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Alla sua moviola il montatore Marco Spoletini ha messo in fila le immagini di oltre venticinque anni di cinema italiano, dagli esordi in pellicola fino ai David di Donatello per “Gomorra” e “Dogman”, collaborando con numerosi registi (Tavarelli, Vicari, Rohrwacher, i fratelli D’Innocenzo e moltissimi altri), ma soprattutto ha costruito un lungo sodalizio artistico con Matteo Garrone, contribuendo così in maniera determinante alla definizione del suo stile

L’industria cinematografica nostrana si avvale da sempre di grandi professionalità, vere e proprie eccellenze che hanno fatto la fortuna della settima arte in Italia. Dal Neorealismo ai fasti della “Hollywood sul Tevere”, passando per la commedia all’italiana e i grandi autori, il cinema italiano è stato accompagnato nel suo viaggio oltre che da registi, sceneggiatori e attori, da una lunga schiera di scenografi, costumisti, direttori della fotografia e montatori. Uno di questi è senza dubbio Marco Spoletini: romano, classe 1964, Spoletini si è formato come molti altri professionisti tra il CineTV e il Centro Sperimentale, senza rinunciare a puntare sull’istinto. Una duttilità che legata all’indubbio talento e alla capacità di proporre in moviola le “soluzioni giuste”, l’hanno reso collaboratore di registi come Daniele Vicari e Matteo Garrone. Riguardo quest’ultimo, Spoletini ha realizzato il montaggio di tutti i suoi film, dall’esordio del 1996 di “Terra di mezzo” fino al recente “Pinocchio”. Data la quarantena, abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con Spoletini tra un piatto di pasta e un caffè consumati… al telefono.

Marco, in questo difficilissimo momento il cinema è fermo e le sale sono chiuse da diverse settimane. Sicuramente, al pari di altri settori, ci saranno delle ripercussioni notevoli per tutto l’ambiente, insomma l’ennesima “crisi”. Tu come stai vivendo questa situazione?

Non solo i cinema sono chiusi, ma le produzioni sono ferme, e questo è ancora più grave, perché abbiamo un problema a monte, per così dire. Sono state interrotte le lavorazioni, rimandati i progetti di film, c’è un blocco quasi completo. Certo, se i film non arrivano in sala è dura, però esistono anche altri modi per fruire il cinema, penso ovviamente alle piattaforme e ai dispositivi che possono veicolare le opere. Se però i film non si producono…

L’attualità che viviamo, la quarantena forzata, come potrà essere vista al cinema?

C’è chi già si sta adoperando su progetti impostati sulla crisi attuale, raccontando la drammaticità di questo momento, con film girati nelle case, i personaggi alle finestre… ma poi si dovrà necessariamente allontanare dalla quarantena, riprendersi gli spazi. Ora il contatto umano è impossibile, non si può interagire in maniera ravvicinata e quindi non si può lavorare sul set, soprattutto. Il cinema “di prima” è impossibile in questo momento.

Ecco, parlando del cinema “di prima”, in particolare del tuo lavoro, hai affermato che «il montatore è il primo spettatore del film». Mi sembra che riassuma un modo di intendere questa professione, no?

Sì, perché per me la funzione del montatore è proprio quella. Un regista, se è intelligente, ha bisogno di un contraltare, di un contradditorio che veda il film con lui e gli offra una prospettiva diversa, un paio di occhiali nuovi. Matteo Garrone ha dichiarato più volte che io sono la sua “cartina di tornasole”.

Infatti, tu hai montato tutti i film di Garrone. Sicuramente c’è un rapporto di fiducia, di complicità. Ne hai seguito anche l’evoluzione.

E lui ha seguito la mia. Matteo ha fissato sempre più in alto i paletti del suo cinema e la mia crescita professionale è andata di pari passo alla sua. Devo confessarti però di aver trovato il materiale del suo primo film (“Terra di mezzo” del 1996, ndr) molto grezzo, in pratica “immontabile”...

...ma a lui lo hai detto?

Come no! Ma vedi, Garrone all’epoca non aveva una vera e propria formazione cinematografica classica, io invece ero ancora troppo “scolastico”. All’inizio per me è stato un vero salto nel buio. Comunque, c’è stata una crescita reciproca che continua tuttora. Io sono l’unico dei suoi collaboratori presente in tutti i suoi film, il decano, diciamo.

Tra l’altro, ti sei formato quando il montaggio avveniva su pellicola. Pensi che l’avvento del digitale offra una maniera diversa a chi vuole approcciarsi adesso al montaggio, anche grazie alle tecnologie disponibili a prezzi molto contenuti? In altre parole: il digitale ha aperto la strada al “fai da te”?

Ma sai, secondo me chi non possiede una solida formazione, i cosiddetti fondamentali, l’ABC del linguaggio cinematografico, parte con un grosso handicap, perché l’approccio a un film necessita senza dubbio di questi codici teorici. Conoscere la storia del cinema, la sua evoluzione e le soluzioni disponibili non è pura accademia, ma ti consente di avvicinarti a questa professione in modo più maturo, più consapevole. Il “fai da te” può essere molto rischioso. Inoltre, credo anche che gli insegnamenti e i rapporti che si possono costruire in una scuola non possano essere sostituiti dalla certificazione di un programma software. Ci dev’essere molto altro, al di là della bravura di saper “smanettare” col computer.

Come hai vissuto il passaggio al digitale? Accanto al salto di tecnologia hai ravvisato un cambio estetico nel montaggio? Le modalità più frenetiche e veloci di lavorare si sono riversate anche nel risultato finale, nelle soluzioni trovate in moviola?

Considera che a Roma io sono stato uno dei primi a utilizzare il montaggio in digitale AVID (per il corto “Déjà Vu” di Vincenzo Scucimmarra del 1993, ndr). Avevamo la facoltà di sbagliare, essendo davvero i pionieri di questo nuovo approccio. Certo, il montaggio è cambiato, è diventato più veloce, ma io ho insegnato ai miei studenti (Spoletini è uno dei fondatori della Scuola d’arte cinematografica “Volontè” di Roma, ndr) il bisogno di metabolizzare il materiale, di prendersi i propri tempi, capire con calma quali sono le possibilità che il girato ti offre.

Dunque, la cernita del materiale è davvero una parte fondamentale del tuo lavoro, no?

Assolutamente sì. Conoscere a fondo il materiale a propria disposizione è importantissimo, direi fondamentale. Bisogna prendere appunti scritti, e non costruirsi innumerevoli versioni solamente per avere più opzioni. Il digitale ti consente di moltiplicare le “tracce”, ma io preferisco tenermi stretta sempre una di base, come fondamento. Certo, poi si deve lavorare sui cambi, metterci dentro le modifiche e in questo il computer ti aiuta. Ma un perno, un cuore che batte, deve essere già lì.

Com’è il tuo rapporto col set, invece?

Mi ci tengo il più possibile lontano!

Come mai?

Semplicemente perché non voglio condizionare il lavoro del regista, mettere pressione, magari chiedendo di girare qualche dettaglio in più per essere sicuro che il materiale da montare poi effettivamente ci sia. Preferisco trovare le soluzioni dopo, in fase di montaggio, puntare sui consigli, fare insieme delle scelte, andare sul concreto, insomma. Un’eccezione è stata proprio “Pinocchio”: sono stato più presente sul set per assicurarmi insieme a Garrone di avere tutto quello di cui avevamo bisogno. Lo sforzo produttivo del film era importante e non si poteva sbagliare.

Con Garrone di solito realizzate un primo montato e poi, se necessario, c’è la possibilità di andare a rigirare alcune scene che non soddisfano. È una pratica comune ad altri registi?

No, per nulla, in questi termini non la adopera quasi nessuno. Garrone è stato molto intelligente a ritagliarsi la possibilità di correggere il tiro in corso d’opera. Ad esempio, “L’imbalsamatore” è stato quasi per buona metà rigirato.

Tu hai lavorato spesso con registi che utilizzano il piano sequenza come cifra stilistica del loro cinema. Oltre a Garrone, mi viene in mente anche il film “Un amore” di Tavarelli, composto da lunghe scene girate tutte in piano sequenza. Come ti poni di fronte a un film che utilizza questa forma in maniera preponderante?

Non ci ho messo poco a montare quel film, perché la scelta del materiale lì si è rivelata la sostanza del mio lavoro. Avevamo numerose versioni della stessa scena, ugualmente buone, e andava scelta comunque la migliore, e non è stato affatto facile. In aggiunta abbiamo lavorato in modo certosino sul suono, a volte abbiamo preso il sonoro di altre scene, anche per migliorare la recitazione, curare gli accenti emotivi. In altre parole, se avessimo scelto dei piani sequenza differenti, il film sarebbe stato sicuramente diverso nel suo risultato finale. Ripeto, le scelte sono un passaggio fondamentale. Ogni sfumatura è importante, con soluzioni diverse veicoli emozioni differenti.

Tu hai lavorato con registi esordienti, ad esempio con Kim Rossi Stuart per “Anche libero va bene” e coi D’Innocenzo per “La terra dell’abbastanza”. La tua autorevolezza, i premi vinti, la carriera ventennale, di fronte a un regista al suo primo lavoro, può giocare un ruolo di “guida” per le decisioni che vengono prese in sede di montaggio?

Sai, bisogna comunque mettersi sempre nei panni del collaboratore, del collega. Trovo che sia un errore salire in cattedra e fare il maestro. È necessario lavorare insieme, allo stesso livello. Si può anche imparare dagli esordienti, hanno nuove sensazioni, un modo fresco di vedere le cose.

Cinema a parte, hai lavorato anche per la televisione…

Molto poco, e pentendomene ogni volta.

Perché?

Perché le soluzioni che si propongono a quel pubblico sono davvero didascaliche, standard, come se gli spettatori televisivi non siano pronti a recepire un linguaggio più complesso. Ad ogni modo, è un tipo di lavoro abbastanza estenuante e che non porta molte soddisfazioni.

Cosa pensi invece del montaggio ostentato, meno classico, più marcato? A volte è apparso anche nei film in cui hai lavorato, penso alle scene in auto dei film di Daniele Vicari “Velocità massima” e “L’orizzonte degli eventi”, ma anche alle riprese allo zoo del film di Garrone “L’imbalsamatore”. Sono soluzioni in cui si forza un po’ la mano e il “trucco” diventa palese. Come ci si arriva?

Non sono un grande amante di un montaggio così muscolare. Bisogna, a mio parere, ricercare sempre la semplicità. Certo, un regista come Vicari a volte punta già nel girato a ottenere risultati disomogenei, a fare delle scelte non lineari, e questo ti stimola anche in fase di montaggio. Nelle scene che hai citato, le soluzioni erano consone al tipo di film, del tutto coerenti con l’approccio del regista, dunque mi sono trovato a mio agio nel fare quel tipo di lavoro. Ma se un regista gira in maniera semplice e poi vuole forzare la mano, scomporre, sorprendere, in questo caso mi rifiuto: una forzatura, se tale, può snaturare il film stesso, rivelarsi controproducente. È un errore.

“Dogman” è un film impressionante per la sua coerenza interna, è girato e montato come un western. Ci racconti un po’ come si è arrivati?

È un film rigoroso, volutamente tale. C’era proprio la volontà di fare un film così, di metterci soluzioni di genere, come il western appunto. L’uso intelligente anche del piano sequenza in quel film va di pari passo col risultato finale.

“Pinocchio”, invece, è per certi versi un grande contenitore: kolossal con una cura estrema dei dettagli, ma anche favola, racconto di formazione, film per famiglie, commedia con un’atmosfera talvolta dark e ricco di effetti speciali insoliti per una produzione italiana. Sembra che Garrone sia passato da un cinema che indagava molto il reale verso un’accentuazione del tratto favolistico. Però una parte della critica è stata sorpresa dalla volontà di cimentarsi con il capolavoro di Collodi. Qual è la tua opinione?

“Pinocchio” è stato realizzato anche per far andare al cinema i bambini, le famiglie, però allo stesso tempo abbiamo puntato a non snaturare la cifra stilistica di Garrone. Certamente avevamo di volta in volta il problema di non cadere nel film Disney, diciamo, ma altrettante volte ci siamo trovati di fronte al rischio di essere troppo “garroniani”. Con le soluzioni che abbiamo preso, credo che alla fine siamo riusciti a portare a casa il risultato: avere il pubblico nelle sale, le famiglie, i bambini, senza però rinunciare al cinema d’autore, al nostro stile consolidato. Dunque, credo che “Pinocchio” sia riuscito nell’intento di essere un film per tutti, che sia molto coerente. Qualcuno ha storto il naso, ma nel cinema ci sta anche questo.





Il cinema (in)visibile. Intervista a Marco Spoletini