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Insuperabile nell'illustrare le parole con immagini e luci, critico ancor prima che regista, Jean-Luc Godard è uno dei grandi maestri del cinema francese. Storia della sua lunga carriera, dalla militanza nei "Cahiers du Cinema" ai suoi ultimi lungometraggi

E' sempre impresa ardua per chiunque scrivere quel che si dovrebbe vedere, figuriamoci quando il soggetto è così importante come uno di quelli che la storia del cinema l'ha fatta, l'ha interpretata e l'ha vissuta, un uomo che ha sognato di andare in paradiso e di cogliervi un fiore e si è risvegliato con quel fiore in mano. Questo scritto non indicherà nessuna data di nascita e nessun accadimento adolescenziale, la sua presunzione lo limiterà a parlare di Cinema, come piacerebbe anche a lui, Jean-Luc Godard.

I veri maestri di Jean-Luc Godard non furono quelli della scuola ma ben altri: Henri Langlois, fondatore e direttore della Cinémathèque Francaise che mostra lui i "film maledetti", quelli, cioè, bistrattati e censurati dalla legge; André Bazin, critico e teorico definito padre spirituale della "Nouvelle vague" francese; Alexandre Astruc, che affermava la possibilità di resurrezione del Cinema e la sua capacità di essere mezzo di espressione personale come una penna per scrivere e Isidore Isou, fondatore del movimento letterista.

Godard è prima di tutto un critico che un cineasta. Nel 1950 fonda con Rivette e Rohmer il mensile "La revue du cinéma", di cui però vedranno la luce solo 5 numeri, nei quali egli realizzerà una manciata di scritti con lo pseudonimo di Hans Lucas.
Frequenta costantemente i piccoli cineclub e la Cinémathèque, preferendo questi a un'istruzione specifica alla Sorbona, nell'istituto di filmologia.
E' in questo periodo che si avvia il suo vero e proprio processo cinematografico attivo, con la concezione di Cinema come continuazione della realtà e della vita, con la militanza nei Cahiers du Cinema e con i suoi primi cortometraggi quali "Une femme coquette", "Charlotte et Véronique", "Charlotte et son Jules" (con un già brillantissimo Jean-Paul Belmondo) e "Une histoire d'eau" dove la Lei dice "Di solito me ne frego dell'immagine, è il testo che conta. Ma questa volta ho torto perché qui tutto è bello". Il racconto si snoda sopra le inquadrature, non come commento o al loro servizio, ma come materia cinematografica autonoma, colonna sonora dichiaratamente sovrapposta. Il rapporto fra parole e immagini trascina con sé il problema del rapporto fra le parole e le cose, che per Godard è il problema stesso della regia.

Se André Bazin fu il padre spirituale della Nouvelle Vague, George de Beauregard ne fu quello economico. E' grazie ai fondi ed alla fiducia che costui riserbava per i giovani cineasti francesi di quel periodo che si è potuto cominciare a produrre film, uno dei quali, nel 1959, fu A bout de souffle.
La "sceneggiatura ufficiale" di questo capolavoro del cinema mondiale, girato in soli 23 giorni, è di Francois Truffaut e il "consigliere tecnico" Claude Chabrol, entrambi menzionati nei titoli di testa, ma più come amichevole sostegno che per il contributo effettivamente prestato. Per nessun film di Godard, infatti, si potrà propriamente parlare di sceneggiatura, la sua è piuttosto tendenza all'improvvisazione, a lasciarsi guidare dalle circostanze occasionali.
Da molti considerato il manifesto della Nouvelle Vague, A bout de souffle (nella versione italiana "Fino all'ultimo respiro") è girato interamente con mezzi di fortuna e pellicola fotografica, più sensibile di quella cinematografica, per compensare un'illuminazione essenziale e spesso inesistente, accentuando quel confronto peculiare dei film di quel periodo francese con la professionalità impeccabile del cinema americano.
Il lungometraggio è intriso di citazioni, allusioni, riferimenti cari al regista. "E' il mio gusto della citazione, che ho sempre conservato. Perché rimproverarcelo? Nella vita la gente cita ciò che le piace. Noi pure abbiamo il diritto di citare ciò che ci piace".
Non si tratta di autocompiacimenti culturali ma trattasi di mezzi specifici attraverso cui egli supera la narratività tradizionale in cui ogni elemento deve essere funzionale al racconto per proporre una forma ad accumulazione, un nuovo genere di film-saggio, nel quale tutto è permesso, qualsiasi cosa facessero i personaggi poteva essere integrata al film.
Dopo diversi anni ne Le Mépris egli farà dire ad alcuni personaggi: "Non puoi prendere le idee dalla tua testa invece che dagli altri? E' come rubare - No, perché? E' normale, perché il cinema copia la vita. Sai cosa diceva Jean Renoir? Bisognerebbe dare onorificenze alla gente che fa i plagi".
Non sono solo le citazioni a caratterizzare "Fino all'ultimo respiro", che comunque racchiude non piccole destrezze tecniche come un montaggio eclettico e la frammentazione cronologica dei fotogrammi, ma c'è anche la pittura, la letteratura, la musica e la politica.
I due protagonisti, Michel e Patricia sono interpretati rispettivamente da Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg. Michel, definito genericamente un "anarchico" rispecchia il linguaggio frammentario e discontinuo del film, il disprezzo delle regole registiche secondo il principio per il quale il contenuto suggerisce la forma.
Francois Truffaut: "A bout de souffle ha ottenuto il premio Jean Vigo. L'Atalante termina con una scena in cui Jean Dasté e Dita Parlo si abbracciano su un letto. Quella notte devono senz'altro aver fatto un bambino. Questo bambino è il Belmondo di A bout de souffle".

"La fotografia è la verità. E il cinema è la verità ventiquattro volte al secondo".
E' così che Bruno Forestier, fotografo e membro di un'organizzazione terrorista anti-algerina, dice a Veronica (Anna Karina) mentre le scatta delle fotografie nel suo appartamento. Sono appena passati pochi minuti dall'inizio di Le petit soldat, film politico ma che non prende posizione. E' con questo lungometraggio che inizia l'epoca "Karina", vero e proprio elogio all'attrice danese di cui Godard si innamorerà e sposerà, rendendola protagonista di tutti i suoi film nonché immagine stessa della sua idea di Cinema fino al 1966, anno della loro separazione.
A proposito delle scene di tortura presenti nel film, egli dice di aver semplicemente mostrato il minimo di immagini necessarie per esprimere il fatto che delle persone, volontariamente, fanno soffrire altre persone. Il suo punto di vista è obiettivo, mostra la politica non per presa di partito, ma per spiegare semplicemente i fatti, esprimendone una riflessione.
Durante un gioco con una penna e un block-notes, i due protagonisti Bruno e Veronica, fanno nascere uno degli stilemi più ricorrenti nel cinema di Godard, l'utilizzo della parola scritta e insieme del linguaggio delle cose.

L'opinione che Godard nutre verso il mestiere dell'attore non è delle più positive, infatti egli afferma: "Gli attori li trovo idioti, li disprezzo. Si, è così, gli dici di piangere e piangono, gli dici di camminare a quattro gambe e lo fanno. Lo trovo grottesco. Non so, non è gente libera...". E' proprio per questo che egli lavora sull'attore in modo da "liberarlo" dalla sua posizione di subordinazione e farlo intervenire di persona e responsabilmente nel film.
La filosofia e la letteratura, sempre presenti durante il corso della sua vita, si possono ricollegare ai suoi metodi di lavoro e di pensiero, come nel caso di Hegel: a proposito dell'ottenimento della sintesi attraverso l'accadimento di due fatti contrapposti, Godard è convinto che: "Ci possono essere due modi di usare un attore. Si può dargli una parte che è opposta a quelle che egli di solito sostiene, e dalla creazione di questo contrasto emergerà la verità della sua interpretazione. Oppure, al contrario, si può giocare tutto sul carattere proprio dell'attore e dargli una parte che sia quella che egli interpreta tutti i giorni, nella vita".

Durante gli anni Sessanta si sviluppa in Europa la pratica delle coproduzioni che grazie ad accordi internazionali consentono ai film l'opportunità di ottenere una doppia nazionalità e raddoppiare la loro possibilità di beneficiare premi economici governativi. E' Une femme est une femme il primo film di Godard a sperimentare questa metodologia di produzione che instaurerà il rapporto tra Beauregard e il produttore italiano Carlo Ponti, vero e proprio "macellaio" nonché icona dell'ormai avviato processo per il quale l'ignoranza economica e morale riescano a sovvertire le intenzioni e l'essenza stessa del sovrano valore dell'autore cinematografico.
La versione italiana de La donna è donna, infatti, oltre a subire il taglio di numerose scene di nudo non ancora accettate nei cinema italiani, è privata di due intere sequenze e stravolge, con un doppiaggio e un missaggio arbitrari, tutta la colonna sonora del film, girato in presa diretta e particolarmente elaborato negli accostamenti e accavallamenti di musica e parole, peculiarità alla quale Godard lavorerà in tutti i suoi film.
La donna è donna non tratta un tema nuovo, quello del ménage a troi, che da "Letto e sofà" di Abrahan Room a "Partita a quattro" di Lubitsch e ancora al più recente "Jules et Jim" di Truffaut aveva ispirato tanti film dei più amati. Il triangolo non è solo un espediente narrativo, ma la geometria profonda del reale e della sua ambiguità. Nuovissimo è comunque il suo concepimento, grazie anche all'utilizzo di molte tecniche che fino ad allora non ci si poteva permettere quali il cinemascope, il colore e il suono diretto.

"Più vado avanti più vado verso la semplicità. Uso le metafore più consunte: in fondo è questo che è eterno, le stelle per esempio rassomigliano a occhi, la morte è come il sonno..." Si apre con questa citazione di Borges, Les Carabiniers, nato da un trattato scritto da Roberto Rossellini e Jean Gruault.
Girato molto rapidamente nei dintorni di Parigi, con un budget bassissimo e attori quasi sconosciuti, Les Carabiniers è un film molto rosselliniano nella sua libertà e candore. Rossellini, cresciuto durante il Neorealismo italiano del quale ne è l'esponente più rappresentativo, è anche uno dei cineasti preferiti da Godard: "Il realismo non consiste in come sono le cose vere, ma in come sono veramente le cose". Les Carabiniers è contemporaneamente una favola e un racconto di fatti.

Ancora indecenti tagli nella versione italiana vengono effettuati dallo stesso Carlo Ponti a Le Mépris, nel quale sono protagonisti una mozzafiato Brigitte Bardot e un grande Michel Piccoli. Nel film c'è anche Fritz Lang che interpreta se stesso alle prese con la realizzazione dell' "Odissea" e un quarto personaggio, il produttore americano Prokosch. L'intreccio si dimena sul sempre complesso e tortuoso gioco dei compromessi economici e morali di certa produzione cinematografica. La sceneggiatura è ispirata dall'omonimo romanzo di Moravia ma Le Mépris mette in scena il difficile rapporto fra classicità e modernità nel quale lo stesso Godard si dimena.
Il risvolto poetico non poteva mancare e così sono molte le associazioni tra personaggi e luoghi dell'Odissea e quelli reali. I colori sono forti e decisi e il regista si diverte con la Bardot trasformandola, svestendola e rivestendola, facendole pronunciare una sfilza di parolacce solo per far vedere, come essa vuol dimostrare al marito Piccoli, che si può farlo deliziosamente, anche senza divenire per nulla volgare.

"Per fare un film bastano una donna e una pistola". E' sempre un ménage a troi, Bande à part, film leggero e squisitamente libero, gioiello di estetica, luce e sincerità.
Ricco di scene incollegabili all'intreccio ma fresche e spontanee come quella del balletto nel bar e la visita del Louvre in sette minuti, questo film dimostra che l'idea di regia di Godard non si limita a portare avanti una storia e dei personaggi ma vuole trovare o mettere dell'altro nell'inquadratura perché la ripresa è tutto, e può sopportare tutto.

In questo periodo Godard gira il cortometraggio dedicato alla Pigrizia nell'ambito di un film sui "Sette peccati capitali", a cui partecipano anche altri registi della Nouvelle Vague quali Chabrol, Demy e Vadim. L'attore protagonista è Eddie Constantine che ritroveremo in Alphaville, un film di fantascienza intellettuale, interpretato da intellettuali e con un intellettuale per protagonista, che riflette continuamente sull'irrazionale che lo circonda e ogni sera redige "il diario dell'ultimo appartenente al regno della libertà".
Si sottolinea ancor di più il contrasto fra vecchio e nuovo, fra emozione e razionalità astratta ma Alphaville è soprattutto una ricerca sulla materia base del cinema: la luce e il suono.
"Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi e questo la gente lo trovava meraviglioso. Ascoltava il suono. Adesso invece la gente chiede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea del cinema. Al cinema c'è il suono e c'è l'immagine".

Vittima di una versione italiana nuovamente tagliata e "normalizzata" è Pierrot le fou, capolavoro degli anni Sessanta nonché summa e conclusione effettiva di tutta la filmografia godardiana precedente.
Anna Karina e Jean-Paul Belmondo sono i due protagonisti di questo stupendo lungometraggio nel quale si radicalizza più di ogni altro film precedente la frammentazione e la dissoluzione della continuità narrativa. Accusato di anarchismo morale ed intellettuale, Pierrot le fou fu vietato ai minori di diciotto anni. Godard riesce nel descrivere la vita che c'è fra le cose e le azioni e si abbandona con i suoi personaggi a una libertà di scrittura che accoglie ogni suggestione dell'istante. "Ho avuto un'idea per un romanzo. Non descrivere più la vita della gente...ma soltanto la vita, la vita da sola. Quello che c'è fra la gente, lo spazio, il suono, i colori. Bisognerebbe giungere a questo". In Pierrot le fou sono all'opera le poetiche più disparate, la scrittura automatica e onirica del surrealismo e la tradizionale fiducia godardiana nell'improvvisazione e nei prelievi spontanei dalla realtà, ma anche una volontà "sovietica" di controllo e valutazione degli effetti, una ricerca quasi grammaticale sul montaggio e sull'immagine.
Godard riesce bene nella connessione fra Amore e Morte, nel tema della fuga verso la purezza, in quello del tradimento e alla risoluzione del caos nella contemplazione dell'armonia. Non mancano l'attualità giornalistica e politica, con allusioni alla corsa spaziale Usa-Urss e alla guerra del Vietnam.

Parallelamente a queste produzioni più "romanzesche", Godard gira due film saggio-sociologici quali Vivre sa vie e Une femme mariée. Nel primo vengono narrate, in 12 capitoli, le avventure di Nanà (Anna Karina) e la sua vita da prostituta, riflessione tra la natura fisica e quella morale, tra l'apparente freddezza del mestiere e il calore e la sensibilità dell'essere donna, tra l'identificazione di una meretrice con una Santa (Nanà piange in un cinema mentre vede "La passione di Giovanna d'Arco" di Dreyer).
Une femme mariée, invece, "è una specie di "depliant" sulla donna. "Io non invento niente, compilo dei prospetti. Dico: ecco come si compone una donna e la mostro in pezzi staccati". In effetti, Godard ci mostra la donna con inquadrature alle braccia, al volto, alle spalle, alle gambe e così via, contestualizzando durante tutto il corso del film il tema del sesso.

Jean-Pierre Léaud è il protagonista di Masculin féminin, film sui giovani che, con sottofondi dei Beatles, Bob Dylan, Bach, Bestie Smith e Charlie Parker, contiene spunti riflessivi sulla difficoltà della coppia.

Una protagonista impersonale interpreta Juliette in Deux ou troi choses que je sais d'elle: infatti è proprio alla città di Parigi che si fa riferimento quando si parla di lei. Eroina alla ricerca di profondità, Juliette è continuamente trasposta tra l'essere oggetto e soggetto.

Made in U.S.A. è stato definito da Godard stesso un "film po", cioè politico, poliziesco e poetico. "In linea di principio ho cercato di fare un film semplice e, per la prima volta, di raccontare una storia. Non è nel mio temperamento, non so raccontare. Ho voglia di rendere tutto, di mischiare tutto, di dire tutto nello stesso tempo. Se dovessi definirmi direi che sono un "pittore in lettere", come si dice che ci sono uomini di lettere".
In Made in U.S.A. accentua la sua polemica contro la cultura americana, ma comincia ad armarsi e a sparare su di essa disgregandone i miti, i modelli e il linguaggio, attaccando frontalmente tutti i principi sui quali si fonda il cinema hollywoodiano. Sarà l'ultimo film dell'epoca "Karina" e uno dei suoi film meno gradevoli, ma uno dei più cruciali, quello che più accetta i rischi e le difficoltà della sperimentazione, inabissandosi nella spirale del linguaggio.

Dopo il bellissimo cortometraggio L'amour en l'an 2000, nel quale viene descritto magnificamente il conflitto tra "amore fisico" e "amore spirituale", il Nostro intraprende una serie di film con la sua nuova musa, Anne Wiazemsky con la quale debutta ne La chinoise e nel quale si possono notare più che altrove gli insegnamenti di Brecht, secondo i quali si dovrebbero mostrare e quindi rivelare gli artifici del film nel film, far vedere che certe cose non sono "vere" (cartelli del ciak, inquadrature agli operatori,ecc...)
Nel film è "narrata" la vicenda di cinque giovani che si chiudono nell'appartamento parigino lasciato libero dai genitori di uno di loro generandovi una cellula marxista-leninista.
Nella "Cinese", in contrapposizione con l'idea di Godard per la quale suoni e immagini creano una sorta di contrappunto, questi agiscono, invece, tautologicamente, come se dovessero marcare o sottolineare.

Delirio e surrealismo trasudano in Week-end, esilarante lavoro nel quale si descrive la frenesia collettiva che coglie la gente in occasione del week-end e che libera tutta la loro violenza e aggressività nascoste. Nel film viene analizzato lo stato della società contemporanea: la crisi della famiglia borghese, la mitologia dell'auto e del tempo libero, la caduta dei valori morali, ma non mancano espedienti tecnici pregevoli come alcuni piano-sequenza davvero ineccepibili. La violenza dell'immagine è una metafora come quella che si sprigiona negli insulti feroci, razzisti e classisti, ma è anche quella che risiede in affermazioni come "la libertà è violenta come il crimine" e "bisogna superare gli orrori della borghesia con orrori ancora maggiori".
Week-end è l'ultimo film che entrerà nei circuiti commerciali prima di un periodo di attività intensa ma destinata a restare sotterranea e quasi sconosciuta.

Nel febbraio del 1968 scoppia "l'affare Langlois", ingiustamente spodestato dalla direzione della Cinémathèque. Godard, insieme al suo amico Truffaut e a tantissimi altri registi e attori della scena cinematografica mondiale manifestano e lottano contro questo provvedimento, lavorando a tante attività come quella finalizzata all'annullamento del festival di Cannes di quell'anno. Langlois riottiene il suo posto, ma ormai per Godard, la strada della sovversione contro il sistema cinematografico è avviata. Di qui l'idea di salvare il Cinema tramite la distruzione di esso diventerà costante. Un film comme les autres e Le gai savoir ne sono validi esempi: il primo è ostico, insopportabile, esclude qualsiasi sviluppo e spinge gli spettatori a rifiutarlo e ad abbandonare la sala; nel secondo viene pronunciata tutta una serie di parole oscene solo perché sono vietate dalle censure istituzionali.

One plus one e One P.M. sono due dei lavori che portano il regista all'estero. One plus one è girato in Inghilterra e vuole essere un confronto con due grandi aspetti della cultura britannica: la tradizione della democrazia liberale e la moderna scena giovanile e musicale (ci sono i Rolling Stones che provano in sala di registrazione "Sympathy For The Devil").
One P.M. è girato in Nord America ed è "una raccolta di frammenti, a volte belli , a volte divertenti, a volte banali, intorno a qualcosa della rivoluzione U.S.A."

L'incontro con Jean-Pierre Gorin (militante marxista-leninista) fa nascere in lui la convinzione e la decisione di cominciare a fare politicamente del cinema politico: nessun film che non sia stato "pensato" politicamente fin dal momento della realizzazione può svolgere un effettivo ruolo politico. Il gruppo "Dziga Vertov", del quale appunto Godard e Gorin sono leader, nasce dall'esigenza di "opporsi a Ejzenstein che si rivela già un cineasta revisionista mentre Vertov aveva delle teorie del tutto diverse, consistenti semplicemente nell'aprire gli occhi e mostrare il mondo in nome della dittatura del proletariato". L'idea della lotta contro l'ideologia borghese, con le immagini contro altre immagini, fare un cinema d'avanguardia e di rottura contro le mistificazioni del cinema ufficiale e contro gli equivoci del cinema progressista e militante sono i temi centrali di British Sounds, Vento dell'est, Lotte in Italia (probabilmente il film più riuscito del gruppo Vertov), Prava e Vladimir et Rosa.

"Che cosa devono fare gli intellettuali per la rivoluzione?" è il dilemma sollevato in Tout va bien, con Jane Fonda che lotta attivamente per l'indipendenza del popolo vietnamita. Con questo film si inaugura il rapporto tra il regista e Anne-Marie Miéville, sua prossima compagna e co-produttrice e, sempre in questo periodo, si consuma la rottura della vecchia amicizia con Truffaut, attraverso uno scambio di lettere piene di risentimenti.

Numero deux è l'opera prima di un debuttante, l'opera prima numero due dopo un periodo di silenzio che obbliga a ricominciare da capo. La realizzazione di un film a colori nel 1975 con gli stessi costi di un film in bianco e nero nel 1959 (anno del suo "numero uno" A bout de souffle). "Numero due", due come la coppia che torna a essere protagonista, due come la coppia mediologica: il cinema e il video.

Ici et ailleurs interpone la contrapposizione fra uomo e donna a quella storica e politica.

"Ciò che non va nel lavoro manuale è che è soprattutto un lavoro intellettuale. Le mani lavorano come se fossero occhi, ma non essendo fatte per vedere fanno un lavoro da ciechi. La comunicazione è fatta da ciechi" Non bisogna partire dal testo ma dall'immagine è la riflessione che echeggia in Comment ca va?.

Durante gli ultimi anni 70, Godard si cimenta nella realizzazione di Six fois deux e France tour détour deux enfants, due programmi televisivi proposti dall'Institut National de l'Audiovisuel che ovviamente rivoluzionerà a suo piacimento come il suo congenito istinto del non scendere mai a compromessi con nessuno.

Torna a raccontarci una storia "un po' come nei film di Hollywood" con Sauve qui peut, "descrivendoci le cose secondarie e illuminandoci le principali". Le immagini di questo film pieno di volgarità sono sempre purissime e la figura del protagonista rispecchia un po' la sua, che cerca di far incontrare tutto nella musica e nella perfezione dell'arte.

Escono in Italia lo stesso anno Passion, Prénom Carmen e Je vous salue, Marie, eccelsa "trilogia" ricca di intrecci tra arte, musica, divinità, quotidianità e commedia.
Passion si ispira alla Passione di Cristo, ma la costruzione dei rapporti tra i personaggi viene effettuata non sulla carta di una sceneggiatura ma attraverso connessioni e suggestioni dei significanti: luci, parole e gesti. E' proprio per questa metodologia di rappresentazione che il regista interpreta la Passione in maniera del tutto arbitraria, descrivendo sì la storia e la vita, ma poi dirigendosi verso l'essenziale che per il Cinema è luce, suono e immagine. "Nel Cinema non ci sono leggi, è per questo che la gente lo ama ancora. - Signor Coutard (Raoul Coutard, direttore della fotografia di molti suoi film, a partire da A bout de souffle, ndr), esistono delle leggi nel cinema? - No, signore".

Nel 1983 Godard presenta a Venezia Prénom Carmen, con il quale si aggiudica il Leone d'oro. Liberamente ispirato dalla "Carmen" di Bizet, Prénom si interessa a questa non per la storia ma a ciò che c'è fra la storia, ciò che essa non dice. "La storia di Carmen tutti la conoscono. Ma nessuno sa cosa è successo fra Don José e Carmen. Si sa come comincia e come finisce. Ma come si va dall'inizio alla fine? Raccontare delle storie è mostrare cosa è successo". Godard è anche uno degli attori di questo film e la follia del Cinema la prende masochisticamente e narcisisticamente su di sé, inaugurando una figura che poi incarnerà spesso, quella del buffone shakespeariano e dell'idiota dostoevskijano, colui che sembra matto ma capisce cos'è la vita.
La sua continua ricerca tecnica sui colori e sulla luce (perché "bisogna cercare la luce") riesce sempre nel creare effetti e atmosfere suggestive, ricche di romanticismo e di poesia, che sono sempre e comunque in primo piano: durante un processo un'appassionata avvocatessa difende il suo cliente perché ha agito per amore e sarà assolto; nel finale, Carmen morente dice "Come si chiama quando ci sono gli innocenti da una parte e i colpevoli dall'altra? Quando tutto è perduto, ma sorge il giorno e tuttavia l'aria si respira? - Questa si chiama l'aurora" stacco su un'inquadratura del mare.

Je vous salue, Marie è la trasposizione moderna della più grande storia mai raccontata, quella della nascita di Cristo, ma dalla parte della donna, della madre vergine. Ovviamente questa idea non verrà vista di cattivo occhio solamente dalle più alte cariche dello Stato, ma anche dal Papa che reciterà personalmente un rosario di riparazione. Il film è un ulteriore passo della ricerca sull'origine e la verginità dell'immagine. Invece di raccontare la genesi di un film, Godard, che come Giuseppe è un non-padre, racconta la nascita di un figlio e racconta la purezza di questa storia e dei suoi protagonisti.
La strana storia di una ragazza vergine che partorisce un bambino è interessante solo perché c'è in essa del mistero, il mistero dell'amore e della nascita. Godard lo può fare perché i suoi personaggi, anche una benzinaia svizzera o un tassista che non ha studiato, da sempre sanno porsi delle domande essenziali, possono parlare con le parole di Artaud o di Francesco d'Assisi con la massima naturalezza. Bisogna aver lavorato per decenni sulla natura dei personaggi e delle immagini per poterselo permettere.

Dopo alcuni esperimenti alle prese con delle videosceneggiature e videoconversazioni, Godard gira Détective, film su commissione accettato per poter terminare Je vous salue, Marie nel quale la nostalgia per la Nouvelle Vague è evidente: dall'estetica del Grand Hotel alla presenza di Jean-Pierre Léaud che interpreta un buffo investigatore alla "Baci rubati" di Truffaut. Tutto il film è pieno di libri e ogni personaggio ne legge almeno uno che lo identifica. Nostalgia che ritroviamo anche in Grandeur et décadence d'un petit commerce de cinéma, considerato da molti "La camera verde" di Godard. Il nome che non viene mai fatto ma che aleggia in tutto il film è proprio quello di Truffaut appena scomparso, con il quale Godard non si è mai riconciliato ma che dopo la sua morte ha scritto ai "Cahiers" una lettera struggente, lacerata e disperatamente sincera.

Un altro lavoro per commissione è quello che vede il Nostro alle prese con la trasposizione di King Lear. Ovviamente l'interpretazione è molto personale e il film ha come prologo proprio la stipulazione del contratto con la produzione che vuole assolutamente che la realizzazione sia completata in tempo per la presentazione al festival di Cannes. Stessa storia per Soigne ta droite, realizzato nello stesso anno di King Lear e sempre per commissione. "Si tratta di una fantasia in 17 o 18 quadri per attori, cinepresa e videoregistratore. Il titolo esatto dovrebbe essere all'incirca Un posto sulla terra infatti ognuno dei tre gruppi implicati cerca un suo vero posto sulla terra. Un gruppo di musicisti cerca di andare d'accordo. Un individuo cerca di legare con altri ma pensa di essere ingannato dal pianeta. Dei viaggiatori, infine, cercano di giungere a destinazione, un po' come Ulisse. Ognuno ha il suo Progetto. La storia stessa la si può chiamare Proiezione, intendendo questo termine come la definizione dell'avventura umana".

La curiosità, la voglia di sperimentazione e quella di mettersi alla prova portano Godard a lavorare anche nel campo della pubblicità per diverse committenti. Come al solito, la sua "spontaneità" non poteva non portarlo sulla strada del fallimento superficiale. Superficiale perché la riuscita e il soddisfacimento del cliente passano in secondo piano rispetto al "realismo" e alla "sincerità" del suo lavoro come accaduto, per esempio con la Darty, leader in Francia della vendita di elettrodomestici, televisori, impianti Hi-fi,ecc... "vittima" di uno spot sociologico che narra: "Ci sono televisori ma il sognatore deve portare i suoi sogni" e " l'immagine, il suo fratello suono, e i loro genitori, il desiderio e l'inconscio, sono le sole cose che non si possono negoziare".

Le stagioni passano e gli anni pure, inesorabili. Probabilmente è per questo che il nostro non più giovanotto regista comincerà con Nouvelle Vague a riflettere sull'importanza del ricordo, tema che riprenderà in quasi tutti i suoi lavori futuri. "Il ricordo è l'unico paradiso dal quale non si può essere cacciati". Quasi tutti i dialoghi di Nouvelle Vague sono tratti da testi poetici e letterari che Godard afferma di aver mescolato, ma il senso del film è quello che riusciamo a tradurre da una precisissima e misteriosa messa in scena, reale protagonista del film: è grazie a particolari inquadrature e alla gestione della luce che questo lavoro esprime la sua comunicazione.
"Nouvelle vague è un film inafferrabile, di cui anche dopo molte visioni non si riesce a esaurire la profondità e il mistero. Ma anche una sola basta per goderne la bellezza"

E' da un testo di Leopardi che nasce Hélas pour moi, anche questo quasi interamente pieno di dialoghi ripresi da testi letterari di Shakespeare, Balzac, Flaubert, Conrad e altri. Gérard Depardieu ne è il protagonista e nel film è trasposto il mito greco di Almea e Anfitrione, quello del desiderio di un dio di provare la verità del desiderio umano.

Dopo aver girato Les francais vus par... per l'anniversario del "Figaro Magazine" insieme a Herzog, Lynch, Wayda e Comencini e How Are The Kids?, episodio di un film collettivo promosso dall'Unicef dedicato ai diritti dell'infanzia, Godard gira Allemagne année 90 neuf zéro, dopo soli tre anni dalla caduta dell'impero Urss, simboleggiato dall'abbattimento del muro di Berlino. E' la cronaca di un viaggio in Germania, testimoniato anche dalle solite citazioni letterarie e visive: sono molti i film tedeschi o semplicemente sulla Germania che si possono riconoscere, "Metropolis", "I Nibelunghi", "La caduta di Berlino", "Ragazze in uniforme", "Lili Marleen".
Il film vuole essere, quindi, anche un omaggio al cinema tedesco che "è ovunque, in quello russo e in quello americano". Proprio a quello russo fa riferimento, invece, quando Les enfants jouent à la Russie viene alla luce, anzi, per meglio dire vengono alla luce. Infatti Les enfants è diviso in due, la prima parte è finzione, divertente e grottesca, dove c'è sempre dell'autoironia "idiotesca", mentre la seconda è un saggio storico-critico ricco di riflessioni sul cinema, sui suoi rapporti con la letteratura e sui rapporti fra l'Occidente e la cultura russa.

Come dagli insegnamenti del maestro Bazin, in For Ever Mozart, ispirato alla guerra in Jugoslavia, Godard non vuole rappresentare l'oscenità del conflitto ma si affida bressonianamente ai rumori, alle esplosioni, ai frastuoni, stimolando l'immaginazione dello spettatore attraverso l'udito piuttosto che attraverso la vista.

Siamo a un passo dalla realizzazione degli ultimi due episodi di Histoire(s) du Cinema, ambizioso lavoro eseguito nel corso di un intero decennio, dal 1988 al 1998. " La storia del cinema è un po' come un bambino che avrebbe forse potuto imparare qualcosa di diverso". E' in questa ottica che le Histoires vengono concepite. Il "bambino" Godard suddivide la storia in 8 puntate, ognuna di queste disegnata e colorata con estrema originalità, genialità e intelligenza, ma pur sempre attraverso una visione soggettiva, agendo arbitrariamente sulla cronologia ma non sull'estetica. Non vera storia dunque ma memoria, libera e personale, che procede per accostamenti estemporanei di parole e concetti, per analogie e rimandi emotivi, echi e rime visive, raddoppiati dalle frequenti scritte spesso ritoccate e trasformate in lettera per lettera. Il linguaggio della memoria è il linguaggio del video, la memoria attuale del cinema, magari lacunosa e annebbiata ma personale, posseduta in casa, come i libri della biblioteca.

Un'interessante e intelligente conversazione tra Michel Piccoli e Jean-Luc Godard è filmata in Deux fois cinquanta ans de cinéma francais. Discussione sul cinema e la sua nascita, paradossi, riflessioni sulla cultura cinematografica sono gli ingredienti che compongono questa chiacchierata a quattrocchi mentre l'anno prima, Godard lavora al suo autoritratto: JLG/JLG. "E' un autoritratto e in teoria ciò al cinema non si può fare, è qualcosa che è proprio della pittura. Ma volevo cercare di capire cosa significava per me fare un autoritratto, vedere fino a che punto potevo andare nel cinema e fino a che punto il cinema poteva accettarmi".

Il desiderio che in Godard si era generato ancor prima di divenire critico e cineasta era quello di poter pubblicare un romanzo. Questo desiderio, probabilmente, lo spinge a trasformare alcuni suoi film in libri, nei quali vengono citate le frasi dei suoi lavori cinematografici in ordine sparso e senza punteggiatura. Con tale procedimento sembra ribadire il fatto che di fronte alle citazioni non bisogna porsi come primo problema quello di identificare l'origine ma comprendere che queste sono i materiali di un nuovo discorso il cui autore è ormai un altro.

Con Eloge de l'amour si percepisce una sorta di atteggiamento autobiografico nei confronti del ruolo del protagonista Edgar, giovane che ha in progetto di fare un film, o forse un'opera, o forse un po' di teatro o un romanzo: la mancanza di ispirazione e di quel qualcosa che si possa trasformare in meraviglia, in immagini. Edgar sfoglia e legge continuamente la sua sceneggiatura su un quaderno le cui pagine sono completamente bianche, a simboleggiare una "non-sceneggiatura", godardianamente indispensabile prima che il film venga lavorato.
L'idea di Edgar è quella di raccontare tre coppie, due giovani, due adulti e due anziani che descrivano uno dei quattro momenti dell'amore: l'incontro, la passione, il distacco e la riconciliazione.
Il film è girato per metà in bianco e nero, nel presente, e l'altra metà a colori, nel passato, perché i colori sono la sopravvivenza della memoria. Memoria sempre presente ormai negli ultimi lavori di Godard e i suoi personaggi affermano che "non ci può essere resistenza senza memoria" e "la memoria non ha doveri ma è un diritto".
Le immagini di Eloge de l'amour sono sempre poetiche e qualitativamente perfette, dipinte a dovere come fossero dei quadri impressionisti.

Nonostante siano passati quasi 45 anni da A bout de souffle, Godard è ancora in gran forma e a testimoniarlo è Notre musique, diviso in tre parti, trasposizione dell'inferno, del purgatorio e del paradiso nonché monitoraggio e riflessione sul nostro mondo attuale, quello della guerra e delle lotte religiose.

"Ciò che è ammirevole in Jean-Luc Godard è che i suoi intellettuali dicono cose molto serie in maniera molto naturale, senza pontificare né annoiare: nessuno prima di lui era riuscito a realizzare concretamente un linguaggio che ci sembrava molto astratto, da qui la nostra sorpresa e il nostro divertimento. In quanto critico cinematografico, Godard ha il senso della parola e ci fa passare, senza traumi né discontinuità, dal Père-Lachaise al Kilimangiaro, o da Camus a Truffaut. E' questo il miglior dialogo del mondo, il più facile, il più naturale, il più scorrevole per un autore"

Luc Moullet, "Cahiers du cinéma" n°106 aprile 1960


Si ringrazia il prof. Alberto Farassino per aver scritto il bellissimo "Jean-Luc Godard" (Castoro Cinema) dal quale sono state riprese alcune frasi per "realismo intellettuale".


Addio al linguaggio - Addio al linguaggio (2014)
A sentire l'attacco musicale, che riecheggia il canto sessantottino "La caccia alle streghe" dell'italiano Alfredo Bandelli, si potrebbe pensare che i settanta minuti di cinema godardiano cui si sta per assistere siano un nuovo manifesto politico del Godard militante e rivoluzionario. Una prosecuzione, insomma, del suo periodo politico, della sua cinematografia "marxista" dura e pura. No, vi sbagliate e non dovete giudicare. La rivoluzione di cui Jean-Luc Godard ci parla nella sua ultima fatica è totale: certo, è politica, ma è più generalmente e profondamente umanista, culturale, linguistica, cinematografica.
Il protagonista del film è un cane, il cane di Godard. Non c'è da stupirsi: i suoi primi piani racchiudono tutte le tre forme espressive che abbiamo citato. Nel momento in cui il linguaggio non serve più, e l'immagine può ancora salvarci, lo sguardo innocente dell'animale più buono e che "è capace di amare qualcun altro più di se stesso" è l'emblema del cambiamento, del capovolgimento del punto di vista. Il film finisce, si torna a cantare di rivoluzione e poi due suoni si sovrappongono, dietro lo schermo che si è fatto nero: l'abbaiare del cane e il pianto di un neonato. Godard celebra la fine di tutto, la fine della vita artistica, l'addio al linguaggio e al cinema che ha sempre difeso. Ma ci saluta con un segnale di rinascita: non tutto è perduto. È un addio, forse, solo provvisorio, in attesa che qualche nuova forma di comunicazione arrivi. Per la lucidità del suo genio, non è da escludere che sia Godard stesso, in vecchiaia, a scoprirla e donarcela come bene prezioso.

(contributo di Giancarlo Usai per "Adieu au language")





Jean-Luc Godard