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Abbiamo intervistato Oscar Iarussi, giornalista e critico pugliese, in libreria con "Amarcord Fellini - L'alfabeto di Federico", un saggio che costruisce un abbecedario felliniano straordinariamente attuale

Il centenario della nascita di Federico Fellini quest'anno ha prodotto, nonostante le limitazioni dovute alla pandemia, un'infinità di discussioni, mostre, pubblicazioni, nonché rivisitazioni della sua opera. Il libro "Amarcord Fellini – L’alfabeto di Federico" (Il Mulino, 2020) di Oscar Iarussi non si accosta semplicemente al tripudio celebrativo del Maestro di Rimini; al contrario, riconosce nelle visioni cinematografiche del Maestro riminese la loro prorompente carica innovativa, forse non ancora completamente disinnescata.

 

Nella sua ultima fatica sul Maestro riminese, lei ha ricomposto un alfabeto felliniano, associando a ogni capitolo una lettera (A come Amarcord, G come Giulietta, S come Sogno a così via) cercando, tra l’altro, di sfatare alcune letture ormai consolidate dell'opera di Federico Fellini e analizzando, ad esempio, in maniera molto interessante il rapporto tra il regista e il postmoderno.

Oscar Iarussi: Fellini è probabilmente il primo artista italiano che approda al postmoderno: lo fa istintivamente, in maniera non ideologica né razionalistica, e questo è già evidente nei capolavori "La dolce vita" e "8½", due pellicole che decostruiscono il racconto tradizionale, ponendosi come mosaico di storie, rapsodie, o per meglio dire rabdomanzie, cioè ricerca di vicende, suggestioni, sentimenti. Questi due film collocano Fellini al di fuori del suo tempo, proiettandolo nel futuro, verso il nostro tempo. È una lettura opposta, me ne rendo conto, a quella che vede in Fellini il "cantore della nostalgia", della provincia, dell'arcadia contadina; al contrario, il Riminese è un artista che ha saputo presagire la condizione postmoderna, quella che attualmente viviamo, dove la razionalità è implosa in mille frantumi e non esiste più una ragione che domina il mondo, ma si è in balia di esso. Fellini ha colto tutto questo già all'inizio degli anni Sessanta, nell'Italia del boom economico, una stagione espansiva, progressiva, ed è riuscito a captare i germi della crisi italiana. In questo senso è un artista innovativo e visionario.

Ecco, a proposito della visionarietà di Fellini, il suo cinema è stato spesso definito un lungo sogno a occhi aperti. Forse anche il grande successo internazionale del film "La strada" del 1954 ha puntato i riflettori, soprattutto dall'estero, sul mito di un’Italia felliniana simile a una giostra, un circo, insomma un "Paese dei balocchi", dimenticando che c'è un contraltare molto differente, anche nelle forme, ad esempio come nel film "I vitelloni", uscito l’anno prima.

Bisogna dire che Fellini proviene dal cinema neorealista, com'è noto, i suoi primi lavori di sceneggiatore per Rossellini, solo per citare un esempio, sono profusi di realismo, derivato anche da suggestioni americane, da scrittori come Steinbeck, Faulkner e altri. È una poetica che presto diventa un vero e proprio canone italiano, con la stagione del neorealismo, grazie a registi come appunto Rossellini, De Sica e Visconti. Successivamente, però, Fellini si muove verso una dimensione diversa, più visionaria, seguendo sostanzialmente la direttrice della memoria e della dimensione onirica, una tesi che io ho sostenuto in un mio precedente saggio ("L'infanzia e il sogno" del 2009, ndr). È indubbio che in Fellini sia fortissima la volontà di cogliere la realtà attraverso la dimensione visionaria: "La dolce vita", ad esempio, è il film di un cronista che racconta quello che vede nel suo farsi, non c'è una distanza rispetto all'oggetto della sua narrazione. Eppure, dentro questa cronaca, Fellini riesce a cogliere le "smarcature della realtà", per dirla con Deleuze quando parla di Hitchcock, afferrandone il senso più autentico.

Proprio nel capitolo D, dedicato alla "Dolce vita", lei mette in risalto come il protagonista del film, il giornalista Marcello Rubini (Mastroianni), si perda, oltre che tra numerose donne, anche tra i pettegolezzi di via Veneto e le prime fake news. Il concetto stesso di inazione di molti personaggi felliniani sembra un trionfo del postmoderno, così come la frase: "Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso", pronunciata del regista Guido (sempre Mastroianni, l’alter ego di Fellini) in "8½".

Quella è una frase molto beat, che me ne fa venire in mente un'altra, piuttosto simile, di Lawrence Ferlinghetti: "Ho sognato che mi cascavano tutti i denti, ma mi rimaneva la lingua per raccontare questa storia". Un’espressione, come quella di Guido, tipicamente postmoderna, che contiene al suo interno un contro-movimento. Bisogna riflettere su questo: Fellini gira i suoi capolavori nell'Italia dei primi anni Sessanta ("La dolce vita" esce nel 1960, "8½" è del 1963, ndr), in piena mutazione antropologica da mondo contadino alla società industriale, un passaggio epocale che si vede molto bene nei suoi film. Siamo in un'Italia dominata dai cattolici, da una parte, e dall'ideologia comunista, dall’altra; con quella frase, invece, Fellini si colloca immediatamente al di fuori di queste fazioni. È ciò che definirei il suo "nichilismo mite": non un nichilismo freddo, algido, o disperato, alla Beckett insomma, ma profondamente empatico, mitigato dalle relazioni con l'altro, che stempera negli affetti la sua carica eversiva, perché fortemente inserito dentro la percezione comunitaria. In questo senso, Fellini è italiano al cento per cento, poiché proviene da una tradizione che si aggancia alla poetica di Leopardi, alla letteratura della sua regione, al comunitarismo romagnolo. Tuttavia, è vero anche che Fellini riuscirà a non ascriversi mai per davvero a nessuno di questi ambiti, restando sempre un passo a lato da tutto.

Infatti, come lei rileva nel capitolo L dedicato alla Luna, in omaggio all’ultimo film del Maestro ("La voce della luna", 1990), Fellini non è mai stato militante, piuttosto un cattolico inquieto.

Sì, Fellini si definiva "anagraficamente riminese e politicamente esquimese". In quel momento della sua carriera, agli inizi degli anni Novanta, si ritrovò difeso dalla sinistra per la vicenda degli spot pubblicitari (della quale Ondacinema si è occupata diffusamente, ndr). Eppure, Fellini non è mai stato un vessillo della sinistra italiana, che gli ha sempre preferito Visconti, un aristocratico che aderiva al PCI, il cosiddetto Conte Rosso. Fellini era più "pop", ma qui gioca, ancora una volta, l'equivoco di cui parlavamo prima, di chi considera "La dolce vita" solo come il feticcio dell'Italia più glamour. Ad esempio, nella famosa scena del bagno nella fontana di Trevi, oltre a Mastroianni e alla Ekberg, appare un garzone in un angolo: è una sorta di estraniamento brechtiano, un occhio che osserva, un dettaglio che però è stato dimenticato, al pari di altri episodi: il suicidio di Steiner, l'intellettuale; le immagini sulla religiosità popolare e contadina; la crisi di Marcello; l'orgia; la scena panica del mostro marino spiaggiato e via dicendo.

Tra l’altro, nonostante l’enorme cultura, lei non definisce Fellini un vero intellettuale ma, piuttosto, un artista di "pancia", coniando, direi in perfetto stile felliniano, il neologismo "affettuale". Perché?

Perché Fellini era un onnivoro, leggeva di tutto, la sua curiosità lo spingeva a interessarsi a tantissimi ambiti, come la psicoanalisi, o l'esoterismo. Era intrigato da tutto ciò che sfugge alla ragione in senso stretto, però non era uno studioso, non ha mai sovrapposto una riflessione filosofica sulla dimensione artistica. La sua poetica non proviene da un pensiero teorico, piuttosto da un sentimento, dal mondo degli affetti, visibile ad esempio in "Amarcord".

A proposito di "Amarcord", la lettera R di Rex, il piroscafo notturno di una celebre scena del film, ci conduce sull’Adriatico: un mare di frontiera, una "propaggine del Muro di Berlino" come lei lo definisce nel suo saggio, che divide l'Europa in due blocchi, fino alla Rimini adriatica di Fellini.

Il Rex esprimeva una voglia di alterità rispetto al reale, di lontananza. "Amarcord" (1973) è ambientato durante il Fascismo, di cui nel film vengono esposte tutte le crudeltà. Il regime, però, non viene trattato in maniera storicista, come ad esempio fa Bertolucci in "Novecento", (uscito nel 1975, ndr) ma come “morbo dannunziano” per dirla alla Savinio, come eterna adolescenza italiana, secondo ciò che Flaiano aveva già delineato nel romanzo "Tempo di uccidere", la cui eco è tornata, curiosamente, in tempi recenti anche in un film come "Tolo Tolo" di Checco Zalone, dove c'è una battuta che va in questo senso. Il Rex è un controcampo rispetto al Dux e alle parate grottesche del regime mostrate in "Amarcord". L'Adriatico, infatti, è un mare cerniera, consustanziale rispetto al cinema di Fellini, il quale non girerà mai a Rimini, ma assumerà la sua città natale come perno del suo immaginario, evidente appunto in "Amarcord" ma anche ne "I vitelloni". L'Adriatico è un mare di attese, da cui un giorno arriverà qualcosa, o qualcuno. Il transatlantico prefigura, seguendo questa lettura, l'arrivo delle navi dai Balcani, di altri popoli che sbarcheranno, di lì a poco, sulle nostre coste.

Un mare che ci porta, più a Sud, in Puglia, verso lidi che conosce molto bene: lei è un attento osservatore del Meridione, ha una rubrica fissa sulla Gazzetta del Mezzogiorno intitolata proprio "Tu non conosci il Sud", è stato anche presidente della Apulia Film Commission. Tra l'altro, qualche anno fa, la Puglia divenne teatro di una vera e proprio esplosione di narrazioni, cinematografiche e non…

Sì, io ho cercato di sottrarre il cinema cosiddetto "pugliese" alla dimensione campanilistica (col saggio "Ciak si Puglia: cinema di frontiera 1989-2001", Laterza, 2002, ndr) con l'idea che un sommovimento della Storia, cioè lo sbarco della Vlora (la nave albanese che giunse nel porto di Bari l’8 agosto del 1991 con ventimila migranti a bordo, ndr), a mio avviso l'evento più rilevante per la nostra regione dal dopoguerra a oggi, abbia sovvertito anche lo sguardo. Fino ad allora, infatti, la Puglia veniva percepita come una terra dimenticata, languida, "una terra assente", per dirla con Carmelo Bene. Improvvisamente, le coste pugliesi diventano approdo, terra promessa, qualcosa che negli occhi degli altri assume un aspetto completamente diverso da ciò che era riflesso nei nostri. La regione si trasforma nell'oggetto del sogno, l'inizio dell'Occidente, e non più la sua fine. Questo ribaltamento avviene quando cade il Muro di Berlino e con esso i regimi dell'est Europa, un evento che influisce anche sul racconto: la Puglia, infatti, da terra di saggisti, economisti, studiosi, si reinventa terra di romanzieri e cineasti, drammaturghi e musicisti, perché parte di una frontiera, e ciò che avviene lungo le frontiere è sempre interessante da raccontare (il cinema western ce l'ha insegnato bene). È lì che avvengono le storie, le narrazioni, quelle che parafrasando Chatwin possiamo definire "le vie dei canti".

Esiste una voce "pugliese" anche nei film di Fellini?

Be’, mi viene in mente che la dimensione "pugliese" del suo cinema, se così possiamo definirla, potrebbe essere quella offerta dalle musiche di Nino Rota, che ha vissuto oltre quarant'anni in Puglia, tra Bari e Taranto, il quale ha restituito nelle sue colonne sonore la festosità malinconica delle bande di paese, tipiche della nostra regione. Nelle marcette circensi di Rota, nei suoi finali malinconici, nelle sinfonie che imbastisce in accordo con Fellini, originate insieme ai film, c'è davvero molto Sud, trattato però non in senso macchiettistico, ma comunitario, come dicevamo prima, come parte di quella provincia-mondo che riesce a farsi testo, con un’attitudine antropologica.

Ecco, il suo saggio si sofferma più volte sullo sguardo da antropologo di Fellini, una caratteristica che però, come lei sottolinea, non gli è stata riconosciuta appieno, com'è accaduto, invece, a Pier Paolo Pasolini

Difatti, Fellini è un antropologo visionario, esattamente come Pasolini, solo che quest'ultimo è apocalittico, nostalgico, poiché rimpiange il mondo contadino rispetto alla società borghese, e lungo questo confine, questa ferita, di fatto muore, letteralmente, ucciso proprio dagli stessi "ragazzi di vita" che frequentava. In Fellini, c'è lo stesso sguardo da antropologo verso un'Italia che cambia in maniera repentina, però senza la dimensione del rimpianto; piuttosto, il suo sguardo è animato da una fortissima curiosità. Eppure, si tende a non attribuire alla curiosità felliniana uno statuto antropologico: si retrocede, invece, Fellini alla dimensione nostalgica, si sostiene che Fellini sia il cantore del mondo che fu, come in "Amarcord", oppure del glamour, come ne "La dolce vita", utilizzando i suoi stessi titoli contro di lui. Paradossalmente, in Fellini non c'è alcunché di “felliniano”, del grottesco o del nostalgico; al contrario, attraverso i suoi film, il Maestro ci ha mostrato un'Italia che cambia, senza rimpiangere il passato.





Il Maestro e il mare: Fellini tra Adriatico e postmoderno. Intervista a Oscar Iarussi