Ondacinema

recensione di Alessandro Viale
7.5/10

Quando un film si propone come una riflessione sul senso del cinema stesso rischia la virata tautologica, se non pornografica. Qui il regista pare fino a pochi secondi dalla fine gestire invece con un fare autoriale tutto ciò che è rappresentabile. Lasciando però l'amaro in bocca per lo schiaffo finale.
Non stiamo ovviamente, in un periodo in cui lo spoiler sembra più pericoloso della difterite, a svelare la scena finale, ma certamente ne dobbiamo parlare per meglio argomentare queste poche righe.

La storia (vera) è nota, o quasi. Christine Chubbuck giovane giornalista depressa, con pochi amici e una vita piuttosto triste (così ci viene presentata, come bastasse a spiegarne il gesto), il 15 luglio del 1974 in diretta televisiva su Channel 40, emittente di Sarasota, legge la propria lettera di suicidio e poi si spara alla nuca con una 38 millimetri.

Nel documentario si filma la preparazione del film (fittizio e girato come una scarsa soap opera) che il regista Robert Green sta per girare concentrandosi sulla figura di Kate Lyn Sheil, l'attrice che deve interpretare la Chubbuck. Green segue da vicino tutto il lavoro di studio e analisi del personaggio da parte dell'attrice, le sue indagini per scoprire il più possibile della giornalista suicida. E nel farlo riesce a raccontare magnificamente più aspetti del lavoro attoriale.

Prima di tutto c'è un discorso profondo sul reale e il non reale. Ormai è la prassi di molto cinema mischiare i due piani, non tanto nel senso del docu-fiction che è un genere che non si sa nemmeno bene cosa contenga, ma nel fatto che già nel documentario di per sé è insito un processo di finzione. Non può essere altrimenti, anche nel suo filmarla con sguardo documentario la realtà la si manipola. Vuoi nel guidare i personaggi di fronte alla macchina da presa, vuoi le imbeccate dei dialoghi, vuoi per il tipo di ripresa, o il taglio dell'inquadratura (cosa riprendo della realtà? E quello che lascio fuori dal quadro non è più reale, se non filmato?). Ma qui si fa il giro concettuale, l'attrice che viene seguita in quanto tale può fingere nelle sue scene, può mostrarsi contrita perché così richiede il personaggio Kate e non perché la donna Kate lo è.
Un piccolo cortocircuito che appunto sfocia nel finale, dove l'attrice prende il posto del personaggio.

Robert Green fa delle scelte ben precise e di peso. Prima di tutto sceglie un tono straniante per il finto film sulla vita e la morte della Chubbuck: la soap opera. Nulla di più finto e di finzione. E qui in qualche modo si eleva la sua riflessione sull'attore, perché la recitazione (vedremo degli spezzoni del finto film all'interno del film) è affettata, finta, non riuscita. Tanto che Kate Lyn Sheil risulta poco credibile, anzi addirittura una pessima attrice. E va da sé che il contrappeso lo si ha invece seguendo le sue ricerche e indagini sulla povera giornalista. Insomma Kate è credibile solamente quando interpreta Kate, o quando è Kate.

Tutta la parte documentaria ha un impianto classico, con una camera a mano che segue fin negli spogliatoi l'attrice inframezzata a una camera fissa che va a riprendere alcune interviste fatte a Kate stessa, agli altri attori della soap opera e alle persone che conoscevano Christine. Tutto questo per descrivere quest'ultima, per cercare di spiegare, giustamente non riuscendoci, il senso di quel suo gesto estremo.

Un gesto estremo, che evidentemente si è perso nella memoria, perché nessuno sa più nulla della Chubbuck (si dice in un momento del film che si muore due volte, la prima quando il cuore smette di battere, la seconda quando si smette di parlare di te). Pochissimi colleghi la ricordano. Nessuno ne parla volentieri. Un gesto estremo studiato nei minimi particolari andato in onda in diretta ma anche registrato (non era abitudine registrare le puntate del notiziario, quella fu messa su nastro per specifica richiesta di Christine prima di andare in diretta). Ma l'unica copia esistente del suicidio non si sa se esiste ancora, e nemmeno il web ne conserva la memoria.

L'incipit del film è potente come raramente capita. Kate si prepara alla scena del suicidio. Si sa come andrà a finire eppure la tensione e l'attesa sono spasmodiche. Il finale riprende da lì, da quell'attesa, per diventare tristemente un j'accuse nei confronti dello spettatore. Green ci conduce fin lì, con fare capace, scegliendo delle immagini studiate, impiega un mestiere e delle capacità per raccontarci una storia disperata, e poi sembra tirarsi indietro dalle proprie responsabilità. Ogni storia raccontata le porta. Nel cinema documentario ancora di più.
E dunque l'autoassolversi di Green suona strano e storto, quasi in contraddizione con la passione vista nelle due ore precedenti.

Ma sappiamo bene che questo cinema pone dei dilemmi di etica non indifferenti: per citare il caso più famoso e pure tra i più estremi, anche Wim Wenders quando decise di filmare gli ultimi giorni di vita e la morte del suo amico, e genio del cinema, Nicholas Ray dovette affrontare dilemmi morali non da poco. Dove si deve fermare l'occhio del regista? Quando spegnere la camera? Perché filmare invece?

Ecco, le risposte non sono univoche, non sono semplici. Ma presentano un livello di complessità nei quali è giusto perdersi e confrontarsi. E in questo "Kate plays Christine" è un grande film, che fa pensare e riflettere. Pone delle domande più che altro. E come diceva uno scrittore inglese del secolo scorso, le domande spesso sono più importi delle risposte.


24/11/2016

Cast e credits

cast:
Kate Lyn Sheil


regia:
Robert Green


titolo originale:
Kate Plays Christine


durata:
112'


fotografia:
Sean Price Williams


montaggio:
Robert Greene


costumi:
Hannah Kittell


musiche:
Keegan DeWitt


Trama
Il regista Robert Green documenta la preparazione dell'attrice Kate Lyn Shell per il film (finto) su Christine Chubbuck.