azione, thriller, drammatico, sentimentale | Italia (2025)
C'è una scena in "La città proibita" (2025), il nuovo film di Gabriele Mainetti, in cui i due protagonisti Marcello (Enrico Borello) e Mei (Yaxi Liu) passano dallo scorrazzare tra i fori imperiali per poi picchiarsi, litigare in modo acceso sul significato della vendetta e sul senso della vita in seguito a una grave perdita, sino a innamorarsi e baciarsi focosamente nell'erba. È una scena emblematica, che in pochi minuti trasforma la commedia in tragedia e la tragedia in romance, il tutto sullo sfondo di una sequenza che presenta una Roma da cartolina, attraversata in molte delle sue parti storiche (il Colosseo, la Bocca della Verità, le terme di Caracalla, il Circo Massimo) a bordo di un motorino, quasi fossimo in "Vacanze romane" (William Wyler, 1953). È in scene come queste che sta tutto il cuore del cinema di Mainetti.
"La città proibita" è un wuxia, termine cinese con cui si indicano le produzioni legate al genere delle arti marziali. È un filone molto ampio, che nasce in ambito letterario per poi penetrare anche nel cinema, il mezzo con cui si è reso noto in occidente. L'opera più famosa di questo genere in ambito cinematografico è "L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente" (1972), il film che ha consacrato la leggenda di Bruce Lee, anche regista oltre che attore, in questa parte di mondo. Non è un caso dunque che Mainetti citi la pellicola come un punto di riferimento fondamentale nella realizzazione del suo wuxia, a partire dal fatto che "L'urlo di Chen terrorizza anche l'occidente" è in buona parte ambientato a Roma, come "La città proibita", e che vede un epico scontro finale all'interno del Colosseo tra Bruce Lee e Chuck Norris. Ma non solo: il wuxia è un genere che mette al centro gli scontri fisici e i combattimenti, spesso strutturati in articolate coreografie marziali di grande impatto scenico, ma accanto ad essi si lascia filtrare un tono più leggero, quasi da commedia. In molti hanno affermato che il film di Mainetti si potrebbe allora definire una sorta di spaghetti wuxia, sul modello di ciò che fece Sergio Leone con il western; ma a ben vedere il cinema di Mainetti riabita i generi, certo adattandoli al sistema produttivo e al contesto italiano, pur mantenendoli intatti nella loro struttura archetipica, al contrario di Leone, che il genere lo ha totalmente reinventato, svuotandolo dell'epica e demitizzandolo.
L'esordio nel lungo di Mainetti, "Lo chiamavano Jeeg Robot" (2015), fu sbalorditivo per il panorama produttivo italiano. Con un budget relativamente contenuto (circa 1,5 milioni di euro) e un incasso importante (più di 5 milioni), il regista era riuscito a realizzare un film di supereroi ambientato in una Roma malavitosa e sporca e in cui il novello supereroe protagonista acquisiva i propri poteri grazie all'esposizione a quella sporcizia, il tutto narrato attraverso un tono fumettistico cui il regista aveva già fatto ricorso nei suoi precedenti cortometraggi. Un'idea di per sé geniale, che creava il territorio ideale per ambientare quella che era in tutto e per tutto un'origin story: una dimostrazione del fatto che quel tipo di cinema poteva avere una patria anche in Italia. Andando a ritroso, nel 2008 Mainetti realizzava "Basette", cortometraggio in cui un ladro morente (Valerio Mastandrea) fantastica su un ultimo colpo realizzato vestendo i panni di Lupin III, in un cortocircuito tra realtà e finzione fumettistica che è il presupposto per dar corpo a un universo fantastico. La stessa cosa accadeva in "Tiger Boy" (2012), in cui un bambino riusciva ad affrontare l'incomprensione genitoriale, un aberrante sistema scolastico e il tormento dei bulli indossando la maschera del wrestler Il Tigre. Ancora una volta è la realtà che prende la forma della fantasia. Come in "Freaks Out" (2021), che è la via che Mainetti ha trovato per raccontare la Seconda guerra mondiale, in cui il "difetto", la "diversità", "l'anomalia" diventavano superpoteri con cui affrontare il male della Storia.
Per Mainetti la realtà è solo un modo di vedere le cose, il più disilluso e bieco; sembra che i reietti e gli emarginati siano gli unici a cui si dischiude la possibilità della meraviglia: una visione convintamente umanista del mezzo cinematografico che Mainetti eredita indirettamente dal suo amore per Spielberg e per i suoi personaggi capaci di guadagnarsi l'accesso all'impossibile grazie a doti umane che ne causano l'allontanamento dal consesso sociale, pensieri laterali che alimentano un idealismo mai fine a sé stesso. È il caso del protagonista di "Incontri ravvicinati del terzo tipo" (Steven Spielberg, 1977), che rinuncia alla famiglia pur di scoprire cosa si cela dietro quei bagliori luminosi e cosa vogliono dire quelle cinque note che hanno ammaliato la sua fantasia. Non dissimile da lui Sammy Fabelman (alter ego dello stesso Spielberg) in "The Fabelmans" (2022), vero scopritore della luce, per mezzo della quale scuote il velo di ipocrisia borghese che avvolge la sua famiglia fino a ribaltare l'immagine dei suoi genitori. Anche quelle di Mainetti sono storie di famiglie sgangherate o ipotetiche ("Lo chiamavano Jeeg Robot"), acquisite ("Freaks Out") o ancora disgregate e poi ricomposte ("La città proibita"). Il filo che tiene insieme l'ultima opera del regista – e il suo cinema tutto – è proprio la ricerca di una famiglia perduta, da ritrovarsi nell'inaspettato.
La trama ruota attorno alla ricerca da parte di Mei della sorella maggiore, quest'ultima scappata in Italia per permettere alla prima di avere una vita nella Cina in cui vigeva la politica del figlio unico; parallelamente facciamo conoscenza della famiglia di Marcello, che scopriremo orfano di padre (Luca Zingaretti) e con una madre (Sabrina Ferilli) che ha perso le speranze per il futuro, le quali si riaccendono quando lo pseudo-padre adottivo Annibale (Marco Giallini), malavitoso di quartiere, le si dichiara; infine, sullo sfondo si svolge anche il rapporto tra il villain del film, Wang, e suo figlio, che lo ha rinnegato una volta scoperti i suoi affari loschi. Il contesto da film di kung fu, perciò, funge da cornice entro cui ambientare una storia di amore e vendetta che tende i rapporti familiari sino alla scomposizione, la quale viene poi risolta nella formazione di un nuovo nucleo familiare, quello tra Marcello e Mei. Gli sviluppi di sceneggiatura – scritta da Mainetti assieme a Stefano Bises e Davide Serino, già sceneggiatori di "M – Il figlio del secolo" (Joe Wright, 2025) – sono il punto debole del progetto, soprattutto per quanto riguarda le scelte dei personaggi, che prendono direzioni improvvise con inversioni narrative talvolta ingiustificate (l'innamoramento dei due protagonisti, risolto in una scena), così come certi percorsi narrativi, che vengono aperti e lasciati in sospeso senza essere più riaffrontati. Ma l'intento di Mainetti è chiaro, come sottolinea anche la didascalia iniziale: l'amore è più forte.
Già "Freaks Out" era stato un caso cinematografico in virtù dell'investimento produttivo di cui era riuscito a beneficiare (tra i 12 e i 13 milioni di euro, cosa rarissima in Italia) e, in maniera ancor più preponderante, delle ambizioni realizzative da blockbuster nostrano. Con "La città proibita" Mainetti conferma la sua vocazione, anche in questo caso spielberghiana, nel costruire un cinema di intrattenimento per le masse dotato di una sofisticazione scenica e di aspirazioni autoriali decise e determinanti. Ciò è evidente nelle scene d'azione, coreografate e girate con grande realismo e trovate scenografiche (lo scontro in mezzo al vapore, che dà luogo a un cinema di ombre) che ricordano proprio la maniera di realizzare i wuxia e i gongfupian a Hong Kong. Ciò è stato possibile grazie al coinvolgimento di una troupe internazionale, sui cui spiccano i nomi di Liang Yang, coreografo tra gli altri di "Edge of Tomorrow" (2014) di Doug Liman e di "Mission: Impossible – Fallout" (2018) di Christopher McQuarrie e che qui crea scene di combattimento che hanno uno svolgimento narrativo interno, e Matteo Carlesimo, operatore che ha lavorato in alcune produzioni americane e con cui Mainetti collabora sin dal suo esordio nel lungometraggio, che ha realizzato riprese lunghe e in cui la macchina da presa diventa soggetto partecipe all'azione. A cui si aggiunge la scelta fondamentale di Yaxi Liu nel ruolo della protagonista, selezionata non per le sue capacità attoriali ma per la sua esperienza come artista marziale (è stata la controfigura di Mulan nell'omonimo live action Disney del 2020).
Un cinema che pensa in grande. Le abilità di Mainetti come narratore saranno ancora un po' acerbe, ma credo che dovremmo voler bene a un regista unico – almeno in Italia – per coraggio. Un cinema che fa ben sperare e che può ambire a diventare un modello d'esportazione. Un cinema che ama il cinema e che perciò si fa amare.
cast:
Enrico Borello, Yaxi Liu, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Luca Zingaretti
regia:
Gabriele Mainetti
distribuzione:
PiperFilm
durata:
138'
produzione:
Wildside, PiperFilm, Goon Films
sceneggiatura:
Stefano Bises, Gabriele Mainetti, Davide Serino
fotografia:
Paolo Carnera
scenografie:
Andrea Castorina
montaggio:
Francesco Di Stefano
costumi:
Susanna Mastroianni
musiche:
Fabio Amurri