Ondacinema

recensione di Alessio Bottone
7.0/10

Il teatro di Ibsen ha già fatto capolino nelle sale cinematografiche in un paio di occasioni, ma sempre con risultati trascurabili. Jonathan Demme è l'ultimo dei coraggiosi e il suo "A Master Builder", finora tristemente inedito in Italia, è di sicuro il più alto momento vissuto dalla drammaturgia del genio norvegese in formato celluloide.

Nel 1973 erano uscite ben due versioni di "Casa di bambola", poi era stata la volta di "Hedda Gabler", mentre nel 1977 Arthur Miller aveva adattato per lo schermo il dramma "Un nemico del popolo". Il regista italo-americano vira, invece, sul "Costruttore Solness" per mettere a segno il suo diciottesimo lungometraggio di finzione, a cinque anni dall'ottimo "Rachel sta per sposarsi".

Si tratta di una delle ultime opere di Ibsen, quelle in cui più si allontana dall'ottica naturalista per affrontare tematiche esistenziali impregnate di simbolismo, che anticipano in pieno la cultura novecentesca: Solness è un architetto di successo che ha passato la vita a costruire chiese, torri e case, edificando la propria gloria sul dolore e l'infelicità che ha seminato intorno a sé. Un giorno, però, una giovane donna di nome Hilde irrompe bruscamente nella sua quotidianità e ne scalfisce la corazza di uomo egocentrico e annientante, costringendolo a fare i conti col passato e con la morte.

Demme, dopo essersi confrontato col giallo, la commedia, il thriller, il melodramma romantico e il documentario, si mette alla prova con il teatro. E la stessa spiccata autorialità con cui aveva risolto le sfide lanciate da quei generi si ritrova anche in questa esperienza trans-formale. Per quanto il progetto sia legato soprattutto a Wallace Shawn e Andre Gregory, autori dell'adattamento prima ancora che interpreti del film, sono proprio le solide scelte registiche a legittimare l'operazione "A Master Builder". Fissare su pellicola una pièce teatrale richiede doti artistico-intellettuali di spessore (le medesime necessarie a chi oggi riporta sul palco testi così capitali), altrimenti si rischia di precipitare nel dilettantismo, e fin dai titoli di testa si ha la netta impressione che quelle doti siano a nostra completa disposizione: una camera car scorre inquadrando diverse abitazioni e anticipa uno dei nuclei tematici principali del dramma, l'attraversamento della verticalità (non a caso la macchina da presa si sofferma su tetti e vertici).

Solness è, infatti, l'eroe titanico della vertigine: dieci anni prima era salito in cima a una chiesa da lui progettata per porvi la rituale ghirlanda inaugurale e in quell'istante aveva gridato la propria hybris contro Dio, giurando che non avrebbe più innalzato edifici per Lui, ma solo dimore per gli uomini. Ora è quasi anziano e, dopo averne costruite tante, si scontra con la sua infelicità, decidendo di realizzare una casa turrita. Hilde rappresenta, con la sua apparizione, l'anello di congiunzione con i fantasmi di quel passato lontano da cui Solness tenta di riscattarsi. Ma la sua malattia è inesorabile (in un letto di morte lo troviamo all'inizio e alla fine, per quanto la presenza della ragazza lo rimetta in piedi): gli psichiatri parlerebbero di «progetto schizofrenico fissato troppo in alto»[1].

Assumendo come termine di confronto l'altra impresa teatral-cinematografica della coppia Shawn-Gregory, quel "Vanya sulla 42a strada" che chiuse la carriera di Louis Malle, si può facilmente notare come la volontà del regista non sia affatto quella di sottolineare furbescamente il cortocircuito tra le due forme e, dunque, anche tra realtà e finzione. A differenza di Malle, Demme disegna un abito cinematografico su misura per il corpo teatrale che ha fra le mani, ricorrendo alle tecniche e agli stilismi della settima arte con la ferma intenzione di interpretare il testo di Ibsen, come appare chiaro quando all'ingresso in scena di Hilde corrisponde un mutamento del formato: il rapporto d'aspetto tornerà alla veste iniziale, meno cinematografica, solo nella sequenza conclusiva, a suggerire la dimensione onirica della visita della giovane donna.

"A Master Builder", in tal senso, è un atto d'amore nei confronti del cinema, cui Demme riconosce ancora funzioni e possibilità romantiche. Grazie a Hilde (il cinema), Solness può ripensare la sua esistenza, riconciliarsi con le nuove generazioni, avviarsi nuovamente verso l'altezza, ma il suo destino rimane comunque quello orizzontale del letto di morte. Ed ecco, a sancire questa sorte ineluttabile, la camera car dei titoli di coda che ancora oppone il moto orizzontale alla verticalità delle abitazioni, correlativi oggettivi del disagio esistenziale vissuto dall'architetto.

L'ottima direzione degli attori, tutti davvero bravi, impreziosisce a sua volta un esperimento che può dirsi ampiamente riuscito, proprio perché capace di guidare lo spettatore verso una ricezione-fruizione dell'opera originale rispettosa e, insieme, stimolante. Ci auguriamo che qualche distributore impavido consenta un passaggio italiano a questo film che ha il grande merito di non soccombere anonimamente al capolavoro letterario da cui nasce.



[1] U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 348.


14/11/2016

Cast e credits

cast:
Andre Gregory, Larry Pine, Lisa Joyce, Julie Hagerty, Wallace Shawn


regia:
Jonathan Demme


titolo originale:
A Master Builder


durata:
130'


produzione:
Rocco Caruso, Andre Gregory, Wallace Shawn


sceneggiatura:
Wallace Shawn


fotografia:
Declan Quinn


scenografie:
Eugene Lee


montaggio:
Tim Squyres


costumi:
Dona Granata


Trama
Tratto dal dramma "Il costruttore Solness" di Henrik Ibsen: un architetto di successo egocentrico e avvilito dalla propria esistenza incontra una giovane donna che lo costringerà a fare i conti col passato e con se stesso, prima di andare incontro alla morte.