Ondacinema

Luca Zambianchi (classe 1992) si fa interprete e maschera del disagio di una generazione nella commedia autarchica "Quel che conta è il pensiero", sulle orme di Nanni Moretti. Ondacinema ha deciso di incontrarlo per una chiacchierata.

Eccoci qua. La visione di "Quel che conta è il pensiero" mi ha lasciato, più di ogni altra cosa, un senso di precarietà. Un tratto distintivo che mi sembra accompagni la nostra generazione, oltre che la tua persona: regista e pilota d’aerei, diviso tra Italia ed estero, prima di qua e poi di là…

È un aspetto che racchiuderei nel senso dello "scorrere del tempo". Il passaggio del tempo è una delle mie ossessioni. Lo vivo malvolentieri, anche se razionalmente mi rendo conto che le cose spesso cambiano in meglio. Eppure, sono ipersensibile al tempo e al suo passaggio negli altri, nei luoghi, in me stesso, nei capelli che cadono… però, malgrado il senso di precarietà e la malinconia, in "Quel che conta è il pensiero" c’è una componente di gioventù prorompente e di forte autoironia.

Nella storia del cinema la commedia malinconica ha una lunga tradizione, che ho ritrovato anche nella tua maschera. Un qualcosa dell’ironia di Woody Allen, della timidezza di Massimo Troisi, e ovviamente della spontaneità di Nanni Moretti.

Tutti riferimenti corretti. Aggiungo anche Jim Jarmusch e John Cassavetes. Jarmusch i personaggi li fa parlare poco, io tanto, ma mi riconosco nella sua idea di indipendenza come concetto produttivo, l’elogio delle cose lente e meno entusiasmanti del quotidiano. In Cassavetes mi riconosco molto per quanto riguarda il senso di necessità, l’idea di fare film ad ogni costo anche fuori dall’industria, e l’indipendenza dalla trama. I suoi film sono straordinari, ma la trama si potrebbe raccontare in poche parole. Infatti, è proprio tutto il resto che conta – l’umanità difettosa dei personaggi, le loro emozioni. Non che io abbia qualcosa contro la trama, però trovo avvilente l’impostazione scolastica dei manuali di sceneggiatura: la divisione in tre atti, l’imprevisto ogni "tot" minuti… lasciateci in pace.

Un modello su tutti?

Nanni Moretti. A volte, per un giovane auto-didatta come me, può sembrare impossibile confrontarsi con i soliti mostri sacri del cinema italiano. Moretti – e lo dico con estrema umiltà – è il primo cineasta che, grazie alle sue origini indipendenti di autore tuttofare e alla sua inquietudine esistenziale, mi ha permesso anche solo di pensare che anch’io potevo fare un film con pochi mezzi, con un gruppo di amici, una telecamera e un’idea forte. Sarò sempre debitore di Moretti, anche se lui non lo saprà mai… e va bene così.

Perché quel titolo? "Quel che conta è il pensiero" nel senso che quello che conta è il percorso e non il risultato?

Anche. Onestamente a questo non avevo pensato [ride]. Ho fatto molta fatica a scegliere, e alla fine ho scelto questo titolo perché si prestava a varie interpretazioni. Si può intendere con sarcasmo: il protagonista che vuole fare il regista teatrale e non ci riesce; la mia generazione che cerca uno slancio che non si concretizza… oppure, il pensiero è l’unica cosa che conta, il pensiero con la P maiuscola, di cui ci sarebbe tanto bisogno. In fondo, come mi ha detto uno spettatore una sera, il mio è un film di pensieri.

Il protagonista quanto ti somiglia?

Mi somiglia in alcuni aspetti, e in altri siamo diversi. Giovanni è un auto-sabotatore, uno che spesso si astiene dal volo per paura della caduta, un essere riflessivo a cui i conti non tornano quasi mai. Questi aspetti costituiscono una parte di me, come penso di tutti quanti. E poi, si tratta anche di una mia affermazione in antitesi verso un certo tipo di cinema, in cui l’eroe del racconto trionfa o comunque cambia… io trovo più interessanti le persone che fanno fatica a cambiare. Mi interessa questo mondo. E raccontarlo con ironia.

A proposito di volo… esistono affinità tra il mestiere di regista e quello di pilota d’aerei?

Uno sarebbe tentato di dire la fantasia, eccetera… invece, direi la disciplina. Quando sei in volo non hai tanto tempo per fantasticare. Sì, ogni tanto ti prendi trenta secondi per guardare il paesaggio, ma il punto in comune, paradossalmente, è la disciplina che entrambe le attività richiedono. Ho trasferito molto dall’uno all’altro. Realizzare un film di novanta minuti in venticinque giorni con un budget che normalmente si spenderebbe per girare tre minuti, con una troupe di due persone anziché di trenta, con amici attori non
professionisti, e senza poter "comprare" il tempo di nessuno, è uno sforzo che richiede molta disciplina e mentalità gestionale, oltre a molti favori.

La difficoltà maggiore nel girare un film così a basso budget?

Preferisco concentrarmi sugli aspetti positivi. Se da un lato un budget abbondante ti concederebbe una certa libertà e qualità tecnica, dall’altro ti spinge a giocare sul sicuro, a realizzare un film "standard". Prendersi libertà con tanti soldi sulle spalle non è facile. Un film indipendente a basso budget, come il mio, ti rende dipendente da tante cose, è vero. Hai tanti limiti. Ma ben vengano i limiti. E’ proprio dal confronto con i limiti che nasce la creatività. E il film stesso, a volte, prende una strada che non avevi immaginato.

Progetti futuri?

Sì, sto preparando un nuovo film, sempre sotto lo pseudonimo di Henry Whites Film insieme al mio socio e fonico Enrico Zattoni. Se "Quel che conta è il pensiero" è un ritratto dell’età universitaria; nel prossimo film mi concentro sulla soglia dei trent’anni, la fase della vita in cui mi trovo ora. Sarà una commedia. O almeno spero… parto sempre con le migliori intenzioni, poi diventa tutto malinconico [ride].

Sai come si dice, "la malinconia è l’allegria di essere tristi."

Non lo so ma mi fido.





Intervista a Luca Zambianchi, regista di