dark comedy, drammatico | Messico/Usa (2024)
La cucina di un ristornate è uno spazio misterioso, un microcosmo con regole e dinamiche specifiche, normalmente celate agli occhi di chi non ne prende attivamente parte. Un’ordinaria invisibilità che il cinema ha ormai largamente squarciato, sfruttandone gerarchie, tensioni, sensazioni e movimenti per imbastire una moltitudine di specchi sociali estremamente affascinanti, proprio perché pragmaticamente ancorati a una realtà spesso impercettibile.
Dall’esistenzialismo gastronomico di "The Bear" all’intrattenimento inquietante di "The Menu", passando per la pressione ansiogena in piano sequenza di "Boiling Point" e la passionale delicatezza de "Il gusto delle cose", sono ormai numerosissimi gli esempi recenti di opere appartenenti a una sorta di filone cine-culinario, capaci di rielaborare continuamente l’ambientazione attraverso un’ampia eterogeneità di forme e interpretazioni. A esse si aggiunge anche l’ultimo film del messicano Alonso Ruizpalacios, presentato in concorso al 74esimo Festival di Berlino, che riesce sorprendentemente a evitare il rischio concreto di ridondanza, rielaborando gli schematismi più tipizzati in modo profondamente identitario.
Estela è una giovane immigrata messicana appena giunta a New York alla ricerca del The Grill, locale dove lavora un conoscente che potrebbe aiutarla celermente a ottenere un lavoro. L’impatto è disorientante, per lei e per lo spettatore, con un montaggio fatto di fotogrammi frammentati e deliranti monologhi che sintetizza la confusione delle strade di Manhattan, interrotto solamente quando la ragazza raggiunge finalmente l’entrata della tavola calda. La camera si immerge allora con ingannevole fluidità tra gli anfratti labirintici dell’edificio, dove Estela riesce a farsi assumere con un sotterfugio per poi rivelarsi per ciò che è realmente, un semplice comprimario della storia.
Diventa infatti soltanto una dei tanti immigrati clandestini che compongono lo staff della cucina, un melting pot di latini, arabi e qualche sporadico americano, dal quale emergono i veri protagonisti del racconto: il cuoco di origine messicana Pedro e la cameriera Julia, coinvolti in una relazione focosa e turbolenta. Proprio nel momento in cui i due si fronteggiano per una decisione cruciale nelle proprie vite, i loro problemi si intrecciano con la scoperta di un furto avvenuto la sera prima dalla cassa del ristorante e di cui Pedro finisce per diventare il principale indiziato, dando il via a un’inevitabile e imprevedibile escalation di dramma e follia.
"Aragoste a Manhattan" dischiude così, attraverso un ritmo incalzante e progressivo, tutta la sua potenza narrativa: Ruizpalacios costruisce uno slowburn brillante, che riesce nell’impresa di amalgamare alla perfezione il disagio insito nella dimensione collettiva dei lavoratori con quello strettamente personale dei protagonisti. I componenti della cucina si avvicendano sullo schermo in maniera rocambolesca, indaffarati ad alimentare una macchina capitalista fatta di ipocrite apparenze e accomunati dal fatto di non avere alternative, a prescindere che ciò dipenda dalla loro condizione economica o di cittadinanza.
La cucina del The Grill è di fatto uno schema piramidale, a metà tra un girone dantesco e un’alienante catena di montaggio chapliniana, che non può permettersi di fermarsi per nessuna ragione. Una trasposizione spietata della struttura consumista, sempre più deumanizzante e classista, dove i bisogni e le necessità degli ultimi diventano fonte di nutrimento per le frivole e artificiose pretese dei ricchi, che governano la realtà al punto da trasformare un alimento storicamente di scarto come l’aragosta in una lussuosa prelibatezza. Un quadro estenuante e nevrotico, dove le differenze individuali si traducono facilmente in un crescendo di scontri e sfoghi incontrollati e potenzialmente letali per l’evidente fragilità del sistema.
Ma, come detto, il film non si limita ad analizzare il contesto da una prospettiva globale ed estende la visione al suo impatto sul singolo, tramite una caratterizzazione arguta e sfaccettata dei personaggi di Pedro e Julia.
Il primo è in particolare il vero fulcro del racconto, un sognatore ambizioso, oppresso dalla propria posizione sociale ma anche dal proprio egocentrismo, troppo egoista e pieno di sé per accorgersi dei sentimenti di chi gli sta intorno. Un uomo avvilito che deve fare i conti con pregiudizi e frustrazioni, vittima del razzismo sistemico e di promesse fallaci, ma anche un borioso provocatore che contribuisce a fomentare la struttura nel quale è imbrigliato, allineandosi ai suoi valori per cercare di scalarla. Un antieroe che riesce a divertire, intenerire e irritare, permettendo di guardare all’inesorabile spirale autodistruttiva che lo travolge con occhio critico e non banalmente compassionevole, così da riflettere sulla complessità delle cause che contribuiscono alla genesi di una rovina individuale post-moderna.
Allo stesso modo, anche il personaggio di Julia assume una connotazione stratificata, grazie a un arco narrativo toccante verso la riappropriazione di sé; una donna tanto rude quanto vulnerabile, in grado di districarsi dalla vena di controllo patriarcale latente nella sua relazione e instradarsi verso una sorte meno fatalista rispetto al compagno, con la sensazione sottesa che in ciò non sia marginale il suo essere bianca e americana. Due figure dallo straordinario vigore espressivo, a cui contribuiscono significativamente le notevoli interpretazioni di Raúl Briones e Rooney Mara, uniti da una chimica palpabile ogni volta che condividono lo schermo e capaci di catturare precisamente i turbamenti emotivi che affliggono i rispettivi personaggi.
Il grande punto di forza di "Aragoste a Manhattan" non risiede però soltanto nella solidità della sceneggiatura, ma in gran parte nel modo in cui viene elaborata a livello estetico. Alonso Ruizpalacios si dimostra ancora una volta, dopo lo spiazzante "Una película de policías", un regista convincente, abile nel manovrare la macchina da presa alternando momenti di placida staticità a sequenze incalzanti e impetuose, che in questo caso permettono al film ‒ libero adattamento dalla pièce "The Kitchen" di Arnold Wesker ‒ di abbattere il pericolo implicito di eccessiva teatralità.
Un risultato a cui contribuiscono in misura non inferiore la scenografia di Sandra Cabriada, articolata con spazi claustrofobici in un emblematico simbolismo verticale, e soprattutto la fotografia. Il bianco e nero dipinto da Juan Pablo Ramírez è scultoreo e polveroso, efficace nel sospendere le immagini all’interno di un’aura felliniana, dove il reale confluisce suggestivamente nell’impressione onirica per poi ripiombare prepotentemente nella lucidità di un incubo, una caratura spezzata saltuariamente da mirati e allegorici tocchi di colore.
"Aragoste a Manhattan" è un’opera esasperata, che interseca il dramma corale con la satira grottesca per dare vita a una caustica invettiva politica sullo sfruttamento e la prevaricazione dei più deboli. Il virtuosismo di Ruizpalacios può forse apparire a tratti sovrabbondante, ma è nel complesso funzionale e lungimirante nell’accentuare l’asfissiante oppressione dell’America trumpiana, patria dell’homo homini lupus che divora impietosa le anime sconsolate dei non privilegiati.
cast:
Raúl Briones, Rooney Mara, James Waterson, Anna Díaz, Eduardo Olmos
regia:
Alonso Ruizpalacios
titolo originale:
La Cocina
distribuzione:
Teodora Film
durata:
139'
produzione:
Fifth Season, Filmadora, Astrakan Film AB, Panorama Global, Salta la Liebre, Seine Pictures
sceneggiatura:
Alonso Ruizpalacios
fotografia:
Juan Pablo Ramírez
scenografie:
Sandra Cabriada
montaggio:
Yibran Asuad
costumi:
Adela Cortázar
musiche:
Tomás Barreiro
Tra i fornelli di un caotico ristornate newyorkese, il cuoco di origine messicana Pedro e la cameriera americana Julia intraprendono una tenera e burrascosa storia d’amore. Le cose si complicano quando viene scoperto un furto nella cassaforte del ristorante, che nell’arco di una sola ed estenuante giornata metterà in gioco il destino dello staff e dell’intero locale.