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recensione di Stefano Santoli

“Anna” di Grifi e Sarchielli è un film fuori dall’ordinario, un’opera dirompente; una messa in discussione aperta e problematica del rapporto fra riprese cinematografiche e realtà.
Anna, incontrata casualmente a Piazza Navona da Massimo Sarchielli, è un personaggio reale, una ragazza di 16 anni, dall’accento sardo, incinta all’ottavo mese, tossicodipendente, scappata da poco dall’ultimo di una serie di collegi. Il film inizia così: Sarchielli le chiede come sta, come intende provvedere a se stessa e alla sua gravidanza e si sente rispondere che, lei, ha solo bisogno di un posto per dormire. Sarchielli le offre di ospitarla a casa propria. Decidendo anche di farne un film, poiché intravide le potenzialità sociologiche di un personaggio-limite in cui si riflettevano molti aspetti e contraddizioni di quell’epoca (siamo nel 1972), su cui vi era una sensibilità estremamente accesa, caratteristica di quel momento storico. Il film, per buona parte, è una riproduzione, sceneggiata, della vicenda di Anna a partire dall’incontro di Piazza Navona [1]. Gli unici ambienti del film rimarranno Piazza Navona e la casa/set di Sarchielli.
Anna è in parte anche un personaggio immaginato - da Sarchielli e Grifi: Sarchielli aveva trasformato la vicenda in scrittura personale, stendendo una specie di sceneggiatura che propose ad Alberto Grifi, il cui punto di vista d’altra parte era vicino al documentario, al cinema diretto, piuttosto che alla finzione. Quando i due si misero al lavoro, quel che il film avrebbe dovuto essere per intero, nelle intenzioni degli autori, rimaneva comunque una riproduzione della realtà. A un certo punto però avvenne l’ingresso in scena dell’elettricista Vincenzo. E Anna, sfuggente e recalcitrante sin dalla prima inquadratura, si sottrae progressivamente sino a sparire, per andare a partorire in un ospedale dove non la vedremo mai. Il progetto di Grifi e Sarchielli allora esplode, il film prende una forma diversa. Diventa una cosa più sghemba, imprevista, per questo forse più autentica: la presa diretta di un cortocircuito fra la realtà e la sua rappresentazione. “Anna” termina con dialoghi che sono riflessioni aperte sulle implicazioni etiche ed estetiche del fallimento dell’operazione originaria. Fallimento grazie al quale “Anna” è la pietra miliare che è: una testimonianza insuperata delle aporie tra riproduzione cinematografica e realtà rappresentata.
“Anna” fu girato in un bianco e nero sgranato, con uno dei primi videoregistratori magnetici open reel portatili arrivati in Italia. Fu poi riversato su pellicola 16 millimetri con un “vidigrafo”, un apparecchio artigianale costruito da Grifi. Il montaggio vide la riduzione di un materiale di 11 ore nei 225 minuti del film. Le riprese risalgono al 1972, la distribuzione al 1975: presentato al Festival di Berlino e poi alla Mostra del cinema di Venezia, “Anna” vide un passaggio anche a Cannes nel 1976, rimanendo in cartellone al Filmstudio di Roma per alcuni mesi e diventando un cult underground del post-68. Privo ancora di una regolare diffusione home video, un recente restauro a cura dell’associazione culturale Alberto Grifi (scomparso nel 2007) ha rinnovato la popolarità del film, anche attraverso nuove proiezioni internazionali [2].


“Anna” come film politico

Il senso dell’operazione, in partenza, è ideologico. “Anna” nasce come film di denuncia. Contro la società borghese e la sua violenza su Anna, contro un sistema che emargina i deboli, i diversi, i ribelli e coloro che non vogliono omologarsi e uniformarsi alle regole morali e sociali dominanti. Anna appare una genuina rappresentante di chi non vuole identificarsi con regole imposte. Anna non cerca il benessere materiale, non corrisponde all’ideale di bellezza e nemmeno vuole conformarsi a norme di base della sanità (fuma in gravidanza).
Anche se connotata da un’intenzione documentaria di stampo progressista e anti-sistema, la concezione originaria del film lascia però intravedere più di un’ombra. Non si sottrae facilmente ad accuse di voyerismo e di paternalismo. Da un lato, Grifi e Sarchielli riducono Anna a oggetto visivo di una loro operazione e il loro intervento nella vita di lei, per quanto sensibile e accorto, implica una prepotenza. D’altra parte, il “prendersi cura” di lei, per quanto possa essere ridotto al minimo, mostra comunque qualche sfumatura di paternalismo. La mutazione che il film subisce è determinante anche per l’assunzione di consapevolezza e la messa in discussione di queste ambiguità, che nell’ultima parte della pellicola sono esplicitamente oggetto di riflessione verbale.
Se erano ideologiche già le intenzioni iniziali, anche la forma finale del film conserva, nelle intenzioni degli autori, un significato primariamente politico. Pur non escludendo implicazioni squisitamente estetiche, infatti, la principale autocritica degli autori riguardo al fallimento del tentativo iniziale di docu-fiction è di matrice ideologica. Recuperando un estratto dell’epoca, sentiamo come si esprimeva Grifi: “La passività critica con cui la regia ha ereditato la tecnica cinematografica borghese, insieme alla sua ideologia falsificante, questo tentativo di ricostruzione, almeno nella prima parte del film (…) spaccia[to] per improvvisazione (…), è resa leggibile dal momento che riguardando criticamente il materiale (…) si vede benissimo che ciò che si voleva girare era in aperta contraddizione con ciò che era realmente vissuto. Anna aveva ben altri problemi che stare a girare un film, e per di più un film come ce lo immaginavamo noi; anzi, per dire meglio, Anna era assai diversa, e per sua fortuna, da quello che noi volevamo che fosse” [3].
Nel corso degli anni, Grifi e Sarchielli hanno sempre incoraggiato la lettura del film come testimonianza di un ammutinamento spontaneo da parte dei tecnici dello staff al fianco dell’elettricista Vincenzo e di Anna stessa, la quale “voleva amore” (parole di Grifi) e non desiderava essere oggetto di una tesi. Grifi e Sarchielli hanno sempre sostenuto che il significato principale del film scaturisce dal rifiuto di attori e maestranze a sottomettersi all'autorità della regia: ciò che li portò a riconoscere come l’atto del filmare impoverisca i comportamenti umani, costringendoli all’interno della dimensione cinematografica che, fra l’altro, impone precisi limiti di tempo. È il montaggio a dettare infatti l’ultima forma di violenza autoritaria, alla fine. Perciò, anche la durata eccezionale del film rappresenterebbe un atto (politico prima che estetico) di insubordinazione al canone. Del tutto analogo, in ciò, da quel che rappresenta nel XXI secolo il cinema di Lav Diaz, con i suoi film di durata straordinaria. Leggiamo proprio le parole che ancora oggi si possono recuperare su una pagina del sito dell'associazione Alberto Grifi: “calcolando in denaro il tempo della pellicola, la regia calcola in denaro anche l'evolversi dei rapporti umani che filma, sottoposta alla dittatura del capitale”. Quest’ultima citazione mostra in tutta la sua evidenza l’applicazione in ambito cinematografico del retaggio marxista degli autori. Quindi anche l’uso della registrazione magnetica venne considerato rivoluzionario, sempre in senso politico prima che estetico: “la registrazione del tempo reale che dà il videotape non consente tagli o manipolazioni che fanno apparire la vita ‘più bella’ (come fa il cinema, confondendo montaggio e censura)”.
La lettura critica che fu data subito di Anna accolse questa prospettiva in termini estetici, come è possibile dedurre dalla lettura, per esempio, di queste parole di Adriano Aprà: “Dopo aver visto «Anna» si può affermare che il cinema verità, come esperienza complessiva, è morto; e che questo videotape segna l'inizio, se così si può dire, di una nuova «arte»; «Anna» costituisce l'approccio più convincente e produttivo con un nuovo mezzo, il videotape appunto, che il cinema-verità non ha fatto che anticipare, ipotizzare, sognare, ma entro i limiti categorici di un altro mezzo, il cinema, che in qualche modo veniva forzato nelle sue possibilità” [4].


Attualità delle implicazioni etiche ed estetiche di “Anna”

Per provare a circostanziare le velleità politiche e ideologiche degli autori, merita di essere ricordato l’episodio che sancisce il cortocircuito ultimo fra realtà e cinema, un episodio che fa emergere la sostanziale assenza di una soluzione alle ambiguità insite nella lettura ideologica della propria opera - qualora con essa si fosse voluto sperare che, in qualche modo, un’operazione come “Anna” fosse capace di incidere sulla realtà in senso concretamente rivoluzionario. L’episodio in questione dimostrerebbe semmai come questa velleità non potesse che restare illusoria. L’episodio è questo: al Festival di Venezia del 1975, mentre proiettavano “Anna”, Stefano Cattarossi, uno dei personaggi reali che partecipò al film, venne trattenuto fuori dalla sala dalle forze dell’ordine perché ubriaco. Mentre in sala il pubblico applaudiva la sua immagine, a lui era impedito di accedere in sala. Nella visione di Grifi, questa è una forma di emarginazione sociale, classista: “ecco che quegli spettatori finiscono per tramutarsi in questurini” [5].
A distanza di ormai quasi mezzo secolo dal 1972, mentre la portata socio-politica di “Anna” si è relativizzata, continuando a interessare soprattutto come testimonianza storica, l’importanza della riflessione estetica del film rimane invece intatta, anzi risulta rafforzata dal confronto con gli sviluppi più recenti della Settima arte. Il sovvertimento della sintassi cinematografica in corso d’opera rimane un unicuum: ancora oggi, mentre assistiamo alla proiezione di “Anna”, percepiamo l’iniezione di autenticità entrare nel campo della finzione e stravolgerla. All'inizio della visione siamo incapaci di distinguere ciò che può essere forse presa diretta da ciò che è riproduzione, mentre alla fine del film siamo avvertiti che realtà e cinema sono dimensioni impossibili da sovrapporre, anche se è possibile farle dialogare - in modo anzi piuttosto fecondo.
Per tutta la prima parte del film, l’attenzione dello spettatore si concentra non solo su Anna ma su tutti coloro che la circondano. Anna, costretta a recitare, è impacciata e reticente; non è se stessa. Ma sono invece loro stessi tutti gli altri, cui Anna fornisce inconsapevolmente il pretesto di dichiararsi (anch’essi inconsapevoli) per quello che sono. Anna è oggetto di discorsi, propositi, critiche e condanne (lei non ne è toccata, non sembra dar loro peso e comprendere). Rifiutando alla fine di interpretare la parte di se stessa ed essere ripresa, Anna si sottrae definitivamente al film, diventa irreperibile, rifiuta persino l'amore di Vincenzo. Il film prosegue mentre Anna è sparita: il reale è autentico solo se rimane inafferrabile? È il principio di indeterminazione di Heisenberg.
Una questione di natura etica, in particolare, emerge, che riguarda la portata dell’intervento di Sarchielli. Sarchielli ospita Anna a casa sua: c’è chi gli obietta che già sta incaricandosi troppo di affari non suoi, ma magari lo spettatore può ritenere che – nell’intenzione di rispettare la volontà di Anna – stia facendo troppo poco. Sarchielli si muove su un crinale molto delicato: da un lato ha violato l’autodeterminazione di Anna, dall’altro la sta “sfruttando” per il film senza fornirle gli aiuti concreti di cui avrebbe bisogno, e che (forse – o forse no) lei accetterebbe da parte di qualcuno che, a differenza di tanti, ha finalmente dimostrato di comprenderla, rispettarla, tenere a lei. Sarchielli (e Grifi) avrebbero dovuto allora impedirle alcune cose, spronarla ad altre: ciascuno di noi, assistendo al film, è libero di immaginare di cosa avrebbe avuto bisogno Anna, piuttosto che di girare un film su se stessa. Ci collocheremmo senz’altro pienamente in quell’ottica paternalistica di cui sopra. Ma c’è dell’altro. Una questione etica che è stata indagata meno ed è rimasta abbastanza in ombra, nella lettura critica di “Anna”. L’intervento di Grifi e Sarchielli sulla vita di Anna ha avuto un impatto su di lei: non ci si può certo limitare a considerare la reazione di Anna (il suo riprendersi la vita e sparire) un’azione indipendente da nessi di causalità con quanto le è accaduto a partire da quell’incontro di piazza Navona. La sua sparizione è un comportamento che ha le proprie radici nell’incontro con gli autori del film. Insomma: il film ha influenzato la realtà, prima di esserne influenzato. Ed è indubitabile che se la pretesa (ingenua) di ricostruire oggettivamente la realtà in modo para-documentaristico si è dimostrata fallace, non è stato soltanto perché contraddittoria alla radice (nessuna presa diretta è oggettiva - ogni sguardo è soggettivo; figurarsi se può essere oggettiva la pretesa di “ricostruzione” di una vicenda), ma perché è l’atto di filmare ad aver prodotto come conseguenza la reazione di Anna, il suo definitivo sottrarsi.
Il film si chiude dipanando tutte le contraddizioni che ha fatto emergere, senza chiuderne alcuna, lasciandole tutte aperte. Anna è inafferrabile perché la vera libertà non può essere raccolta/racchiusa/ordinata/razionalizzata. Ma non è la questione di fondo. E non lo sarebbe neanche traslando il discorso su un piano generale, universalizzando la riflessione e affermando in conclusione che tutta “la realtà è inafferrabile”, come pure abbiamo ipotizzato poc’anzi. Fermarsi a tale affermazione, a ben vedere, sarebbe un esito tutto sommato poco affascinante. Il motivo per cui invece “Anna” è veramente un’opera splendida, è che non avremmo potuto fare nessuna di queste considerazioni se, prima, non avessimo assistito al tentativo di racchiudere, ordinare, sistematizzare Anna in un film. “Anna” è un’opera che non si sottrae a nessuno dei rischi che si assume: derivino essi da questioni ideologiche, etiche od estetiche, la forza del film scaturisce dal suo mettersi in discussione, già a livello strutturale, proseguendo poi per mettere in discussione tutti i suoi assunti, e lasciarci con nessuna certezza ma molti dubbi fecondi di consapevolezze. Ancora oggi, forse per sempre.


[1] “La prima parte del materiale è caratterizzata dal tentativo di far recitare ad Anna certi momenti del suo vissuto (…) come per esempio il primo incontro di Anna e Massimo a piazza Navona, girato con la pretesa di farlo sembrare vero". Conversazione con Alberto Grifi, Filmcritica 256, agosto 1975, pp. 231-234.
[2] Il negativo 16mm, oltre all'usura del tempo, portava con sé tutte le caratteristiche delle videoregistrazioni dei primi anni 70: nel restauro, il grading digitale è intervenuto sul contrasto per ritrovare l'originale scala di grigi, senza intervenire sull’instabilità dell'immagine e sui drop creatisi in origine durante il trasferimento su 16mm.
[3] Conversazione con Alberto Grifi, Filmcritica cit.
[4] Adriano Aprà, ciclostile di presentazione di Anna alla Biennale di Venezia, 1975.
[5] Alberto Grifi, Il cinema contro, a cura di Roberto Silvestri, Anteprima per il cinema indipendente italiano, Bellaria, 1993, p. 37.


03/10/2019

Cast e credits

regia:
Massimo Sarchielli, Alberto Grifi


durata:
225'


fotografia:
Alberto Grifi


montaggio:
Alberto Grifi


Trama
Il film inizia come ricostruzione documentaristica della vita di Anna, una ragazza incinta, senza fissa dimora di 16 anni, dal suo incontro con Sarchielli a piazza Navona. Anna, però, restìa alla messa in scena della sua vita, rende difficile la realizzazione. Il passaggio dalle quinte al proscenio di Vincenzo, elettricista di scena che dichiara il suo amore nei confronti della ragazza, annullano qualsiasi pretesa di fiction.