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recensione di Claudio Fabretti
Per centrare un obiettivo, spesso, bisogna partire da lontano. Magari proprio dagli antipodi. E' un po' quello che è successo a Pedro Almodóvar, già enfant terrible della Movida spagnola più eversiva e dissacrante, a cavallo tra le decadi 70 e 80. Un modo di fare cinema del tutto "off", che ripudiava le strutture canoniche della commedia anche al prezzo di prodursi in pantomime sgangherate, benché esilaranti ("Pepi, Lucy, Bum e le altre ragazze del mucchio"). Eppure sarà proprio lui, sul finire di millennio, a fissare un nuovo modello di melodramma, per il quale in Spagna conieranno addirittura il termine "Almodrama" e che si guadagnerà precocemente lo status di classico del cinema contemporaneo. Un paradosso, insomma, per chi aveva fatto proprio dell'anti-classicità il suo marchio di fabbrica. Ma non un'abiura: tutti i tratti della prima produzione almodovariana resteranno in filigrana, miracolosamente stilizzati e armonizzati.

"Todo sobre mi madre" è il film che suggella il nuovo approdo. Ma non è un frutto casuale. Il cineasta di La Mancia vi perviene infatti attraverso uno zigzagare impenitente tra dramma e trash, sensibilità e sberleffo, che percorre pellicole bislacche ma già colme di pathos (da "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" a "Carne Tremula", passando per quel gioiello grezzo che è "Legami"). Un puzzle caotico e coloratissimo che, per incanto, si ricompone. Senza smarrire la sua frizzante levità, ma trovando nello scavo sentimentale il definitivo baricentro.

Per il suo tredicesimo lungometraggio, Almodóvar sublima la sua predilezione per l'universo femminile e per una cinefilia in rosa che qui trabocca di riferimenti (fin dal titolo, che riprende l'"All About Eve" di Joseph L. Mankiewicz) e omaggi più o meno espliciti: la Bette Davis a tutto schermo doppiata in spagnolo (che poi torna nelle parole di Huma Rojo - "Ho iniziato a fumare per colpa sua"), la Blanche di "Un tram che si chiama desiderio", le "tre ragazze sole in un appartamento vuoto" di "Come sposare un milionario", la Fedora dell'omonimo film di Billy Wilder (l'apparizione di Lola al cimitero).
Ma è soprattutto femminile la lezione morale del film, la linfa di un racconto dove le figure maschili sono fantasmi allo sbando, ombre avvizzite di una società in rovina. Spetta così a questa colorita "sorellanza" la titanica impresa di incarnare tutta la vitalità della razza umana, attraverso i sentimenti, l'allegria, il coraggio, le lacrime. E con una fisicità al solito prorompente, che può trovare anche nella transessualità al silicone una sintesi autentica.

Lo spunto narrativo del titolo è ingannevole: "Tutto su mia madre" è infatti il film che il giovane Esteban vorrebbe sceneggiare attorno alla figura materna (Manuela) e che non scriverà mai. La sera del suo compleanno, a Madrid, dopo aver assistito con la madre alla piece di "Un tram chiamato desiderio", Esteban viene falciato da un'auto, proprio mentre insegue l'attrice Huma Rojo a caccia di un autografo. Lacerata dal dolore, Manuela acconsente al trapianto del cuore del figlio e torna a Barcellona, la città da cui era fuggita 17 anni prima, in un doloroso percorso a ritroso alla ricerca del padre tenuto sempre nascosto al ragazzo: un personaggio egocentrico e distruttivo che ora ha assunto le sembianze androgine di "Lola".
Ma lo scopo principale del viaggio passerà decisamente in secondo piano, di fronte a una carrellata di personaggi e vicende di appassionata e straziante umanità. Suore e puttane, attrici e transessuali, infermiere e mogli tradite. Tutti coinvolti e partecipi di una messinscena collettiva, un girotondo di maschere quasi "felliniano", dove finzione letteraria (il dramma di Tennessee Williams) e finzione cinematografica (il film di Almodóvar) si mescolano a più livelli, per dar vita a un'efficace metafora dell'abbandono e del disperato anelito d'amore.

Se la protagonista (una magnifica Cecilia Roth) è il cuore pulsante della storia, la sua "voce narrante" non può non essere l'adorabile trans Agrado, l'ambiguità sessuale che, paradossalmente, si fa unica verità possibile in un mondo di maschere e infingimenti, perché "una è più autentica quanto più assomiglia all'idea che ha sognato di se stessa". Il suo monologo è il climax emotivo, il vertice commosso di questo gorgo di passioni dal quale non si può fuggire.
L'equilibrio magico di Almodóvar sta nel dominare questo tsunami sentimentale con mano leggera, scatenando la commozione proprio laddove rifugge il patetismo e gioca sul crinale dell'ambiguità e del grottesco. Un'arte per pochi, la stessa che - volendo azzardare un parallelo musicale - sgorga purissima dai recital di Marc Almond.

Ma dietro il sipario di questa moderna tragedia greca, si agitano vecchi e nuovi fantasmi del cinema di Almodóvar: l'egoismo maschile, i labili confini dell'identità sessuale, il rapporto eros/thanatos (che sarà portato alle estreme conseguenze in "Parla con lei"), il disfacimento fisico (l'Aids, il morbo d'Alzheimer), il trapianto d'organi (già affrontato ne "Il fiore del mio segreto"), il dramma della finzione (l'attrice Huma Royo, altra performance da brividi di Marisa Paredes dopo "Tacchi a spillo"), il mistero della maternità.
Un apologo sulla solitudine e sul lutto, sempre appeso però a un filo d'ottimismo: "Ho sempre confidato nella bontà degli sconosciuti", giura Agrado. E' proprio da una generosità autodistruttiva che si compie il miracolo della procreazione, altro tema-cardine del film: il bimbo sieropositivo di Rosa (la musa Penelope Cruz) che viene alla luce e guarisce al prezzo della morte della madre: un nuovo Esteban che rinasce dalle ceneri. Ed emblematica è la dedica con cui Almodóvar chiude il film: "A tutte le attrici che hanno fatto le attrici, a tutte le donne che recitano, agli uomini che recitano e si trasformano in donne, a tutte le persone che vogliono essere madri. A mia madre".
A suggellare il tutto, una regia virtuosistica, che gioca su soggettive originali e suggestivi cambi di scena, ora fluidi, ora più repentini, scenografie colorate, con fondali giganteschi dove i personaggi emergono quasi come miniature di un bassorilievo, e l'ottima colonna sonora di Alberto Iglesias, eseguita dalla Filarmonica di Praga, che mescola opera, jazz e struggente folk latino.

Opera più matura di un regista al culmine delle sue capacità espressive, "Tutto su mia madre" si aggiudicherà la Palma per la miglior regia a Cannes nel 1999 e l'Oscar un anno dopo come "miglior film straniero", conquistando riconoscimenti nei principali festival di cinema internazionali. Due anni dopo, toccherà a "Parla con lei" perpetuare l'incanto, quindi, nel 2006, arriverà "Volver", a chiudere il cerchio di un ideale trittico almodovariano alla ricerca dei sentimenti perduti.
03/12/2009

Cast e credits

cast:
Cecilia Roth, Marisa Paredes, Candela Peña, Antonia San Juan, Penélope Cruz


regia:
Pedro Almodóvar


titolo originale:
Todo sobre mi madre


distribuzione:
Cecchi Gori


durata:
101'


produzione:
El Deseo S.A., France 2 Cinéma, Via Digital, Renn Productions


sceneggiatura:
Pedro Almodóvar


fotografia:
Affonso Beato


scenografie:
Antxòn Gòmez


montaggio:
José Salcedo


costumi:
J. Maria De Cossio, Sabine Daigeler


musiche:
Alberto Iglesias


Trama
Il giovane Esteban vorrebbe scrivere un film sulla madre Manuela. La sera del suo compleanno, però, dopo aver assistito con la madre alla piece di "Un tram chiamato desiderio", Esteban viene falciato da un’auto, proprio mentre insegue l'attrice Huma Rojo a caccia di un autografo. Lacerata dal dolore, Manuela acconsente al trapianto del cuore del figlio e torna a Barcellona, la città da cui era fuggita 17 anni prima, in un doloroso percorso a ritroso alla ricerca del padre tenuto sempre nascosto al ragazzo
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