fantastico, avventura, musicale, sentimentale | Usa (2025)
La cosa triste di "Biancaneve" (Marc Webb, 2025) è che è un film che dal punto di vista strettamente cinematografico ha poco da dire. Se lasciamo da parte gli enormi travagli produttivi, massicciamente influenzati dal gossip, dagli pseudo-scandali e dai conseguenti ri-assestamenti ideologici avvenuti in corso d’opera, ciò che resta è un prodotto insignificante, tragicamente non all’altezza dell’originale da cui è tratto ("Biancaneve e i sette nani", 1937) e, a conti fatti, inutile. Dice molto, tuttavia, dello stato delle produzioni mainstream americane (soprattutto in casa Disney) e della deriva del politicamente corretto e dei movimenti woke.
Apro una breve parentesi polemica con una domanda: qual è il senso dei remake live action Disney? Ci sono alcuni casi in cui si è cercato di rileggere le opere di partenza in chiave autoriale ("Alice in Wonderland", Tim Burton, 2010; "Cenerentola", Kenneth Branagh, 2015; "Dumbo", Tim Burton, 2019), pur con esiti altalenanti; altri in cui si è cercato di raccontare nuove storie ambientate nello stesso mondo, spesso realizzando delle origin story sui villain ("Maleficent", Robert Stromberg, 2014; "Maleficent - Signora del male", Joachim Rønning, 2019; "Crudelia", Craig Gillespie, 2021) o approfondendo personaggi già esistenti ("Mufasa - Il re leone", Barry Jenkins, 2024); nelle rimanenti occasioni i film realizzati sono al limite del calco dell’originale ("Il libro della giungla", Jon Favreau, 2016; "La bella e la bestia", Bill Condon, 2017; "Aladdin", Guy Ritchie, 2019; "Il re leone", Jon Favreau, 2019; "Lilli e il vagabondo", Charlie Bean, 2020; "Mulan", Niki Caro, 2020; "Pinocchio", Robert Zemeckis, 2022; "La sirenetta", Rob Marshall, 2023). È il caso anche di "Biancaneve", che sotto l’apparenza di una rivisitazione in chiave progressista dei temi trattati dal capolavoro del 1937 nasconde il nulla. Per questo mi chiedo (e vi chiedo) qual è il senso di questi remake nel momento in cui l’operazione è incentrata unicamente sul rifare qualcosa di preesistente senza aggiungervi peculiarità di qualsivoglia tipo. So bene che siamo nell’epoca dei remake, sequel, midquel, reboot, requel, ecc., ma forse alla Disney questa cosa sta un po’ sfuggendo di mano, sia sul versante ideologico – dove sembra che sempre più siano gli spettatori e la reazione dell’opinione pubblica a dettar legge sulle scelte editoriali – che su quello produttivo – i remake non sono mai stati fonte di incassi sbalorditivi. Quindi perché incaponirsi?
Ma veniamo al dunque, lasciando da parte le polemiche. "Biancaneve" ri-narra la storia che tutti conosciamo, pur con delle piccole – dal punto di vista concreto – variazioni, che tuttavia in termini di economia narrativa sono abbastanza enormi. La prima è ovviamente la ricalibrazione delle aspirazioni della protagonista, che se nell’originale trovava il vero amore qui è invece una paladina dei diritti civili nonché guerrigliera che si schiera contro le oppressioni della malvagia (ma va?) regina cattiva. Ne consegue logicamente (leggi: ideologicamente) che un principe non può più esistere, sostituito da una sorta di Robin Hood che ha sbagliato universo, perché tal ruolo porrebbe in discussione l’autodeterminazione della – lei sì – principessa Biancaneve (che qui si chiama così perché nata in una giornata particolarmente nevosa). Ultima, ma non per importanza, i nani. Su quest’aspetto è successo tutto e il contrario di tutto: inizialmente i nani dovevano essere interpretati da veri attori affetti da nanismo (perdonatemi l’imprecisione nell’attribuzione del termine medico), in nome della corrispondenza tra caratteristiche fisico-biologiche e ruolo assunto nel film, ma poi si è deciso di invertire la rotta (pur inserendo un attore affetto da nanismo nel cast) perché tale operazione sarebbe risultata discriminatoria – in che modo è solo la prima di tante domande che sorgono – optando infine per la ricreazione dei nani in computer grafica. L’esito è a dir poco uncanny, con fisionomie che sono più umane di quanto sarebbe stato necessario ma con una resa visiva troppo "lucida" e con una totale piattezza nelle espressioni facciali e in generale nell’espressività corporea. Ne consegue il completo svuotamento della forza eversiva che caratterizzava i personaggi dei nani nell’originale, qui ridotti a degli idioti che incassano una lezione dietro l’altra da Biancaneve senza essere dotati di nessun tipo di personalità.
Questo tipo di scelte rappresenta bene – per ironia della sorte – il risultato complessivo di "Biancaneve", che è un film che pone in atto soluzioni complicate per ottenere effetti di dubbia efficacia, che semplifica questioni complesse e finge che questioni semplici siano complicate, che introduce variazioni per non modificare nulla nella sostanza, che cerca l’approvazione di un pubblico – che, visti i risultati al botteghino, non si capisce più nemmeno quale dovrebbe essere – che finirà comunque per lamentarsi perché non ha ottenuto il suo film fatto su misura e che non pone in campo una ricerca di alcun tipo, registica, stilistica o contenutistica che sia.
È così difficile parlare di questo "Biancaneve" perché non è un film. È il prodotto residuale di un fan service viziato dal politicamente corretto, incapace di reggersi su sé stesso e che lungo tutta la sua durata sembra chiedersi qual è il senso della sua esistenza. Il problema non sta nel voler raccontare storie preesistenti. Il problema sta nell’appropriarsi di queste storie trasformandole in bignamini al servizio di ideologie totalitarie, che soffocano l’arte prima ancora che nasca. Il problema sta nello strappare le storie al loro senso senza essere in grado di trovarne un altro. "Biancaneve" non è il problema: è il risultato – o peggio: l’espressione – di un problema; è la radicalizzazione di istanze sociali messa in forma tradendo i significati dei simboli e le stesse istanze che li nutrono. Operazioni come questa sono velenose per la cultura, perché ci convincono che l’arte debba non solo imitare pedissequamente la realtà, ma anche riprodurla in una forma edulcorata costruita su una percezione fallata dall’ideologia. Il problema non sono quindi i live action Disney, ma il vulnus culturale entro cui nascono e a cui forniscono legittimazione. E non cadiamo in facili fraintendimenti: le battaglie per cui si combatte sono corrette, giuste, legittime, sacrosante, vitali; è tutta una questione di metodo. Non prendo a schiaffi mio figlio giustificandomi dietro al fatto che lo sto educando. Allo stesso modo non giustifico un mondo fatato – che ha peraltro perso intrinsecamente la nozione di fiabesco, che è sinonimo sì di lieto fine, ma anche di ansie, pericoli e brutture attraversate per raggiungerlo – tenuto al riparo dal presunto "male" che lo affligge per dar adito a battaglie sociali che condivido ma combattute con gli stessi mezzi che vogliono sconfiggere.
Speriamo sia l’ultimo capitolo di questo enorme fraintendimento collettivo entro il quale ci siamo immischiati. Intanto, urge una presa di posizione e un rifiuto di questo neo-fordismo del prodotto culturale.
cast:
Rachel Zegler, Gal Gadot, Andrew Burnap, Ansu Kabia
regia:
Marc Webb
titolo originale:
Snow White
distribuzione:
Walt Disney Studios Motion Pictures
durata:
109'
produzione:
Walt Disney Pictures, Marc Platt Productions
sceneggiatura:
Erin Cressida Wilson
fotografia:
Mandy Walker
scenografie:
Kave Quinn, Niall Moroney, Stella Fox, Claire Smithson
montaggio:
Mark Sanger, Sarah Broshar
costumi:
Sandy Powell
musiche:
Jeff Morrow