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recensione di Antonio Maiorino
Quando nel 1965 Jean Luc Godard gira "Pierrot le fou", ha la fortuna di poter sfruttare la presenza in Europa del cineasta yankee Samuel Fuller, trasferitosi in Francia con l'intenzione di girare "Les Fleurs du mal" ed immediatamente accolto da una folta schiera di adoranti registi e critici della Nouvelle Vague. La misura dello charme esercitato dalla poetica burbera e condita di fine ironia dell'americano sulla élite transalpina è suggerita dalla memorabile sequenza in cui Ferdinand Griffon (Jean Paul Belmondo) s'imbatte ad un party parigino nello stesso Fuller - che si auto-interpreta - interrogandolo su cosa sia il cinema. La risposta - rigorosamente in inglese - che Godard mette in bocca al regista feticcio è tanto concisa quanto eloquente: "A film is like a battleground. It's love, hate, action, violence, death. In one word: emotion". Solo due anni prima, proprio quell'impasto aveva segnato la fortuna de "Il corridoio della paura".

"Shock corridor" è il primo dei due film realizzati da Fuller con la casa di produzione Fromkess-Firks. Ispirato alla storia di Nellie Bly, giornalista americana che nel 1887 si era infiltrata nell'ospedale psichiatrico di Blackwell's Island per scrivere un articolo sulle condizioni delle pazienti, il film assume quale battleground proprio una casa di cura per persone con squilibri mentali. Vi si introduce, sotto le mentite spoglie di un deviato sessuale, l'ambizioso redattore del Daily Globe Johnny Barnett (Peter Breck), con l'intento di far luce su di un caso di omicidio e guadagnarsi il premio Pulitzer. La benedizione dell'editore Swanee e l'assistenza psichiatrica del Dottor Fong non ne tranquillizzano la compagna Cathy (Constance Towers), incaricata di fingersi sorella di Johnny per denunciare un tentato incesto, ma recalcitrante ad acconsentire che l'amato si immerga in un ambiente che rischia di logorarne seriamente la personalità. Messa alle strette - Johnny punta i piedi e minaccia di lasciarla - ed allettata dalle prospettive di guadagno, Cathy, infine, si presta alla macchinazione.
La strategia di Johnny, una volta introdottosi nel manicomio, prevede l'interrogazione dei tre testimoni dell'omicidio Sloan. Sullo sfondo del "corridoio" in cui i malati socializzano, fulcro scenico di potente suggestione, Fuller sviluppa una mini-galleria di indimenticabili personaggi: Stuart (James Best), un veterano della guerra di Corea regredito ai tempi della guerra di secessione dopo il lavaggio di cervello ad opera dei comunisti nordcoreani; Trent (Hary Rhodes), afro-americano crollato psicologicamente per la mancata integrazione all'università ed ora convinto di essere un bianco a capo del Ku-Klux-Klan; Boden (Gene Evans), geniale scienziato nucleare regredito a bambino di sei anni per rimuovere la responsabilità nella creazione mortifera dell'atomica. Opportunamente approcciato, ogni testimone si rivela per Johnny una preziosa fonte d'informazioni, ma l'indagine si svolge parallelamente alla discesa del giornalista investigatore negli abissi della follia: il colpevole viene smascherato e l'articolo vince il premio Pulitzer, ma l'equilibrio mentale del reporter, a lungo scricchiolante, è irrimediabilmente compromesso.

"Gli dei rendono pazzi coloro che vogliono perdere" è la citazione da Euripide che apre e chiude il film: una parabola brutale di pazzi e perdenti, intrisa di riferimenti culturali all'autolesionismo della nazione americana disseminati in un percorso psicologico dissociativo prospettato come uno strapiombo sinistro della profezia iniziale piuttosto che cesellato con le finezze del dramma psicologico. Fuller maschera sotto una detective story dalle tinte noir lo schema tragico universale dell'uomo in preda allo scontro dilacerante di forze opposte. L'istituto psichiatrico diventa un microcosmo di "claustrofobie paratattiche", calvari personali e paralleli coincidenti solo nell'universale collisione degli opposti: Stuart si figura patriota per difetto di patriottismo durante l'esperienza coreana, il discriminato Trent trasmuta in discriminatore, Boden passa dal potere di vita e di morte della scienza alla deresponsabilizzazione dell'infante. Il corridoio è, visivamente prima che simbolicamente, il topos di un'ineluttabilità violenta. Dopo una furiosa lotta nelle cucine, il colpevole viene inchiodato al pavimento del corridoio: i colpevoli sono colpevoli. I dottori a colloquio con Johnny nel corridoio non gli credono quando questi afferma di essere un giornalista infiltrato: i pazzi sono pazzi. Johnny cerca furiosamente di restare sé stesso, ma è trascinato dalle forze incontrollate del contesto. Così è anche in America, nella visione violenta di Fuller per cui lo scontro di forza, senza vincitori, è una patologia diventata fisiologia, una barbarie promossa alla sistematicità della civiltà: "Il corridoio della paura è prima di tutto un film sull'odio. A questo mondo, per una ragione o per l'altra, ci piace odiare. Viviamo in un mondo nel quale se qualcuno fa un discorso e dice: «Bisogna odiare questo o quello», ci sarà sempre qualcuno che l'ascolta e lo segue". (S. Fuller, da Il cinema di Samuel Fuller, TORTOLINA, RUBINI).

Le riprese, di immediatezza rude ma non rudimentale, assecondano il percorso mentale del protagonista. La prima dissociazione è oggettiva, ossia rivolta all'immagine che Johnny ha di Cathy. Da poco entrato nell'ospedale psichiatrico, nel sognare la propria bionda compagna Johnny la visualizza diversamente dalla donna premurosa e preoccupata che si era adoperata per evitare che il proprio uomo finisse in pericolo: in una sequenza onirica sovraimpresse, la comparsa ectoplasmatica di una Cathy in miniatura mangiatrice di uomini rivela il desiderio inconscio del giornalista, dissociato dall'immagine reale sin qui profilata. Cathy, infatti, si muove e parla diversamente nel sogno rispetto alle scene precedenti.
La violenza registica di Fuller arriva oltre, nella scena impattante dell'elettroshock, aperta da un medium close-up e trasformata in una bolgia di immagini ancora sovraimpresse (Cathy che danza, le ninfomani, gli scontri razziali di Trent) e di suoni (le urla di Johnny ed una scala di piano discendente): overdose iconico-cacofonica con lo scopo di far esperire sensorialmente allo spettatore il rilascio della tensione, prima della dissolvenza in nero che accompagna la perdita dei sensi del paziente.
Almeno un altro tour de force d'inquadrature si può annoverare tra i vertici stilistici della carriera di Fuller: la sequenza della pioggia nel corridoio. Il piano sequenza che segue Johnny avvicina lo spettatore al protagonista, mentre la voce interna ci introduce nei pensieri del giornalista che cerca di ricordare il nome dell'assassino. Il reporter ha poi la sensazione che cominci a piovere: il rombo del tuono e l'effetto goccia accompagnano il trapasso di inquadrature dall'oggettiva alla soggettiva. È una soggettività dissociata: il bellissimo spostamento a sinistra della macchina da presa, che trascorre sull'ombra allungata di Johnny con la mano tesa per raccogliere le gocce, rivela, nel contrasto ombra/luce e nella generazione del doppio (l'ombra), la divaricazione tra realtà ed immaginazione, oggetto e soggetto, sanità ed insanità, ripetendosi subito dopo a corridoio vuoto: tale, infatti, è nella visione distorta di Johnny.

Stilisticamente, dunque, giochi di luci e di inquadrature disegnano tappe alterne tra visione soggettiva di Johnny e realtà, mentre gli effetti visivi (sovrimpressioni, scene oniriche, moderati effetti speciali come quello della pioggia) e sonori rendono tangibile il crescente disagio mentale del protagonista. Se i meriti di uno sviluppo narrativo denso e ritmato vanno ascritti alla visività sintetica della direzione di Fuller, non meno importante è la fotografia scaltrita e pietrificante di Stanley Cortez ("The magnificent Ambersons", "Night of the hunter"), che modella un bianco e nero atmosferico ed incisivo su angolazioni audaci e primi piani impietosi e comunicativi. In alcune copie, ci sono sequenze oniriche a colori con cui il regista segnala i flashback degli ospiti del manicomio.

Quello di Fuller è un cinema "senza paura", essenziale quasi fino al primitivismo. Di lì a poco, "The naked kiss" (1964) ne avrebbe segnato un'altra manifestazione notevole.
23/07/2010

Cast e credits

cast:
Peter Breck, Constance Towers, James Best, Hari Rhodes, Gene Evans


regia:
Samuel Fuller


titolo originale:
Shock Corridor


durata:
101'


produzione:
Leon Fromkess-Sam Firks Productions


sceneggiatura:
Samuel Fuller


fotografia:
Stanley Cortez


scenografie:
Eugène Lourié (art director), Charles S. Thompson (set decoration)


montaggio:
Jerome Thoms


costumi:
Einar Bourman


musiche:
Paul Dunlap