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recensione di Pietro S. Calò

Se la data di nascita del cinematografo è universalmente riconosciuta nella serata, a pagamento, di quel 28 dicembre 1895, per quanto riguarda l’animazione, la questione è più complessa.
Pur presentandosi come sottoinsieme del "Live Action", il disegno animato non è scaturito dalla pretesa matrice ma gli è, e di molto, anteriore. L’animazione aveva potuto fare a meno del caposaldo della cinematografia, la pellicola, sicché il cinematografo nasce necessariamente dopo la fotografia, e con l’alto patronato della Medusa, che del cinema fu la prima martire, auto-pietrificata dalla sua stessa immagine.
L’animazione no. I disegni fissati nel tempo furono il primo problema che si pose l’umanità già ai tempi dei dinosauri, quando, a tempo ritrovato, faceva il graffitaro. Da quel momento si possono ricordare migliaia di composizioni, disegnate, colorate e legate da un proto-montaggio, ma quello più suggestivo, ricordato da Isao Takahata nella prefazione di un volume dedicato all’arte di Emil Cohl (Emil Cohl, l’inventeur du dessin animé), è un artefatto, la celebre "Tapisserie de Bayeux", un superbo arazzo di quasi settanta metri, in cui le singole pezzuole fungono da sequenze e le cuciture da montaggio della celebre conquista dell’Inghilterra da parte dei Normanni di Guglielmo il Conquistatore, con tanto di antefatto e incoronazione finale.
Tralasciando il valore (immenso) e l’influenza (decisiva) dell’opera, possiamo notare che gli strumenti analitici della composizione sono più afferenti alla critica d’arte figurativa che alla futura critica cinematografica: come un quadro, una pala, un affresco, essa si presenta propriamente come arte sintetica, non nel senso di un incrocio di codici svariati ma di una stringa di significanti ellittici ed evocativi. Solo più tardi l’enorme serbatoio delle fiabe prima, e l’oceano delle storie illustrate, fumetti e graphic/light-novel poi, dirigeranno l’animazione verso una pescosissima narratività.

Dalle ombre cinesi a Emile Reynaud
Facciamo adesso un passo in avanti e poniamoci l’interrogativo di natura tecnica: come si crea il fenomeno ottico? I più antichi spettacoli di illusione ottica sono le ombre cinesi, ottenute in un primo momento col solo ausilio delle mani e che poi si perfezionarono con dei modellini ritagliati a mo’ di sagome, che si "muovevano" da dietro un proto-schermo, retroilluminato e translucido. Popolarissime nell’Estremo Oriente e a Giava, si diffusero per contiguità geografica nel mondo musulmano, che a sua volta adottò alcuni dei canoni delle marionette e del teatro dei pupi, in voga nell’Europa soprattutto Meridionale.
Presentati sui palchi teatrali ma soprattutto negli spettacoli fieristici e itineranti, l’illusione del movimento, sia come silhouette sia come marionetta comandata e articolata dalle mani, trovò il suo pubblico naturale nella gente del popolo che accompagnava i bambini (ma ne traeva diletto essa stessa), tant’è che nei non rari spettacoli di corte, senza scusanti, i re, la regina, la pletora di nobili e la nobile infanzia condividevano gli stessi piaceri, e ciò rappresentò una caratteristica decisiva che l’animazione avrebbe sempre conservato, un bacino d’utenza totale, ricchi e poveri, colti e ignoranti, uomini e donne, bambini e adulti.
Il linguaggio universale di cui la Lanterna Magica era dotata, aggiunse un altro tassello, nevralgico: nel secolo XIX, povero di alfabetizzazione, il mostrare senza bisogno di dichiarare mise in mostra le possibilità didattiche ma anche propagandistiche del nuovo mezzo di comunicazione. La didattica profuse tutte le sue forze nel messaggio morale: la Chiesa, per esempio, che calcò la mano sulla rappresentazione dell’Inferno che cementò le fedi più traballanti; e più tardi la Rivoluzione, quando, appena conquistata la Bastiglia, il fisico e illusionista Robert Robertson si impegnò a meravigliare il già ben eccitato popolo-pubblico parigino con le sue "Fantasmagorie", un termine ripescato dal greco antico che da quel momento entrò nel linguaggio comune (e che fu finemente analizzata da Aldous Huxley ne "Le porte della percezione"). Si trattava di una rappresentazione complessa, messa in scena da un fantascopio (due dischi disegnati e colorati che ruotavano in senso opposto) e una lanterna magica munita di ruote costrette su di un binario che, oltre all’illusione ottica, raddoppiava la dinamica con un movimento effettivo. La convulsione di immagini e movimento restituiva insomma il significato originario della fantasmagoria come una successione senza tregua di immagini impressionanti.
Di evoluzione in evoluzione arriviamo infine a Emile Reynaud, il cui prassinoscopio è l’anello di congiunzione tra il pre-cinema e la cinematografia. Al di là della tecnica che, attraverso l’utilizzo degli specchi rende l’immagine più chiara e godibile, il prassinoscopio a cilindro girevole costringe, data la sua struttura complessa e estremamente fragile, alla stanzialità. È fuori discussione trasportalo nelle fiere, nelle quali le illusioni ottiche avevano sempre rappresentato l’attrazione più amata; in attesa della sala cinematografica, Reynaud si installa in un museo delle cere la cui direzione artistica era stata affidata al celebre caricaturista Alfred Grevin, e che diventò allora il Museo Grevin. Reynaud accetta di mettersi a stipendio e, col senno del poi, fu una pessima mossa poiché ne cedette l’esclusiva e fu completamente assorbito da una mole di lavoro impressionante, una media di 1500 immagini disegnate a mano e arrotolate in un nastro che scorreva senza alcun ausilio meccanico ma col tocco di entrambe le mani che si muovevano in sincrono, ma in direzione opposta. Inoltre, a ogni fine spettacolo, Reynaud era costretto a disfarsi di molte immagini che, al contatto con la lampada ad arco, si deterioravano molto facilmente, o si bruciavano addirittura. Il primo spettacolo di Reynaud porta la data del 28 aprile 1892, ed è una sorta di prova generale davanti a un pubblico selezionato, nel Museo Grevin; Grevin che, per motivi di salute, si era dimissionato e aveva affidato la direzione artistica all’altrettanto celebre disegnatore Jules Chéret; Chéret che, per l’occasione, disegna un brillante manifesto in cui Pierrot e Colombina stanno danzando una sarabanda, introducendo così il concetto di "locandina". Delle tre scene che costituiscono lo spettacolo, è giunta fino a noi solo la terza, Pauvre Pierrot, conservata tuttora nel Museo Arti e Mestieri di Parigi.
Avevamo accennato al lavoro immane sulle spalle di Reynaud: una sua, almeno parziale, "furbizia", fu scaturigine di una tecnica decisiva nel cinema d’animazione, e la è tuttora. Si tratta del "principio di dissociazione". Consiste nel tenere fissa la porzione di quadro che non muta tra primo piano e sfondo, e nel disegnare solo i minimi mutamenti che intercorrono nella dinamica scena-personaggio (per esempio la mano che stringe il bicchiere e se lo porta alla bocca mentre il corpo rimane fermo). Questo principio di economia oltre a costituire un gran risparmio di tempo solleva il disegnatore dalla routine e verrà, di norma, delegato al cosiddetto intercalatore, la gavetta necessaria di ogni animatore. Reynaud, purtroppo per lui, poté al massimo essere intercalatore di se stesso poiché la sua dinamica consisteva di appena due frame sovrapposti, entrambi cruciali tanto da sconsigliarne la delega. Nell’animazione dei nostri giorni le chiamiamo key pictures e corrispondono ai frame che raccordano le inquadrature nel montaggio, uno di ingresso e uno di uscita, ed è una delle operazioni più delicate della messa in scena, motivo per cui Reynaud se li disegnava da sé.
Ultima caratteristica rimarchevole è il sincrono suono/immagine, non soltanto attraverso i rumoristi o le piccole orchestre fuori scena, ma addirittura con la fissazione sul cilindro rotante di piccoli circuiti che si attivano tramite apposite linguette azionate dal giro di manovella che eccitano una elettrocalamita che batte un piccolo percussore che sincronizza, all’altezza esatta dei fogli in scorrimento, il suono desiderato (in questo caso un colpo secco).
Del sudatissimo lavoro artigianale di Reynaud possiamo ammirare il suo apice, il suo capolavoro riconosciuto, "Autour d’une cabine" (1894), la summa delle più avveniristiche tecniche fin lì conosciute, dalle lanterne magiche alla cronofotografia di Marey, utilizzata per il volo dei gabbiani e la voga dei rematori, due riprese di così perfetta profondità che ancora oggi meravigliano.

Emile Courtet, detto Cohl
Il ricordo di Reynaud è il più legittimo viatico per l’ispezione dell’omonimo Emile, questa volta Cohl. Entrambi di multiforme ingegno, il primo fu meccanico, ottico, inventore, intercalatore, scenografo, ma non gli fu da meno il Nostro, suo più degno erede, "L’inventeur du dessin animé".
Siamo nel 1907. È già nato il cinematografo, si è imposto lo standard dei fratelli Lumière. Georges Meliès è all’apice del suo successo e siamo alla vigilia del Viaggio sulla Luna, il suo capolavoro riconosciuto ma anche il trampolino di una caduta inesorabile e rovinosa. L’animazione è stata ridimensionata: le riprese dal vivo e impresse su pellicola solleticano il piacere del pubblico in misura decisamente maggiore. E proprio davanti a un live-action, "The Haunted House" (Stuart Blackton, 1907), gli alti papaveri della Pathè e della Gaumont si stropicciano gli occhi per Il film più meraviglioso che sia mai stato inventato.
Nel periodo dei trucages di Meliès, ci si trova adesso, in effetti, davanti a qualcosa di totalmente nuovo, sorprendente. Un coltello, tutto da solo, affetta pane e salame; un letto si muove e si capovolge; mobili si aprono, si spostano, volano a mezz’aria. È una spaventevole casa infestata, che costringe lo sfortunato inquilino a scapparvi via nel bel mezzo della notte. I movimenti sono precisi, naturali, ma nessuno tra registi, produttori, sceneggiatori, operatori e segretarie riesce a capire in che modo un letto possa volare, dando per scontato che non l’avrà fatto di volontà propria. Un giovanissimo Louis Feuillade uscì da una intera nottata di proiezioni no-stop mezzo cieco, alla ricerca di fili trasparenti che lo avessero mosso, inutilmente. Fu un già maturo Emile Cohl a dare la spiegazione, all’epoca tutt’altro che banale, del giro di manovella che corrispondeva esattamente alla ripresa di una sola immagine. Il procedimento prese il nome di "movimento americano" oppure, più precisamente, "One turn, one picture". Più semplicemente noi l’avremmo chiamato Stop Motion o Passo uno e finalmente, dopo essersi osservati in cagnesco per i primi quindici anni, per la prima volta la cinepresa si presta a una tecnica così cruciale per l’animazione. In effetti, appena un anno dopo, Emile Cohl si piazza dietro la cinepresa e gira il primo film animato della storia del cinema, "Fantasmagorie".
Stuart Blackton, a onor del vero, aveva già, nel 1907, realizzato un film in Stop Motion: "The Magic Fountain Pen" è un breve spettacolo nel quale una penna animata disegna e anima una serie di oggetti tra i più disparati e eterogeni. Per lui fu un divertissment, una riflessione metalinguistica fine a se stessa e che infatti non ebbe seguito. Cohl, al contrario in un altrettanto breve filmato cerca se non una linea narrativa almeno una coerenza formale che avrebbe stimolato l’intero genere.
Emile nel 1908 non è però un giovane di belle speranze. Ha già 51 anni. Nato a Parigi nel 1857, il suo cognome, Courtet, si accorcia in Cohl appena ventenne, quando il suo naturale talento lo avvia a firmare così le sue illustrazioni, un mestiere nuovo ma già molto apprezzato da un pubblico di medio-alta cultura, che divora i periodici di cronaca che fanno bella mostra di sé attraverso le caricature in copertina firmate da André Gill, che il giovane Emile considera quasi come un dio e che sarebbe stato il suo mentore. Cruciali per la sua formazione furono inoltre le amicizie con il celebre attore Frederic Lemaitre (interpretato nel 1946 da Pierre Brasseur nel film "Les Infants du Paradis" di Marcel Carné) e con il discusso romanziere Paul De Cock, di cui alla posterità non sono arrivate le sue opere ma i sarcastici giudizi di Dostojevskji e Joyce. Nonostante la pochezza letteraria, il vecchio Paul sarà comunque una amicizia decisiva, che sprona Emile a coltivare il suo talento. Le sue caricature, per "L’Hydrophate", "La nouvelle Lune" e "Les hommes d’ajourd’hui" lo rendono noto e amato presso la boheme delle irrequiete notti parigine, che lo rendono celebre per un duello all’arma bianca in cui lui e lo sfidante Jules Jouy si feriscono a vicenda, e l’incontro finisce in parità. A neanche trent’anni, Emile diventa fotografo. Quella che sembra una regressione si rivelerà al contrario una tappa fondamentale per la sua carriera, e dal suo studio nel boulevard Strasbourg svilupperà una lunga serie di scatti, il più celebre dei quali è quello a Paul Verlaine, che lo metteranno in confidenza con la pellicola e i suoi misteri impressivi.
In quegli anni Parigi, riemersa dalla sanguinosa esperienza della Comune, la repressione della quale costò circa trentamila funerali sommari, diventa sinonimo di joie de vivre e tirar tardi, si arrocca nella collinare Montmartre dove fraternizzano esemplari del consorzio umano tra i più improbabili, giovani artisti morti di fame, apache e pegre organizzata di magnaccia, prostitute, assassini, lavandaie e dame del bel mondo che mostrano il fondoschiena al mondo intero, nei locali più malfamati della Butte. In attesa del Moulin Rouge, inaugurato nel 1891, tiene banco il tuttora in vita Lapin Agile, esplicito omaggio a André Gill che vi aveva esposto il celebre quadro del coniglio in casseruola, e che offre un tavolo permanente a Cohl e ai suoi amici, redattori e disegnatori dell’altrettanta celebre rivista "Chat Noir". È da questa collaborazione che Emile Cohl sviluppa il suo interesse per le ombre cinesi, lo stimolo a una nuova impresa di un cinquantenne che ancora non ha combinato niente di rimarchevole, che ha diretto giornali chiusi per fallimento, e ugual sorte è riservata per il suo studio fotografico. Lo stile delle sue illustrazioni sembra tagliato apposta per il cinematografo: fulminanti, narrative, stilizzate, sono già delle sceneggiature pronte a essere impressionate. Cohl si presenta allora negli studi della Gaumont, non per pietire un impiego ma minacciandoli di denuncia per plagio.
Casualmente, aveva assistito alla proiezione di un film-comique, "Le plaford trop mince" (1907), e vi ha riconosciuto una delle sue strisce illustrate, pubblicata nel 1891. Il dirigente Gaumont non si scompone e, riconosciutogli un compenso, lo assume. Il già maturo stagista è assegnato al più talentuoso della scuderia, Louis Feuillade, che gli insegna i fondamentali del mestiere. Esordisce come sceneggiatore ma entro pochi mesi si appropria della cinepresa e firma le sue due prime opere, entrambe live-action ("Le mouton enragé" e "Le violiniste"); in effetti, Cohl non si risolse mai a decidere tra realtà e animazione, e la sua produzione basculò fino all’ultimo tra il live action e i disegni animati, come si chiamava l’animazione all’epoca; ama definirsi cinegrafista, una qualifica che meglio rappresenta il suo stile e la sua idea di cinema. Così, il cinema di animazione, concepito qualche millennio prima di quello reale, è pronto all’esordio, nel 1908.

FANTASMAGORIE: Sintesi Stilizzazione Sottrazione
Completato nel maggio, "Fantasmagorie" consta di 36 metri di pellicola in cui si affollano mille disegni per duemila inquadrature, quel minimo di intercalo necessario alla fissazione nella retina di un ancora alle prime armi cinespettatore. Cohl lavora contemporaneamente su tre progetti, e "Fantasmagorie" sembra essere l’anello debole della catena.
"Le cauchemar du fantoche" e "Un drame chez les fantoches" seguono un filo narrativo e focalizzano il fantaccio come un possibile eroe di tante possibili avventure; le fantasmagorie, al contrario, non raggiungono i due minuti di durata e, pur presente, il Clown, non emerge da protagonista. Girato con la tecnica del cartone animato, "Fantasmagorie" contiene un breve momento di "papier decoupé", quando le mani del regista irrompono nella storia e incollano in diretta il corpo strappato del Clown. Le dita operose sono inquadrate anche in un momento anteriore e cruciale: sulla prima inquadratura, una spessa linea orizzontale a mano libera, disegnano un cerchietto che sarà la faccia del Clown e darà il via all’avventura. La linea funge allora da traccia della composizione, allo stesso tempo argine all’accumulazione caotica e chiave di violino su cui stendere la partitura: spessa e incerta, pre-esistente alle matite laboriose, introduce un intero schermo bianco da assediare a piacimento, talché in presa diretta e a mano libera scendono due linee diagonali che costituiscono, nell’insieme, un personaggio stilizzato attaccato a un trampolino, la cui sospensione a mezz’aria è dinamizzata dalla opposizione dei due triangoli isoscele, quello più grande esplicitato dalle braccia tese e alle dieci e dieci che si tengono alla sbarra, e quello più piccolo che ne è sottoinsieme e fa da cappello à la Pinocchio del clown-acrobata. La faccia è inscritta anch’essa nel triangolo maggiore, che ne risulta, tutto sommato, una sorta di uomo vitruviano.
Linea e cerchio sono allora la grammatica generativa che si articola e si coniuga dando luogo a figure sempre più complesse di pochissime regole, sintassi illimitata e lessico pressoché infinito. L’animazione, infatti, proprio da questo primo test enuncia una legge non scritta ma che nondimeno nessuno avrebbe mai messo in discussione, la totale libertà creativa, impossibile nel live-action che è soggetto prima che alla fisica alla biologia, in cui una caduta è latrice di conseguenze quasi logiche che nell’animazione invece sono il pretesto a gag e inversioni imprevedibili alle quali lo spettatore si allinea. Se la linea è il punto fermo di una morfologia limitante, necessaria a tenere in piedi storie e personaggi, il cerchio è la lettera d’incarico che lo pone al di là della legge, in barba alla sincronia narrativa, ai rapporti causa-effetto, alla stessa struttura biologica dei personaggi. Nella intersezione dei due elementi base, infine, si sviluppano le libere associazioni attraverso le stilizzazioni, quali il cappello a cono, la proboscide dell’elefante, il cappello a piede d’insalata eccetera. L’unica disciplina cui Cohl si piega è il ritmo, che si sviluppa come una progressione geometrica di una decina di micro-sequenze, ognuna portata al suo apice e subito saldata con una medesima micro-sequenza. Per quanto aritmeticamente misurabile, però, il ritmo narrativo della fantasmagoria assomiglia a qualcosa non ancora codificato nel 1908: il flusso di coscienza, che la lungimirante libreria-casa editrice Shakespeare & Co, solo nel 1922, pubblicherà a titolo "Ulysses" e a nome Joyce.
Come un prestidigitatore, il clown elabora trucchi sempre più sofisticati che fanno fronte ad attacchi sempre più pericolosi, in una escalation che neanche la morte, per strappo, può fermare; una sorta di vendetta postuma alle fatiche di Reynaud, che a fine serata doveva ridisegnare i fotogrammi di cartone bruciacchiati o sgualciti. E il pubblico approva.
Nel biennio 1908-1910, Cohl gira settantasette film, dal vivo e animati, molti dei quali perduti; incontra il favore del pubblico che ha già assimilato i virtuosismi di Meliès ma che reclama dell’altro. Se il miliare Goerges giustifica le sue fantasmagorie con l’intervento diabolico, Cohl sposta l’asticella e non cerca più giustificazioni né intermediazioni, le mostra direttamente. Forte della sua formazione figurativa e della pratica con gli strumenti di ripresa, affina il talento naturale, semplificando le figure e stilizzandole. Il clown del nostro film ne è il miglior esempio. Né fedele al canone di realtà né eccessivamente caricaturizzato, esso è la sintesi della grammatica linea-cerchio; la sua fisionomia è essenziale: una botticella come tronco, i quattro arti bidimensionali, la testa tonda, il cappello conico. È una figura abbozzata, agile e testata per le sue mutazioni e acrobazie. La donna davanti allo schermo, al contrario, ha una fisionomia eccedente, una struttura a cipolla che viene spogliata delle sue linee orizzontali e verticali fino a rivelare l’elemento base, il cerchio della testa, pronto a trasformarsi in una mongolfiera. Il 1908, allora, si rivela un anno cruciale nella storia del cinema: il punto più alto delle diavolerie di Meliès trovano il loro erede naturale nelle fantasmagorie di un povero clown, una maschera, contro un mondo reificato, un teatro di marionette, comunque ostile. Con l’unico trucco che era sfuggito a Meliès, la Stop-Motion, Emile Cohl supera l’impasse entro cui era costretta l’animazione e chiude infine quella che lo storico Georges Sadoul aveva chiamato "L’era dei pionieri": i Lumière, Meliès, Porter-Edison e, appunto, Cohl, che chiude la sua carriera nel 1921 con l’ennesima disavventura del fantoche, "Fantoche cherche un logement", e che è stata catalogato sul suo quaderno di appunti con la numero 238.
In tredici anni di attività firma esattamente trecento opere, l’ultima delle quali è una publi-ciné intitolata "Les Dents"; per sbarcare un minimo di lunario, infatti, nel biennio 1921-1923 Emile gira 61 spot, biscotti, caffè, sigarette, fino al cioccolato Talmone. Il suo quadernino numera le righe fino al 306, ma le ultime sei posizioni rimarranno tristemente vuote. Nel complesso, le opere animate superano di gran lunga quelle live-action; le migliori in assoluto integrano le due tecniche, in una sinergia produttiva che ha dato alla luce dei gioiellini quali "Le joyeux mycrobe" (1909) e "Le ratapeur du cervelles" (1910). Artefice dei disegni che si fanno da soli, non ebbe discepoli fedeli, ma tutti fecero tesoro delle sue doti di sintesi, stilizzazione e sottrazione. Ci piace ricordare un genio dell’animazione italiana, oggi un po’ dimenticato ma conosciuto in tutto il mondo: Osvaldo Cavandoli e la celeberrima Linea.

E, anche questa volta, non finisce bene
Il biennio 1908-1910 fu il suo periodo glorioso, quello delle sue opere migliori, targate Gaumont. Il divorzio da questo colosso lo spinse nelle braccia del colosso antagonista, Pathè, finché, nel 1912, ebbe l’opportunità di lavorare a New York, in una terra in cui l’animazione poteva contare su investimenti importanti. Cohl approfittò del suo Erasmus per studiare le tecniche più avanguardistiche e la nuova sinergia dell’animazione con la sceneggiatura, condizione necessaria per un bacino d’utenza di massa. In quegli anni, il punto più alto dell’animazione narrativa era un film ancora molto primitivo, che faceva convivere realtà e animazione, "Gertie il dinosauro" (1914). L’uso del dispositivo narrativo in luogo delle trovate aveva, come primo effetto, portato la durata a ben dodici minuti; ancora più significativo, la fisionomia del personaggio mette da parte le tre S, Sintesi, Stilizzazione, Sottrazione per una fisionomia quanto più antropomorfa possibile, in grado di caricare psicologicamente un ottuso dinosauro cui viene anche dato un nomignolo (Gertie) e in grado insomma di creare l’immagine-affetto, quell’empatia col pubblico che farà la gloria definitiva di Walt Disney, una gloria tutta meritata, beninteso.
Lo scoppio della I Guerra Mondiale richiama Cohl patriotticamente a casa. Nonostante l’età, lavora energicamente su documentari e film di propaganda; nel 1918 si arruola come ufficiale di collegamento con le truppe americane. I venti anni che seguirono furono assai duri. Ridotto in miseria, non trovò sostegno alcuno nei suoi tentativi di tornare dietro la cinepresa; il suo stesso ruolo nella storia del cinema venne minimizzato.
Muore in una casa di riposo per anziani indigenti, il 20 gennaio 1938.
Il giorno dopo, se ne va un altro grande vecchio dimenticato: Georges Meliès.

 

 

Su Youtube è possibile accedere a una maratona aggiornata e restaurata delle opere di Cohl, dalla durata di più di tre ore. Si consiglia una visione a blocchi.


11/08/2019

Cast e credits

regia:
Émile Cohl


titolo originale:
Fantasmagorie


distribuzione:
Société des établissements Gaumont


durata:
2'


produzione:
Société des établissements Gaumont


sceneggiatura:
Émile Cohl


fotografia:
Émile Cohl


montaggio:
Émile Cohl


Trama
Il primo cartone animato della storia: la guerra della linea contro il cerchio, dell’ordine contro il caos, della geometria contro la creatività. Una guerra di soli vincitori.