il film con Ginger e Fred "Voglio danzare con te" (Shall We Dance) di cui si intravede la locandina uscì nel 1937; il celebre "nevone" che sorprese Rimini è addirittura datato 1929. Ma è il 1933 l'anno che vanta le maggiori corrispondenze: la 7° edizione della Mille Miglia, il viaggio inaugurale del transatlantico Rex (anche se la nave non è mai passata da Rimini), la visita a Rimini di Achille Starace, segretario del Partito Fascista e allora anche presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano.
Esaurita senza piena soddisfazione la ricerca dell'anno in cui allocare i fatti, possiamo stabilire invece con precisione l'epoca dei ricordi: l'adolescenza. L'adolescenza di un uomo, di un paese, di una nazione intera. Bruno Zanin interpreta "Titta" Biondi, protagonista che prende il nome dall'amico di infanzia e compagno di scuola di Fellini, Luigi Benzi detto Titta. L'adolescenza è divisa tra il tempo "comandato", trascorso a scuola e in chiesa (a cui si somma quello dedicato alla disciplina fascista) e quello libero in cui Titta e compagni (tra cui annotiamo un giovanissimo Alvaro Vitali) smaniano dietro le femmine del paese, la Gradisca al di sopra di tutte. Il film è idealmente diviso in tanti episodi e montato da Ruggero Mastroianni (fratello di Marcello) con antitesi e parallelismi che conferiscono al testo, sia nei momenti più divertenti  che in quelli più tristi, una costante carica di tensione. Lo scorrere del tempo rallenta con l'arrivo della nebbia ma per antitesi accelera quando Titta entra nel negozio della tabaccaia. La confessione di Titta a don Balosa  offre lo spunto per una serie di parallelismi che ci mostrano attraverso dei flashback ciò che Titta pensa e non confessa,  chiedendo la nostra comprensione: le enormi forme della tabaccaia, la professoressa di matematica che sembra un leone, il giorno di Sant'Antonio quando si benedicono gli animali ma soprattutto i fondoschiena delle donne che rimontano in bicicletta, la Volpina,  la Gradisca sola nel cinema deserto.
Ancora più veloce è il montaggio che porta lo zio Teo in cima all'albero.
L'episodio in questione è da antologia. La famiglia Biondi al completo preleva lo zio Teo dal manicomio per trascorrere una giornata in campagna. La campagna descritta in Amarcord è quella di Gambettola, un piccolo paese tra Cesena e Savignano dove Fellini ha trascorso molte estati, ospite della nonna paterna. Per il ruolo dello zio Teo, Fellini ha dichiarato di aver scelto Ciccio Ingrassia, mosso sì da una naturale inclinazione verso i comici di avanspettacolo, ma soprattutto perché Ingrassia somigliava parecchio a un suo vero zio. Il casolare di campagna è il centro di un altro mondo, con regole diverse da quelle del borgo (vedi il bambino che attenta alla vita del fratello neonato), popolato da animali che ispirano nuove opportunità (l'ipnosi del tacchino, il calcio del rospo) e scandito da una diversa misura del tempo.
La fretta non ha niente a che fare con la campagna e il sole picchia e invita a non disperdere energia. Si pranza tutti insieme all'aperto, le cicale cantano, si gusta un bicchier di vino, ognuno si avvia a digerire come meglio crede, il tavolo è vuoto, uno stacco per lanciare l'allarme e lo stacco dopo lo zio è finito sull'albero. Il pomeriggio trascorre, la luce diminuisce di intensità, è una sequenza bellissima  che ogni volta mi lascia stupefatto: le inquadrature sono equilibrate in modo geometrico, i personaggi si muovono in un'armonia che contrasta con la crisi isterica di Armando e in generale con lo stato di emergenza generato dallo zio Teo. Che è sempre in cima all'albero e continua a gridare il suo desiderio: "Voglio una doooo-nna!" 


Le donne

"Mi fai morire Gradisca...Greta Garbo si deve andare a nascondere!"
Come in tutti i film di Fellini la donna ha un ruolo centrale e multiforme e merita la maggior attenzione.
Per prima la Gradisca, interpretata da Magari Noël (la ballerina Fanny ne "La dolce vita"), una bellezza che ricorda le pinup disegnate da Boccasile, che fonde femminilità e intelligenza comica in una sensualità irresistibile. Ma Gradisca prima di tutto è Ninola, una ragazza umile che sogna Gary Cooper o un principe azzurro, che sogna un uomo a cui dare tutto il sentimento che ha dentro. Una ragazza che sogna e che rappresenta il sogno di tutto il paese. Per questo le si perdona l'entusiasmo con cui accoglie - insieme a tutti gli altri - l'arrivo del gerarca fascista, perché il suo entusiasmo non esprime un'adesione politica ma la voglia di andarsene: qualunque novità tocchi il paese rappresenta per lei una possibile via di uscita. Così quando Gradisca si sposa e se ne va, il paese intero resta senza sogni e la spiaggia ripresa in campo lungo, spazzata dal vento, perde colore e la musica di Rota si gonfia di nostalgia e mortalità.
Tra le prostitute che sfilano per la strada principale, ma stranamente ai margini della storia, emerge la figura di Volpina, che mendica sesso senza chiedere nulla in cambio. E' uno dei personaggi più soli e complessi del film, che ha negli occhi l'istinto ferino e insieme una allegra disperazione che sfoga nell'atto sessuale.
La madre di Titta, interpretata da Pupella Maggio e doppiata da Ave Ninchi, lascia ad Armando il ruolo onorario di "capofamiglia" ma è lei in verità a tenere le fila, mentre il marito si danna l'anima mordendosi il cappello e maledicendo i figli. La sua definitiva dipartita precede di poco la partenza di Gradisca e lascia Titta e Armando privi di riferimenti.
La tabaccaia è la gigantessa che accoglie nel suo antro il giovane Titta. I suoi enormi seni sono oggetto di fantasie erotiche ma anche di un bisogno più recondito di nutrimento, di tornare al grembo materno, di lasciarsi possedere dalla madre, rinunciando a crescere. Di fronte ai seni nudi e disponibili, il desiderio lussurioso di Titta si trasforma  ben presto nel terrore di restarci soffocato in mezzo.
Ma la vera grande madre divorante è rappresentata dalle istituzioni. L'idea di patria imposta dal fascismo si affianca al cattolicesimo, contendendogli la promessa di salvezza. Un'analisi più approfondita di questa analogia in apparenza blasfema mostra alcuni punti in comune tra religione e fascismo: le gerarchie, il culto, i cerimoniali, ma soprattutto il modo in cui il messaggio - certamente diverso nella sostanza - viene recepito dal popolo. In entrambi i casi il popolo ripone la sua fede in un'entità superiore che si fa garante di un miracolo, sia esso economico-coloniale o divino.


La poesia come carica antifascista

Amarcord non è un film politico. Più volte accusato di non prendere una posizione politica definita Fellini ha preferito, anche nel caso del fascismo, osservare il fenomeno senza schierarsi contro o a favore.
La visione politica, astratta, che ragiona per categorie e riduce l'individuo a cifra statistica, è un discorso che a Fellini non interessa. Così come respinge il linguaggio adoperato dai media per affrontare i problemi sociali e millantare soluzioni: un linguaggio spesso tecnico ed elaborato, che tende anch'esso all'astrazione e sembra avere come unico obiettivo quello di tagliare fuori dal discorso proprio i diretti interessati.
Perciò un film di denuncia politica o sociale sarebbe un modo riduttivo per parlare al pubblico. La scelta coerente del maestro, anche e soprattutto in Amarcord è quella di raccontare la sua interpretazione della realtà durante il dominio fascista che precede la seconda guerra mondiale.
Così il film acquista una carica antifascista impensabile, proprio perché non strettamente politico. Amarcord diviene un esempio di antifascismo in senso individuale e introspettivo: ognuno di noi ha la responsabilità di cercare, riconoscere e affrontare la sua parte fascista e trasformarla in qualcosa di buono.
Perché in fondo il genio di Fellini è proprio questo: andare dritto all'essenza delle cose e poi guardare fuori.
Nella luce blu del Fulgor deserto la Gradisca si gira verso l'intrepido Titta e ancora distratta dal suo sogno gli chiede: "Cosa cerchi?"
O al buio, finalmente riscaldato dalla grande nave che arriva, il cieco di Cantarel  per tre volte grida: "Com'è? Com'è? Com'è?"


14/12/2015

Cast e credits

cast:
Bruno Zanin, Gennaro Ombra, Carla Mora, Luigi Rossi, Josaine Tanzilli, Maria Antonella Beluzzi, Ciccio Ingrassia, Giuseppe Lanigro, Stefano Proietti, Nando Orfei, Magali Noël, Pupella Maggio, Armando Brancia, Alvaro Vitali


regia:
Federico Fellini


distribuzione:
Dear International


durata:
127'


produzione:
F.C. Produzioni (Roma), P.E.C.F. (Paris)


sceneggiatura:
Federico Fellini, Tonino Guerra


fotografia:
Giuseppe Rotunno


scenografie:
Danilo Donati


montaggio:
Ruggero Mastroianni


costumi:
Danilo Donati


musiche:
Nino Rota


Trama
Il “borg” di Rimini, nella primavera di un anno tra il 1933 e il 1937. Titta Biondi (Bruno Zanin) vaga per l’adolescenza tra scuola, chiesa e parate fasciste. Sognando la “Gradisca” (Magali Noël) e sfogando le frustrazioni in bricconate e masturbazioni di gruppo. Dal ricordo di Rimini emerge la figura – anch’essa adolescente – della provincia italiana che mostra un campionario umano a dir poco variegato eppure organico, nel modo di essere al tempo stesso beffardo e ignorante, fertile suo malgrado all’ascesa fascista: i genitori di Titta, Aurelio (Armando Brancia) e Miranda (Pupella Maggio), gli zii “Lallo” (Nando Orfei) e Teo (Ciccio Ingrassia), il fratello Oliva, il nonno (Giuseppe Ianigro), i compagni di scuola (tra cui “Naso” interpretato da Alvaro Vitali), il preside Zeus e i professori, la Gradisca, “Volpina”, la tabaccaia, l’avvocato, Ronald Colman, il cieco di Cantarel, Don Balosa, “Biscein”, “Giudizio” e “Scureza de Corpolo”. Questi e molti altri, tutti insieme ad attendere la Mille Miglia, il grande Rex, un’altra primavera.
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