Ondacinema

È una rievocazione di bugie. Non è realtà. È irrealtà, falsità.[1]
Errol Morris


Introduzione

Nel 1988 esce nelle sale "La sottile linea blu" ("The Thin Blue Line"): è il terzo documentario di Errol Morris, preceduto da "Gates of Heaven" (Id., 1978) e "Vernon, Florida" (Id., 1981). I primi due film non avevano conseguito il successo sperato e il regista faticava sempre più ad ottenere i finanziamenti per i suoi progetti, motivi per i quali decise di abbandonare momentaneamente il mondo del cinema per lavorare come investigatore privato. Durante questo periodo perfezionò la tecnica dell'intervista, già centrale nei due documentari precedenti, scoprendo che meno parlava, più le persone divenivano inclini a esprimersi. Ne "La sottile linea blu" l'esperienza da detective assume un ruolo centrale, modificando il modo di concepire il documentario: il regista agisce come un investigatore, intervistando varie persone e raccogliendo testimonianze al fine di, tramite queste, determinare la verità della questione trattata. Tale struttura rimarrà alla base anche dei documentari successivi: la verità sull'assassino di Robert W. Wood viene trattata allo stesso modo di quella riguardante gli abusi sui prigionieri di Abu Ghraib in "Standard Operating Procedure – La verità sull'orrore" ("Standard Operating Procedure", 2008), della vita e del lavoro di Stephen Hawking in "Dal Big Bang ai buchi neri" ("A Bief History of Time", 1991) o dello scetticismo sull'olocausto di "Mr. Death: The Rise and Fall of Fred A. Leuchter Jr." (Id., 1999).

Durante gli anni in cui svolse la professione di investigatore, Morris continuò a interessarsi di cinema e si imbatté per caso nella storia oggetto del film: nel 1985 stava intervistando i prigionieri in un penitenziario del Texas per un documentario sul Dott. James P. Grigson, uno psichiatra di Dallas noto come "Dottor Death", perché la sua testimonianza di esperto nei casi penali di pena capitale garantiva virtualmente che l'imputato venisse condannato a morte. Uno dei soggetti intervistati da Morris era Adams, il quale sosteneva di essere stato ingiustamente condannato per l'omicidio di un poliziotto. Il regista fece qualche ricerca nei verbali del caso e del processo, si convinse che era innocente e finì per accantonare il progetto che stava seguendo.

La carriera di Errol Morris subì un grande cambiamento dopo l'uscita del film del 1988: non solo gli permise di concepire una struttura ad indagine innovativa nel panorama documentaristico, ma il grande successo commerciale e critico che il film ottenne lo rese un regista molto conosciuto e gli permise di tornare a dedicarsi esclusivamente al cinema.


Struttura

L'intervista è lo strumento grazie al quale Morris ricerca la verità, ma è anche il principio strutturante del film: le testimonianze sono continuamente intervallate da vari materiali visivi (soprattutto fotografie, disegni e spezzoni di filmati d'archivio) e da sequenze docudrama che mostrano il contenuto dei racconti degli intervistati. Elementi tradizionalmente propri del documentario, come le interviste, vengono quindi accostati a filmati finzionali che illustrano le testimonianze, creando un particolare ibrido fra fiction e realismo documentaristico e accostando il film al giornalismo investigativo e a generi come il poliziesco e il noir. Infatti, come questi ultimi nascondono eventi cruciali che vengono svelati nel corso della trama, come il movente o la pianificazione del crimine, anche "La sottile linea blu" occulta i fatti dell'omicidio, inclusa l'identità dell'assassino. Come il noir, inoltre, anche il film di Morris mira a generare determinate emozioni: «curiosità sugli eventi passati (ad esempio, chi ha ucciso chi), suspence relativa agli eventi imminenti e sorpresa rispetto alle rivelazioni inaspettate sulla storia»[2]. Ad esempio, siamo curiosi di sapere chi ha ucciso Wood e siamo scioccati quando l'accusa presenta tre testimoni a sorpresa.

Ciò che distingue "La sottile linea blu" da questi generi è la giustapposizione di interviste e ricostruzioni, insieme alla mancanza di una vera progressione narrativa: man mano che il film procede, l'omicidio del poliziotto e l'interrogatorio di Adams vengono mostrati più e più volte, ritornando continuamente su questi avvenimenti. Inoltre, mentre diversi testimoni discutono di ciò che affermano sia realmente accaduto, l'assassinio dell'agente Wood è filmato ogni volta secondo un punto di vista diverso e al pubblico vengono via via fornite informazioni nuove, solitamente contraddittorie.

In questo modo, il regista rifiuta dare luogo a un rigoroso resoconto cronologico degli eventi dell'omicidio: sceglie invece di creare una struttura circolare, a spirale, in cui la narrazione salta avanti e indietro nel tempo, finendo col ritornare ossessivamente allo stesso evento, la sparatoria in cui ha perso la vita l'agente, raccontata di volta in volta dai vari testimoni. La struttura del film coincide con l'indagine svolta da un detective, che, al contempo, spinge il pubblico a rivestire lo stesso ruolo: porre domande ai testimoni, interrogarsi sulla loro affidabilità e sulle ragioni dell'errata condanna di Adams. Morris affida allo spettatore un compito non facile: questi non viene guidato attraverso il film, ma deve invece ricomporre la cronologia degli eventi, riempire le lacune della storia, oltre a collegare le informazioni sul caso e stabilire quali sono più affidabili e quali meno.

Stile

Interviste

Elemento primo e fattore strutturante del lungometraggio, le interviste si caratterizzano per uno stile visuale facilmente riconoscibile: Morris evita le tecniche convenzionalmente usate nelle interviste, come i piccoli movimenti della macchina da presa o gli zoom sui volti dei testimoni, effettuati per evidenziare i momenti maggiormente carichi di emotività e per realizzare un montaggio caratterizzato da inquadrature variegate. Al contrario, il regista realizza dei piani medi statici, in cui gli intervistati sono posti al centro dell'inquadratura, l'illuminazione è artificiale e gli sfondi che si stagliano dietro ai testimoni sono piatti e somigliano a immagini astratte perché prive di elementi realistici, in modo da non distogliere l'attenzione dai parlanti (immagine 1).

La messa in scena delle interviste (immagine 1)

La centralità dell'intervistato è ottenuta grazie all'impiego di un dispositivo inventato da Morris e chiamato "interrotron" (immagine 2): si tratta di un teleprompter, su cui è stata collocata l'immagine video del regista, a cui è collegata una telecamera che registra la dichiarazione dell'intervistato. Questi, rispondendo alle domande di Morris, si rivolge quindi direttamente alla telecamera e quindi allo spettatore piuttosto che a un intervistatore, come accadrebbe in un'intervista più convenzionale. Il risultato è la creazione di una maggiore intimità fra lo spettatore e il testimone: la macchina da presa cattura lo sguardo che quest'ultimo indirizza al regista e lo riproduce a beneficio del pubblico.

Interrotron (immagine 2) 

L'interrotron permette una focalizzazione completa sul viso dell'intervistato, conferendo la massima rilevanza a due forme di linguaggio, le parole e le espressioni facciali, entrambe oggetto della ricerca della verità operata dal regista. In questo modo, Morris ottiene un resoconto non solo di ciò che viene detto ma anche del modo in cui viene comunicato: il regista è quindi interessato all'interiorità e al paesaggio mentale dei testimoni, nella ricerca impossibile della visualizzazione del loro pensiero. Dunque, l'interesse del regista è rivolto non solo alla verità dell'indagine processuale, ma anche a qualcosa di molto più profondo e astratto: il funzionamento della conoscenza umana e i suoi limiti. Le interviste, incentrate sulla fisionomia facciale e sulle parole dei testimoni, esaminano il modo in cui i soggetti realizzano delle narrazioni finalizzate alla comprensione e alla rappresentazione del mondo e di se stessi. Oltre ad ascoltare il resoconto di ciò che accadde la notte della sparatoria, Morris studia gli immaginari delle persone che intervista, cioè le credenze, i racconti, le motivazioni profonde con cui danno un senso al mondo e alle loro vite. 

Sequenze finzionali e filmati d'archivio

Le interviste sono seguite da rievocazioni docudrama che illustrano ciò che i vari testimoni affermano sia accaduto. Queste sequenze finzionali svolgono vari ruoli di fondamentale importanza: strutturano l'indagine del regista, indirizzano l'attenzione del pubblico verso i problemi relativi alla veridicità delle testimonianze e, infine, rivestono una funzione drammatica, dato che alcune sono più attendibili dei racconti dei testimoni. Ad esempio, Teresa Turko, la poliziotta partner di Wood, disse che nella notte dell'omicidio si erano fermati al fast-food, senza ricordare a quale catena appartenesse. Nella rievocazione vediamo invece il marchio del Burger King: dunque, la sequenza docudrama corregge quello che è un errore della testimonianza. Queste rievocazioni sono interpretate da veri attori e sono filmate con uno stile patinato: gli eventi si stagliano su un fondale nero che risalta l'importanza delle azioni (immagine 3) e la regia mostra una preferenza per la profondità del campo ridotta, il ralenti e le inquadrature frammentate. Inoltre, l'uso di chiaroscuri marcati e determinati da fonti luminose che generano penombre insieme a contrapposizioni nette di luci o di oscurità (immagine 4) ricorda l'estetica dei film noir. Questa stilizzazione si accompagna al rifiuto di adottare elementi formali (come zoom repentini o movimenti veloci che simulino l'uso di una macchina a mano) che avrebbero avvicinato le sequenze docudrama al documentario osservativo, in modo da determinare una frattura netta fra la parte finzionale e quella propriamente documentaria.

Sequenze finzionali (immagine 3)

Luci e ombre (immagine 4)

Il film include anche una vasta gamma di materiali visivi, come titoli di giornale, mappe, disegni e filmati d'archivio derivati da vecchi film e programmi televisivi. Questi elementi svolgono molteplici scopi: hanno una funzione riempitiva, tanto da essere descritti come «cutaway images»[3], cioè immagini di transizione fra sequenze, illustrano il contenuto delle interviste e sottolineano in modo ironico la distanza critica da parte del regista. Ad esempio, durante l'intervista a Donald J. Metcalfe, il giudice del processo terminato con la condanna a morte di Adams, compare uno spezzone di film che mostra l'uccisione del gangster John Dillinger: il giudice racconta che suo padre era presente e che le persone intingevano i fazzoletti nel sangue del criminale per avere dei souvenir. In tal modo, Morris sottolinea l'atteggiamento disinvolto nei confronti della pena di morte che prevale nello stato del Texas. Infine, un'ulteriore funzionalità di questi materiali visivi si collega all'interesse del regista relativo all'interiorità e al paesaggio mentale degli intervistati: Morris punteggia le interviste con inquadrature che illustrano i processi mnemonici dei testimoni tramite elementi visuali: titoli e storie di giornali, targhe, diagrammi del luogo dell'omicidio, mappe di Dallas, rapporti della polizia, insegne di motel, il test della personalità di uno psicologo (il "Mr. Death" da cui ha origine il film), i segnali stradali e una macchina da scrivere. In questo modo, viene raffigurata la natura della memoria: composta da detriti visivi e costruita su frammenti isolati di immagini, parole e simboli.

Suono e musica

Il materiale uditivo viene utilizzato dal regista per sottolineare alcuni passaggi: ciò accade sia con la musica che con i suoni ambientali. Per quanto riguarda questi ultimi, in alcune scene di rievocazione vengono amplificati dei rumori, come quello delle scarpe del detective mentre cammina nella stanza durante la sequenza dell'interrogatorio di Adams.

La colonna sonora, invece, è composta da Philip Glass: si tratta di musica minimalista che consiste in frasi musicali che si reiterano per tutto il film e la cui natura ripetitiva stabilisce determinate relazioni narrative e tematiche. Ne sono esempi le sequenze che mostrano un milkshake: lo vediamo per la prima volta quando Teresa Turko, l'agente partner di Wood, dichiara di essersi trovata all'esterno dell'auto di pattuglia nel momento in cui il suo collega fu assassinato. La seconda volta in cui compare la bevanda è dopo che Adams identifica gli errori e le incongruenze della testimonianza di Turko a cui segue un'intera rievocazione della scena del delitto, dove Morris filma in ralenti il lancio del milkshake dall'auto di pattuglia (immagine 5). La ripetizione dello stesso motivo musicale aiuta lo spettatore a identificare le due sequenze come appartenenti allo stesso evento, oltre a sottolinearne l'importanza processuale: se Turko era nell'auto di pattuglia al momento dell'omicidio, cosa che viene suggerita dalla presenza della bevanda, la sua testimonianza, indicante Adams sulla scena dell'omicidio, non è affidabile.

Il milkshake (immagine 5) 


Dalla voce dell'autore al ruolo dello spettatore

In "La sottile linea blu" è estremamente raro ascoltare la voce di Morris: accade solo brevemente, quasi per caso, alla fine di alcune interviste. Il film non manifesta esplicitamente la presenza dell'autore, che deve quindi essere rintracciata in altri aspetti meno appariscenti. In particolare, ciò avviene tramite il montaggio: questo strumento permette al regista di disporre le informazioni secondo una temporalità non lineare e di accostare le interviste a materiali visivi che svolgono la funzione di commento ironico alle prime. Per quanto riguarda il primo aspetto, si è discusso precedentemente come il film non presenti una struttura cronologica e distribuisca le informazioni relative al caso in modo da solleticare la curiosità spettatoriale avvicinandosi al genere poliziesco e noir. Questa caratteristica si acuisce nel finale, quando il film ha accumulato una grande quantità di prove che sostengono la falsità delle testimonianze rese da tre persone a sfavore di Adams: prima di riprodurre la registrazione audio in cui Harris confessa praticamente il crimine, il film prende una piega diversa, allontanandosi dagli eventi della notte dell'omicidio e addentrandosi nell'infanzia del vero assassino. Anche il secondo aspetto mediante il quale emerge la voce autoriale, cioè l'effetto ironico ottenuto montando in modo contrappuntistico le interviste ad altre immagini, è stato brevemente affrontato poco sopra, tramite l'esempio dei filmati relativi all'assassinio di Dillinger seguiti alle affermazioni del giudice Metcalfe. Il regista usa quindi i materiali visivi per commentare le opinioni degli intervistati e per mostrare dove risiedano le sue simpatie. Nel caso della testimone Emily Miller (immagine 6), le cui dichiarazioni ebbero una grande importanza nella condanna di Adams, si percepisce l'astio che il regista nutre verso di lei: vediamo questa testimone per la prima volta mentre racconta che, quando era una ragazzina, voleva sempre fare il detective perché guardava tanti i programmi polizieschi in TV. Il regista inframmezza queste dichiarazioni a spezzoni della serie televisiva del 1952 "Boston Blackie", il cui protagonista è un ex criminale divenuto investigatore. In questo modo, Morris ci suggerisce che Miller è talmente affascinata dall'idea di risolvere crimini da scambiare le sue fantasie per la realtà, al punto da contribuire a condannare un innocente alla pena capitale.

Emily Miller (immagine 6)

Carl Plantinga[4] distingue due tipologie di voci nel cinema documentario: quella formale, capace di fare affermazioni chiare e affidabili sul mondo grazie alla spiegazione di eventi storici e concetti teorici, e quella aperta, capace di osservare ed esplorare piuttosto che di spiegare. È inoltre «epistemicamente esitante»[5] perché i documentari caratterizzati da quest'ultima tipologia di voce non si caratterizzano per la presenza di una domanda chiara che li strutturi e, se ne contengono una, non ne forniscono una soluzione puntuale. "La sottile linea blu" presenta apparentemente una voce formale perché produce una risposta chiara e precisa alla questione centrale sollevata dal film: quella relativa alla colpevolezza di Adams e all'identità dell'assassino. Tuttavia, accanto a tale tematica emergono una molteplicità di domande a cui non vengono fornite soluzioni affidabili e definitive. Il film, infatti, è interessato a non solo a quello che è successo la notte dell'omicidio, ma anche al perché è accaduto. Ad esempio: qual è il motivo per cui la polizia ha scelto di arrestare Adams e non Harris? Perché quest'ultimo ha accusato il primo di omicidio? Perché la signora Miller ha testimoniato contro Adams? L'assenza di una voce formale capace di guidare lo spettatore e di portarlo a distinguere chiaramente gli elementi veridici delle varie interviste comporta il fatto che quest'ultimo è costretto a sviluppare autonomamente le proprie considerazioni lungo il film, ponendosi le domande sopradette e trovando una risposta ad ognuna di loro, tramite l'analisi delle testimonianze, il giudizio sulla loro affidabilità e la creazione di associazioni fra le diverse informazioni presentate dal lungometraggio. Dunque, come è stato detto poco sopra, il pubblico si trasforma in detective.


Realtà

Plantinga[6] sostiene che Morris opera una distinzione fra «ontologia (lo studio dell'essere, o ciò che esiste) ed epistemologia (lo studio della natura e dell'origine della conoscenza umana)»[7]. Ciò è evidente se si prendono in considerazione i contenuti trattati nel film: da una parte, il regista individua il vero assassino e permette la scarcerazione di Adams, dimostrando di credere in una realtà oggettiva (l'ontologia); dall'altra parte, si chiede se gli esseri umani vi abbiano un accesso completo, parziale o inesistente (l'epistemologia). Questo è il motivo del grande interesse che il regista nutre nei confronti dell'interiorità e del paesaggio mentale degli intervistati: nella ricerca impossibile della visualizzazione del loro pensiero, nella disamina delle storie che i testimoni si raccontano e della rete di credenze che sviluppano, Morris studia le dinamiche attraverso le quali gli esseri umani si relazionano con la realtà circostante. La presenza centrale e strutturante delle interviste, l'uso di tecnologie innovative come l'interrotron, la rappresentazione dei vari racconti tramite filmati finzionali sono tutti elementi di questa ricerca, finalizzata non solo alla disamina della loro veridicità o falsità, ma anche alla comprensione dei paesaggi mentali di cui sono espressione. "La sottilea linea blu" è dunque un «thriller epistemologico»[8], una sorta di "Rashomon" che mostra sia la rielaborazione personale del singolo avvenimento da parte dei vari testimoni (la realtà soggettiva), sia ciò che è effettivamente accaduto (la realtà oggettiva), finendo col dimostrare che il reale è dato dalla compresenza di queste due componenti.

L'esplorazione della soggettività che il film mette in atto non riguarda solo quella dei testimoni, effettuata tramite le interviste in cui questi espongono la propria versione dei fatti, ma anche quella del regista, concretizzata nell'indagine realizzata lungo il lungometraggio, oltre che, infine, quella degli spettatori, costretti a setacciare le informazioni durante la visione. Il documentario adopera diverse strategie grazie alle quali analizza la realtà soggettiva: tramite la correzione (e quindi l'esposizione) degli errori e delle lacune presenti nei racconti dei testimoni, ad esempio la già analizzata presenza del marchio "Burger King" durante il filmato che illustra il resoconto di Teresa Turko; oppure, attraverso la creazione di digressioni dall'indagine sul caso Adams, come accade, ad esempio, durante l'intervista al giudice Metcalfe. Invece di parlare del caso, questi ripensa al rapporto tra le forze dell'ordine e la sua storia personale, raccontando di essere cresciuto in una famiglia in cui vigeva un grande rispetto per la polizia: così facendo, l'attenzione del film si focalizza sulla particolare visione del mondo del giudice. Lo stesso effetto di riflessione sull'immaginario privato dei singoli viene sollecitata anche dall'uso dei filmati d'archivio, ad esempio nell'episodio già citato di Emily Miller: dopo aver raccontato alla telecamera che quando era una ragazzina voleva sempre fare il detective perché guardava tutti i programmi polizieschi in TV, Morris monta degli spezzoni della serie televisiva del 1952 "Boston Blackie". La testimone è così affascinata dall'idea di risolvere i crimini che scambia le sue fantasie per la realtà, e l'uso di filmati d'archivio ci aiuta a visualizzare la sua confusione.


"La sottile linea blu" nella storia del documentario

Nel finale del film lo spettatore ascolta la confessione di Harris: si tratta di un'intervista audio in cui il testimone si attribuisce la responsabilità dell'omicidio per cui Adams è stato condannato. Morris riesce quindi a catturare una verità suscitando una sorta di dichiarazione: si tratta di un procedimento che rientra nella più classica delle tradizioni del cinema diretto, che il regista sceglie al posto di montare un filmato finzionale contenente ciò che era effettivamente accaduto la notte dell'assassinio. Con l'espressione "direct cinema" si intende un movimento interno al cinema documentario nato alla fine degli anni Cinquanta grazie alla diffusione di tecnologie di ripresa meno invasive delle precedenti: pellicole più sensibili permettono di fare a meno di ingombranti riflettori, «cineprese più piccole, leggere e maneggiabili»[9] consentono ai cineoperatori di muoversi con un'agilità finora sconosciuta, infine, la diffusione di registratori portatili permette di registrare in sincrono suoni e immagini senza che cinepresa e registratore debbano essere collegati con cavi ingombranti che finiscono col limitare i movimenti della troupe. Il risultato è che le riprese possono essere effettuate in modo poco intrusivo e il cineasta può aspirare a diventare invisibile, a divenire la proverbiale "mosca sul muro" capace di registrare ciò che accade indipendentemente dalla sua presenza. Morris inizia la propria carriera negli anni Settanta, dunque nel decennio successivo l'apice di questo movimento. Sin dai primi film, il regista ha sperimentato delle soluzioni completamente alternative al cinema diretto, opponendosi anche volutamente alle sue caratteristiche linguistiche, come emerge da questa sua dichiarazione: «Prendi uno qualsiasi dei principi del cinema veritè [il regista usa questa espressione impropriamente, dato che per lui è un sinonimo di "direct cinema"]: io ero interessato a fare esattamente l'opposto»[10]. Infatti, sia nei due lungometraggi precedenti che in "La sottile linea blu", Morris e la sua troupe mettono la telecamera su un treppiede, cercando inoltre di essere il più invadenti possibile, ad esempio portando le persone a guardare direttamente nella telecamera, cioè violando consapevolmente alcune delle regole stilistiche del cinema diretto. Dunque, Morris inizia la sua carriera con una volontà oppositiva a questo movimento, nella ricerca di un proprio linguaggio che passi anche attraverso la soppressione di ciò che lo aveva preceduto. Tuttavia, il film che lo ha resto famoso dà luogo ad un interessante commistione di questa volontà parricida verso la tradizione precedente con il parallelo accoglimento di alcuni dei suoi capisaldi (la confessione di Harris).

"La sottile linea blu" è stata accostata non solo al cinema diretto ma anche al documentario postmoderno: il film, infatti, mette in discussione sia la distinzione tra realismo e fiction, dato che sono presenti sequenze finzionali in un ambito documentario, sia la fiducia in una realtà oggettiva, in particolare tramite l'interesse che il regista nutre verso lo studio e l'esplorazione dei paesaggi mentali dei testimoni. "La sottile linea blu", infatti, tematizza la perdita di fiducia nella coerenza delle narrazioni, dato che il regista mette spesso in evidenza le informazioni contrastanti e contraddittorie date da coloro che sono coinvolti nel processo, finendo col minare irrevocabilmente la tradizionale fiducia propria della testimonianza. Con l'importanza data alle interviste, inoltre, Morris rigetta uno dei presupposti del cinema diretto, che voleva la maggiore discrezione possibile da parte del regista e della troupe, finalizzata alla loro trasformazione nella già citata "mosca sul muro", in grado di filmare gli avvenimenti nell'illusione che questi non vengano alterati dalla presenza della macchina da presa. Morris, invece, si rifà a un altro filone documentaristico nato negli anni Sessanta: il cinema veritè, caratterizzato dalla forte interazione con i soggetti che si vuole filmare, nella consapevolezza del potere della cinepresa di influenzare e quindi di cambiare la realtà, «di mettere in moto situazioni, riflessioni, azioni che senza il suo intervento non ci sarebbero prodotte»[11]. L'intervista è quindi un ottimo mezzo per portare gli individui a riflettere (e quindi a indagare) in merito ad aspetti di vita che altrimenti non sarebbero potuti emergere. La macchina da presa del cinema veritè (come quella di Errol Morris) si trasforma così in un catalizzatore finalizzato alla provocazione di reazioni inaspettate. È questa una delle caratteristiche che accomunano maggiormente "La sottile linea blu" al documentario postmoderno e contemporaneo: la consapevolezza che non è possibile filmare una realtà che non sia quella in cui avviene l'incontro fra chi filma e chi viene filmato. Secondo Stella Bruzzi, infatti, «i documentari sono atti performativi in cui la verità si manifesta solo nel momento delle riprese»[12], rendendo il cinema del reale un semplice strumento per cogliere la verità di una performance che si snoda davanti alla macchina da presa. Morris, infatti, realizza un atto performativo: l'indagine poliziesca che viene raccontata nel film, il rapporto fra il regista detective e una situazione di ingiustizia che viene risolta tramite la ricerca di indizi e una conclusione finale liberatoria.

Quella appena descritta non è l'unica caratteristica che vede "La sottile linea blu" anticipare contenuti ed elementi stilistici del cinema del reale odierno, dato che anche la commistione fra elementi finzionali e documentaristici è oggi ampiamente diffusa. Tuttavia, al momento della sua uscita, questa compresenza di ambiti diversi provocò grandi controversie e fu probabilmente la causa responsabile della mancata nomination del film per l'Oscar. Infine, un'altra caratteristica che ha lasciato il segno nella storia successiva del documentario è l'approccio unico di Morris alle immagini, in particolare l'alta stilizzazione che caratterizza le illustrazioni finzionali dei racconti degli intervistati. L'uso sistematico di dispositivi come la profondità del campo ridotta, il ralenti e le inquadrature frammentate ha contribuito a stabilire una sorta di marchio visivo tipico di Morris che altri registi hanno adottato. Ad esempio, è possibile ritrovare questi elementi stilistici nel documentario del 1999 di Kevin MacDonald in "Un giorno a settembre" ("One Day in September", 1999).

"La sottile linea blu" si pone dunque come punto di unione e di passaggio fra due epoche di grande importanza nella storia del documentario: il cinema diretto e quello postmoderno, con un'interessante ripresa e sviluppo dei presupposti caratteristici del cinema veritè insieme all'anticipazione di contenuti e caratteristiche formali propri del documentario contemporaneo. In tal modo, Errol Morris riesce sia a scoprire e rappresentare una verità oggettiva, tanto da riuscire a modificare radicalmente gli eventi processuali, sia a problematizzare il concetto di realtà oltre che della possibilità della sua comprensione e rappresentazione.

 

[1] Beker M., Documentary in the Digital Age, Focal Press, Oxford, Burlington MA, 2013, p. 5, traduzione mia.

[2] Bordwell D., Narration in the Fiction Film, University of Wisconsin Press, Madison, 1985, p. 65, traduzione mia.

[3] Resha D., The Cinema of Errol Morris, Wesleyan University Press, Middletwown CT, 2015, p. 20.

[4] Plantinga C., Rethoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge University Press, Cambridge, 1997, pp. 101-119.

[5] Ivi, p. 108, traduzione mia.

[6] Plantinga C., The Philosophy of Errol Morris. Ten Lessons, in Rothman W. (a cura di), Three Documentary Filmmakers. Errol Morris, Ross McElwee, Jean Rouch, Suny Press, State University of New York Press, Albany, 2009, pp. 43-59.

[7] Ivi, p. 47, traduzione mia.

[8] Rafferty T., The Thin Blue Line, in MacDonald K., Cousins M., Imagining Reality. The Faber Book of Reality, Faber & Faber, London, 2011, p. 415, traduzione mia.

[9] Lasagni M. C., Nanook cammina ancora. Il cinema documentario, storia e teoria, Mondadori, Milano, 2014, p. 108.

[10] Beker M., Documentary in the Digital Age, cit., p. 2, traduzione mia.

[11] Lasagni M. C., Nanook cammina ancora. Il cinema documentario, storia e teoria, cit., p. 111.

[12] Bruzzi S., New Documentary, Routledge, New York, 2006, p. 10, traduzione mia.


28/04/2025

Cast e credits

cast:
Randall Adams, David Harris, Teresa Turko, Emily Miller, Don Metcalfe


regia:
Errol Morris


titolo originale:
The Thin Blue Line


distribuzione:
Miramax Films


durata:
103'


produzione:
American Playhouse


sceneggiatura:
Errol Morris


fotografia:
Robert Chappell, Stefan Czapsky


montaggio:
Paul Barnes


costumi:
Elizabeth Hickox


musiche:
Philip Glass


Trama
Nel 1976 l’agente di polizia Robert W. Wood è ucciso nella periferia di Dallas in seguito a una sparatoria. Il responsabile viene identificato in Randall Adams, all’epoca sedicenne: il ragazzo è condannato alla pena di morte e trascorre tredici anni in carcere aspettando il momento fatale. Errol Morris svolge una vera e propria indagine su questo caso: intervista i testimoni, la polizia, gli avvocati, il presunto assassino e il giudice, ricostruisce le vicende testimoniate con filmati realizzati ad hoc, mostra le prove esibite durante il processo e registra la confessione di David Harris, vero responsabile dell’omicidio. La dichiarazione di colpevolezza permette, infine, la scarcerazione di Adams e l’incarceramento del vero assassino.