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Speciale "I cormorani" - Intervista a Fabio Bobbio

In occasione della prima padovana de "I cormorani" - vincitore del Premio della Critica al Festival "Shorts" di Trieste - abbiamo conversato con il regista Fabio Bobbio, che ci ha raccontato l'origine e i retroscena di uno dei migliori esordi italiani degli ultimi anni



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I cormorani" è un film particolare: come molto cinema recente si muove sul confine tra realtà documentaria e finzione, ma le tracce narrative sono così labili - pur essendo un film che racconta moltissimo - che mi sono chiesto quale sia stata l'idea di partenza. Avevi in mente un'immagine, che, poi, si è sviluppata? O ti sei lasciato guidare da una suggestione?
Per risponderti, devo fare una premessa: per diverso tempo ho avuto modo di lavorare in Spagna con alcuni registi che utilizzavano metodi particolari, sia nel lavoro con gli attori, sia nella costruzione del racconto. Ricordo in particolare il lavoro con Daniel Villamediana, regista con cui ho fatto "La vida sublime" - fotografia e anche montaggio. Sul set lui lavorava con un attore non professionista, che, però, aveva letto la sceneggiatura e doveva interagire con altre persone, che del film non sapevano nulla. Questo metodo creava uno strano miscuglio di realtà e finzione e mi affascinava molto. Da lì ho cominciato a pensare a come si potesse sviluppare.
Poi, una sera di circa quattro anni fa, ero a una festa paesana nel canavese, territorio dove "I cormorani" è stato girato - si tratta proprio della festa che si vede nella scena finale, perché ci tenevo che il film si chiudesse lì, dove tutto è iniziato - e c'erano questi due ragazzini, forse un po' più grandi di Matteo e Samuele, che prendevano in giro la gente che ballava in pista. Io ero lì a cena con alcuni amici e questa immagine dei ragazzi proiettata sugli adulti, che si comportavano come bambini ballando in  gruppo, mi è rimasta in testa. C'era tutta questa gente che si muoveva assieme, facendo gli stessi passi, in una situazione divertente, quasi grottesca. E lì mi sono emozionato, soprattutto perché la situazione mi ha ricordato quel momento in cui si fa il passaggio dall'infanzia all'adolescenza, quando sei ancora un bambino, però ti accorgi che qualcosa sta cambiando. E mi sono detto: sarebbe bellissimo poter fermare quel momento. Poi a metà cena i ragazzini sono entrati in pista, continuando a ridere, scherzare e prendendo in giro gli adulti. Hanno cominciato a ballare e per un attimo mi è dispiaciuto che avessero fatto quel passo, anche se, in realtà, lo abbiamo vissuto tutti ed è una cosa bellissima. Quello che mi interessava davvero, però, era la totale incoscienza del momento appena precedente.
Ora, io in quei mesi vivevo in Spagna. Quando poi sono tornato da Barcellona, ho cominciato a lavorare su due idee parallele. La prima era di carattere formale: quando ho parlato con i produttori gli ho subito detto che mi sarebbe piaciuto fare un film nei boschi in cui ero cresciuto, riprendendo, per tutta un'estate e con una piccola troupe, due ragazzini del territorio e vedere cosa sarebbe successo. Mi sembrava davvero che l'immagine dei due ragazzi e questa idea di cinema andassero nella stessa direzione. L'incoscienza dei ragazzi era la stessa incoscienza di chi lavora a lungo a un progetto, lo studia nei dettagli e poi, arrivato il momento di girare, si dimentica di tutto e va a istinto.
L'altra idea cui tenevo molto era che tutte le riprese del film costituissero un'avventura, non solo per i ragazzi - per loro è stata davvero un'avventura, un gioco di ruolo che è durato un'estate - ma per l'intera troupe.

Infatti, l'idea di avventura, declinata su più livelli, mi sembra uno dei motivi chiave del film. Anche se, forse, più che la storia di un'avventura, è una storia di avventurieri.
Sì, è proprio così. C'è un continuo movimento di scoperta. Ci siamo detti: vediamo cosa succede. Senza pensare alla meta finale. In un certo senso procediamo per piccoli obiettivi successivi, come fanno Matteo e Samuele nei loro giochi. Loro non hanno l'obiettivo di arrivare alla fine dell'estate per crescere. E tutte le volte che fanno un passo avanti è per poi farne uno indietro.

Un aspetto peculiare del film è il disorientamento che induce nello spettatore. All'inizio, in particolare dopo il prologo, si rimane in attesa che accada qualcosa, ci si chiede quale sarà il nucleo dell'azione. Poi, man mano che il film prosegue, ci si accorge di non essere più interessati alla narrazione e si rimane semplicemente lì a osservare rapiti questi ragazzi che giocano, ridono, conversano, ...
Sì, questo è molto bello (ride). In effetti con Matteo e Samuele ho usato un approccio che è pienamente documentario. Ma questo riguarda, in realtà, tutto il film, anche la ricerca delle location. Quando mi chiedono cosa ci sia di documentario e cosa di finzione, rispondo che l'intera architettura del film è documentaristica. Ho incontrato i ragazzi tre o quattro volte la settimana per due mesi, senza mai provare alcuna scena; quello che abbiamo fatto è stato semplicemente conoscerci. Volevo vedere come si muovevano, capire quali fossero i rapporti fra di loro. Ci siamo parlati tanto e mi hanno raccontato molto di quello che facevano, di come vedevano le cose. Lo stesso ho fatto io con loro. E' stato uno scambio di fiducia che è durato due mesi.

Come per cercare un punto di incontro tra il film e l'universo dei due protagonisti. Le conversazioni venivano registrate?
Sì, certo, tutto il materiale è stato registrato. Il direttore della fotografia era presente già dal quarto incontro e ha filmato tutto. Lavoravamo su due fronti: parallelamente al mio lavoro con i ragazzi, con il direttore della fotografia guardavamo tutto il materiale e prendevamo delle decisioni; capivamo, ad esempio, come si doveva muovere la camera e, più in generale, ci imponevamo delle regole, anche molto dure. Ci sono take che durano fino a quaranta, cinquanta minuti.

speciale_cormorani_4Questo mi fa venire una curiosità: dal punto di vista del lavoro sul set, come si capisce il momento in cui bisogna dire "stop"? Che la scena ha raggiunto l'apice e, forse, esaurito il suo potenziale?
E' una domanda difficile. Diciamo che in ogni scena che abbiamo girato sapevo quello che mi interessava, anche se non ero certo di trovarlo lì, in quel momento. C'erano delle cose di Matteo e Samuele che mi incuriosivano, ma il lavoro fatto sulla scena era totalmente istintivo. Mi prendevo dei momenti, delle mezz'ore, in cui riflettevo su quello che avevamo girato e ne parlavo col direttore della fotografia. L'importante era capire cosa avevano fatto Matteo e Samuele. Non cosa praticamente avevano fatto, ma come si era evoluta la scena - i rapporti fra di loro, i movimenti, i gesti - e nel momento in cui una di quelle cose che io sapevo che ci dovevano essere nel film veniva fuori, per me quella scena era buona.
Non era detto, però, che sarebbe poi entrata nel film, perché nelle pause di lavorazione io cominciavo a pre-montare le scene. Chiaramente le riprese potevano, poi, essere spostate, però intanto capivo quello che mi interessava. E molte di queste scene, anche se belle, venivano automaticamente escluse, perché scoprivo che una particolare ripresa non mi interessava, non, perlomeno, fatta così. Però nelle scene che toglievamo spesso c'erano cose importanti per il film, quindi dovevo indurre Matteo e Samuele a riproporle in momenti successivi, in altri contesti.
Per esempio, in molte scene che abbiamo girato i ragazzi parlavano di una certa Matilde o, comunque, delle loro fidanzate - forse ne avevamo già girata una prima di quella della capanna - ma non funzionavano del tutto. Si trattava di una scena possibile, abbozzata, ma che non aveva assunto piena forma ed era entrata in riserva.

Perché magari il dialogo o la situazione si erano sviluppati in un'altra direzione?
Certo, oppure non si svolgeva nel momento o nel luogo adatto. Quando, poi, abbiamo girato la scena sotto la capanna, ecco: per me quello era il momento giusto. La costruzione di un rifugio è, in fondo, un gioco infantile, e mi piaceva l'idea che, una volta entrati, la scena assumesse contorni più adulti e che  Matteo e Samuele parlassero dei loro amori. La difficoltà più grande era che non potevo dire loro: dovete parlare di questo; sennò sarebbe crollato il film (ride). Non volevo assolutamente fare un film scritto da un adulto e interpretato da due ragazzi. Ce ne sono molti costruiti in questo modo - e spesso si tratta di film che io stesso amo - ma non era questo che mi interessava.
Ora, la scena della capanna è formata da due take, uno da quarantadue e l'altro da quarantasette minuti, in cui i ragazzi cominciavano a parlare, ma poi finivano col vergognarsi un po' dei loro discorsi e la conversazione cadeva. In quel momento Samuele stava scrivendo a un suo amico. Allora io ho preso il cellulare, mi sono allontanato dal set e ho cominciato a scrivere a Samuele. Avevo l'ascolto in cuffia, quindi potevo sentire e controllare i tempi, che dovevano essere chiaramente tempi cinematografici. Gli scrivevo: prova a chiedere a Matteo questa cosa. E la reazione che ha Matteo nel film è totalmente naturale, istintiva, perché era all'oscuro del fatto che io stessi scrivendo a Samuele.

Nel corso del film le reazioni dei ragazzi sono bellissime.
È, in fondo, la cosa divertente di questo metodo, che, certo, può risultare anche pericoloso. Però l'avventura del film era proprio questa: reagire cinematograficamente a quello che avveniva sul momento. Per ogni scena, in base a quello che succedeva, prendevo in fretta delle decisioni che potevano funzionare oppure no. All'inizio ho detto alla troupe: questo è un film particolare, non pensate che andremo a girare e tutto quello che filmeremo sarà buono o che seguiremo un programma preciso.

Prima hai insistito molto sulla natura documentaristica del film e l'adozione di un metodo di lavoro così peculiare non può che accentuarne la componente di realtà. Ciò nonostante le tracce narrative, per quanto sottili, sono molto evidenti. La cosa bella è che in un certo senso il film si compone man mano che avanza, e del fatto che esista un soggetto - perché, in fondo, il soggetto esiste ed è anche molto chiaro - te ne accorgi alla fine, quando i fatti, così apparentemente vaghi e sfilacciati, finiscono col raccogliersi in un disegno unitario.
Sì, come se il film si costruisse da sé. Credo sia un'impressione derivata anche dalla mia esperienza di montatore e, quindi, dal fatto che ho una certa facilità, nel momento in cui qualcosa avviene sul set, a capire se mi servirà e come utilizzarla. Amo molto montare quei documentari che lavorano più sulle sfumature che sulla storia e, come montatore, quando ricevo del materiale che posso riscrivere al montaggio, beh, è la cosa più bella. È il momento in cui la passione ti porta a lavorare venti ore al giorno senza sentirne il peso.

Però un conto è riprendere due ragazzi nel bosco, un altro è dargli una struttura linguistica che funzioni, abbia un ritmo, segua un progetto.
Qui l'idea era di arrivare al montaggio con un materiale vivo. Avevamo blocchi di immagini legati l'uno con l'altro, ma intercambiabili. E io credo che questa impressione di scrittura per accumulo che tu hai notato fosse una delle idee di base: non raccontiamo una storia lineare, però ogni immagine deve rappresentare uno sviluppo.

speciale_cormorani_3Come a dire che questo tipo di improvvisazione può funzionare solo a patto di aver svolto prima un accurato lavoro di preparazione, in modo tale da poter capire all'istante - sul set - cosa funziona e cosa no.
Senza dubbio. Nonostante tutto il processo di lavorazione che c'è stato prima, nel momento in cui abbiamo cominciato a girare c'erano un mucchio di idee, decisioni e intuizioni che avevo dimenticato e che, poi, abbiamo ritrovato sul posto. E oltre a questo, non volendo fare il film di un adulto che racconta la storia di due ragazzini, ho lasciato sin dall'inizio molta libertà registica a Matteo e Samuele, così da non interferire troppo con la narrazione. In un certo senso "I cormorani" è stato davvero un film di istinto e questo istinto è precisamente la capacità di reagire a come reagivano Matteo e Samuele a quello che avevamo organizzato e di cui non erano al corrente.
Per esempio: la prima volta che Matteo è uscito per andare a chiedere il tariffario alla prostituta, nessuno si aspettava che avrebbe cambiato strada e sarebbe tornato nel nascondiglio; sono cose totalmente affidate al caso. In quel momento - questo lo dico rivedendo il film - era chiaro che noi saremmo dovuti restare con Samuele nel nascondiglio, ma sul momento la decisione è stata istintiva, pur derivando da un lavoro preliminare molto accurato. E queste decisioni a volte funzionavano, altre no.

Mi sembra ci voglia anche un grandissimo affiatamento tra tutti i membri della troupe.
Certo, eravamo veramente un branco che si muoveva assieme. L'attaccamento all'obiettivo finale era fortemente sentito da tutti. Quello che ho detto alla troupe è: dobbiamo giocare, come Matteo e Samuele. Ma attenzione, perché il gioco dei ragazzi è serissimo, ci sono delle regole fisse e se qualcuno le infrange non ci si diverte. Quindi dovevamo avere anche noi delle regole precise e solo dentro quel cerchio di norme potevamo essere liberi. L'importante era rispettarlo e, ovviamente, divertirsi.

In pratica la buona riuscita di un metodo tanto libero si basa sull'adozione di una precisa disciplina.
Proprio così. È veramente come un gioco tra ragazzi. Mentre montavo il film stavo leggendo un libro di Asor Rosa intitolato "L'alba di un mondo nuovo" e mi ricordo una frase bellissima: il gioco dei ragazzi è bello perché è serio. E questa cosa l'ho ritrovata nel film. Penso alla scena in cui costruiscono la capanna: in quel momento il film sembra trasformarsi e diventa quasi un film industriale. I ragazzi rimangono concentrati sugli aspetti meccanici della costruzione e sono serissimi nel loro lavoro.

Visto che l'hai citata, parlerei della linea narrativa della prostituta. C'è una scena, in particolare, che ho amato molto: quella in cui i due ragazzi, distesi sul divano con noncuranza, reagiscono all'apparizione di lei fuori campo. È un momento bellissimo, però mi sono chiesto: in precedenza l'avevamo sempre vista in campo lungo, oppure fuori fuoco, esclusa, come tutti gli adulti, dal mondo di Matteo e Samuele. E proprio lì, in una delle scene più belle e misteriose, scegli di farla vedere in un controcampo, che mi è parso dissonante per come si discosta dallo stile del film.
Non sei il primo a farmi questo appunto (ride). Allora, la scena era scritta così ed è stata una delle prime che mi sono immaginato. Quando pensavo al film avevo particolarmente chiara l'immagine successiva a questa scena, quella, cioè, della corsa in bicicletta e, in fase di montaggio, è sorto il dubbio se tenere o meno il controcampo. Mi è sembrato che, essendoci subito dopo la scena delle biciclette, che è molto particolare ed esce, in qualche modo, dal linguaggio del film, dalla sua forma, il passaggio sarebbe stato più completo se avessi tenuto il controcampo. In fondo in quelle tre scene c'è una sorta di sviluppo, un passaggio quasi dalla fase di realtà - in cui Matteo e Samuele si confrontano con qualcosa che gli sta accadendo di fronte - a quella fittizia della corsa in bici, che è girata come un videoclip.
Tra l'altro, in quel momento Matteo e Samuele non sapevano che la prostituta fosse un'attrice.

Sul serio?
Sì, sì. Con loro abbiamo lavorato come se fosse un gioco di ruolo. Le regole del gioco erano: noi vi proponiamo delle situazioni, le costruiamo attorno a voi sulla scena e con quelle voi dovrete interagire. Naturalmente ci sono anche cose, come la latta di vernice, che nessuno aveva pensato di sfruttare; quella la trovano loro. Nelle prime scene di guerra con le altre bande, Matteo e Samuele non conoscevano gli altri ragazzi; abbiamo girato per tre giorni facendoli mangiare in posti diversi perché non si mettessero in contatto. E all'inizio del film, quando loro cercano Walter, il ragazzo con la maglietta rossa, non sapevano nemmeno chi stessero cercando; quel giorno la regola era: oggi giochiamo a guardie e ladri, però non sapete se siete guardie o ladri. Noi ci spostavamo con la troupe nel bosco e io avevo dato ordine agli altri ragazzi con cui avevo già provato questo metodo, di nascondersi nel bosco e poi uscire all'improvviso, mentre Matteo e Samuele avevano l'obbligo di non potersi allontanare più di tre metri dalla telecamera. Poi da questa scena, che è la base, il contatto diretto con quello che c'è di reale, sono state girate tutte le parti in cui c'è uno sviluppo più preciso del racconto - anche linguistico, con immagini, ad esempio, più curate.

Si è parlato molto dell'atmosfera del film, spesso definita - in maniera, a mio avviso, impropria - fiabesca, laddove a emergere è più l'aspetto avventuroso, calato in un contesto sospeso, quasi trasognato. Forse l'equivoco è in parte dovuto al fatto che il film attinge a un nutrito patrimonio di immagini e suggestioni sia cinematografiche che letterarie. Ed è in questo modo che una piccola storia di provincia riesce ad assumere caratteri universali. Mi è capitato, di fronte allo spirito di certe sequenze, di pensare alle pagine di Salgari.
Ah, sì, durante la preparazione del film mi sono riletto molti libri sull'adolescenza, classici di Salgari, Mark Twain e molti altri. Tra i vari me ne ricordo uno che si intitola "Ruggine americana", di Philipp Meyer, un libro molto descrittivo, in particolare per quel che riguarda gli ambienti. Meyer - che è uno scrittore giovane, bravissimo, di cui ho molto amato anche "Il figlio", sebbene non sia un libro sull'adolescenza - è molto abile nello sfruttare i paesaggi del Midwest americano e questi ambienti di cui leggevo mi rimanevano in testa, anche se credo che facciano un po' parte dell'immaginario collettivo, delle idee che tutti abbiamo su quel periodo della vita. Tutti abbiamo visto "Stand by me", i riferimenti sono gli stessi.

In effetti gli ambienti del film sono costruiti su un continuo gioco di interferenze tra un paesaggio che è tipicamente italiano - coi suoi boschi, le strade sterrate o male asfaltate, i ponti - e
incursioni improvvise in scenari più astratti, difficilmente localizzabili.
Questa è una cosa di cui ho parlato tantissimo, soprattutto quando abbiamo presentato il film nel canavese, dove è stato girato. Una delle cose che tutti mi facevano notare è che quello del film è un canavese affascinante, ma non è quello che tutti conosciamo. In effetti a me interessava non tanto ricreare degli ambienti - anche perché i luoghi sono quelli, c'è pochissima post-produzione, ad esempio, sulla luce - quanto piuttosto immaginare, a partire dagli spazi in cui sono cresciuto, luoghi di fantasia, ambienti simili a quelli dei libri che ho letto e amato. Ci siamo molto divertiti, col direttore della fotografia, mentre cercavamo le location con i giusti riferimenti visivi. Magari trovavamo un'inquadratura che funzionava, ma poi, spostandoci di pochi metri, già entrava in campo la classica casetta piemontese anni Settanta e lì dovevamo fermarci per non far cadere tutto l'immaginario del film.

speciale_cormorani_2Mi sembra che il film sia anche legato a un preciso lavoro sull'Attesa, che è sia quella dello spettatore - di un evento che metta in moto la narrazione tradizionale - sia quella della troupe - di quel momento in cui la realtà si manifesta davanti all'obiettivo della macchina da presa per poterla catturare. In altri termini c'è un preciso lavoro sul tempo.

Sì, questo credo che abbia a che vedere con la provincia (ride). I tempi sono indicativamente quelli di Simone e Matteo, cioè i tempi della loro noia. Tutte le volte che cominciavamo a girare una scena uno dei principi che avevo era: devo riuscire a farli annoiare. Sapevo che nel momento in cui loro si fossero annoiati, avrebbero cominciato ad agire per uscire dalla noia, in altre parole: si sarebbero inventati qualcosa. Magari avrebbero cominciato a prendersi in giro, o creato dei giochi. Insomma, dovevano darsi degli obiettivi per riempire il tempo. Per esempio: nella scena del barattolo di vernice loro si stavano effettivamente annoiando e il crescendo del loro gioco che si vede nel film è stato davvero così, anzi a un certo punto li abbiamo dovuti fermare (ride). Figurati, fosse stato per loro avrebbero tirato giù il ponte!
Poi c'è da dire - e questo è un altro aspetto del gioco che ho tirato fuori dalla mia memoria - che quando hai quell'età arriva un momento in cui anche il gioco comincia ad annoiarti e allora si torna alla normalità. Il ritmo del film è proprio questo, cioè del gioco che cresce, si sviluppa fino a che la fantasia non si esaurisce e, infine, ritorna alla quotidianità.

C'è un momento, nel film, in cui lo spettatore prende coscienza del proprio sguardo e, d'altro canto, i ragazzi si mostrano consapevoli di essere osservati. Parlo della scena in cui uno schizzo d'acqua colpisce l'obiettivo della macchina e uno dei due protagonisti guarda in camera preoccupato. Mi è sembrata una bella chiusura per una scena piuttosto particolare. Hai subito deciso di tenere quell'inquadratura?
In realtà siamo stati per un po' in dubbio. Ti racconto com'è andata: la struttura di quelle due scene - l'incontro tra Samuele e Matteo sott'acqua, la loro attesa sdraiati a bordo vasca e poi l'uscita, con quel movimento di camera che copre tutto - era già pensata. Non lo sapeva nessuno della troupe (ride), però lo sapevamo io e i produttori e quindi le abbiamo girate in sequenza. Matteo e Samuele non sapevano neanche che sarebbero stati separati nel film; giravamo ogni tanto delle scene con Samuele da solo, ma loro non hanno mai avuto idea di cosa sarebbe accaduto. Altrimenti si sarebbero annoiati. Doveva essere una sorpresa continua, era importante che non tutto gli venisse spiegato; che lavorassero di fantasia, insomma. E quel giorno è stato, forse, uno dei più belli delle riprese: abbiamo fatto un picnic con tutta la troupe in riva al fiume, poi ci siamo tuffati in acqua. Il giorno dopo saremmo andati in pausa dieci giorni per permettere ai ragazzi di riposarsi e a noi di ordinare il materiale. Io avevo alcune idee abbastanza precise su quella scena, ma inevitabilmente erano le idee di un adulto. Parlando con i ragazzi le convinzioni che tu hai, pur non cambiando del tutto, si modificano. Matteo e Samuele mi hanno raccontato molte cose. Non solo loro, a dire il vero, perché il casting è durato tre settimane e abbiamo visto 150 ragazzi del posto. Più che un casting, è stato, per me, un dialogo con una generazione. E tutti i ragazzi mi raccontavano di quei momenti in cui, tra amici, si allontanavano per qualche tempo, perché magari andavano a giocare con altre compagnie. Quello che mi stupiva era che nei loro racconti, quando si rincontravano, in realtà non era successo nulla. Un adulto avrebbe elaborato razionalmente l'abbandono, mentre a loro, a quegli animaletti vivaci e istintivi che erano, non importava nulla. Si incontravano, si davano due schiaffi e poi: amici come prima. Vedi, allora, che quella era una scena molto importante, per quel piccolo sviluppo narrativo che c'è.
Nel momento in cui sono stati lì, chiaramente loro si sono annoiati e io sapevo che prima o poi uno dei due avrebbe fatto qualcosa. La scena l'abbiamo girata tre volte: la prima volta non è successo nulla, la seconda hanno cominciato a palare, forse di moto, ma non era interessante e poi, nella terza - in cui li abbiamo fatti annoiare parecchio - hanno cominciato a schizzarsi e Matteo, nella foga - avevamo sempre raccomandato loro di stare attenti alla camera - ci ha fatto questo regalo. Tra l'altro quello che era più vicino a lui era il fonico. Infatti Matteo prima guarda il fonico, poi verso la telecamera e infine me, come a dire: salvami tu (ride). Sul momento abbiamo cominciato a urlare come dei pazzi, l'abbiamo sgridato, perché comunque era un gioco e le regole dovevano essere rispettate. Poi il direttore della fotografia è venuto da me e mi ha detto: beh, questa la tieni, vero? Gli ho detto di lasciarmi pensare, ma alla fine è rimasta.

È anche un momento molto particolare, vi si introduce una rottura.
È stato effettivamente un regalo, perché è forse il primo momento in cui - dal punto di vista di quella sottile linea narrativa che muove dall'infanzia all'adolescenza - lo spettatore comincia a farsi delle domande, a chiedersi perché uno dei due ragazzi sia sparito e poi riapparso in modo così improvviso. E siccome tutto il film è giocato sul sovrapporsi di documentario e finzione, infanzia e adolescenza, spazio naturale e spazio colonizzato dall'adulto, mi piaceva che in quel momento anche lo spettatore prendesse coscienza del mezzo, del fatto che c'era una telecamera. E' stato un regalo di Matteo, e poi la scena era divertentissima, la faccia di Matteo era meravigliosa (ride).

"I cormorani" si distingue anche per un lavoro minuziosissimo sul sonoro. Ogni tanto, in sala, mi capitava di scambiare i sussurri dei protagonisti per mormorii di qualche spettatore, tanto la resa dei suoni era precisa e calibrata. Mi ricordo, poi, una scena, in cui Matteo e Samuele sono ripresi in campo lungo e le loro parole si percepiscono appena, per poi diventare sempre più chiare man mano che si avvicinano e i loro discorsi sovrastano i rumori della campagna.
Nel mare di appunti sul film che ho raccolto c'è un paragrafo in cui è scritto: narrativamente il film si sosterrà più per il suono che per quello che avviene. Il corpo lo abbiamo nell'immagine, però tutto quello che è narrativo deriva dal suono. Sul set ci sono stati Simone Olivero, Manuel Paradiso e Paolo Benvenuti, che sono stretti collaboratori di Frammartino e, quindi, arrivano già da un tipo di cinema simile, come approccio e come idea, a "I cormorani". È stato fatto, con loro, un lavoro documentaristico importantissimo sui luoghi reali, ma poi c'è stata una rielaborazione simile a quella che si sarebbe fatta per un film di finzione. Per me questo lavoro era estremamente importante. Ci sono momenti in cui il film cambia un po' registro linguistico, anche se in maniera non troppo dichiarata - si può dire che ci siano momenti quasi western - e questo grazie a una serie di elementi, tra cui la musica e soprattutto il sonoro. In altre parole: il suono mi permette di lavorare sulla fantasia dello spettatore, sul suo istinto, senza che se ne renda conto, perché non gli lascia il tempo di una elaborazione cosciente. Anche riguardo a questo punto, come per tutto il film, siamo partiti da un approccio documentario: i fonici hanno fatto un preciso lavoro sugli ambienti, sui tipi di uccelli; poi in fase di montaggio - grazie alla collaborazione di Tommaso Barbaro e Massimo Mariani - abbiamo lavorato su un impianto realistico, allontanandocene man mano a seconda di quello che ci suggeriva la fantasia. Ci siamo divertiti tantissimo, ogni tanto aggiungevamo un tucano, una scimmia in lontananza per studiare l'effetto che avrebbe creato.

Tra i vari film cui si potrebbe accostare "I cormorani", il più ovvio mi sembra "L'estate di Giacomo", di Alessandro Comodin.
Me l'aspettavo (ride).

L'hai visto?
Sì, è un film che ho amato moltissimo, mi ricordo che lo vidi a Milano mentre montavo "I corpi estranei" per Mirko Locatelli. All'epoca "I cormorani", pur non chiamandosi così, era già in bozza, avevo cartelle zeppe di appunti e scoprire che c'era un tipo di cinema che andava nella stessa direzione, che stavo percorrendo un sentiero in parte già battuto, che c'erano altre persone interessate a quelle stesse idee che mi affascinavano, è stato molto rassicurante. Però credo anche che siano due film abbastanza diversi, nonostante l'ambientazione simile.
Non mi ricordo chi ha scritto che l'idea del ritorno al bosco sarebbe comune ai due film, però, in realtà, mi sembra sia, più in generale, un'idea presente nella mia generazione. Del resto noi ci siamo trovati in mezzo a un cambiamento epocale, abbiamo attraversato la rivoluzione che dall'analogico ha portato al digitale e questo ha certamente creato un po' di smarrimento. Forse è per questo che la suggestione di un ritorno alle radici, al mito, è per noi così importante.

Effettivamente il ritorno allo spazio naturale è un elemento ricorrente in molto cinema contemporaneo di autori trentenni o quarantenni.
E non solo in Italia. Penso a gente che lo ha fatto prima e ha un po' segnato il passo, per esempio Lisandro Alonso, Albert Serra o Helena Klotz. Sono, anche i loro, film che lavorano su un immaginario adulto, portandolo, però, indietro, attuando quasi una regressione del punto di vista.

Scusa l'indiscrezione, ma tu conosci Alessandro Comodin? Ci sono contatti tra di voi?
No, no. Io sono un suo grandissimo ammiratore, però non ci siamo mai parlati.

speciale_cormorani_5Te lo chiedo perché a volte ho l'impressione che uno dei problemi del cinema odierno - non solo italiano - sia la mancanza di una vera comunicazione tra gli autori. Ci si incontra ai festival, se si ha tempo si scambiano due parole di apprezzamento, ma poi mi sembra che venga meno quel continuo scambio di idee che potrebbe alimentare la nascita non certo di scuole, ma di un discorso cinematografico comune, capace di rinvigorirsi nel tempo, oppure - perché no? - destinato a sfasciarsi, ma capace, in questa frantumazione, di suggerire nuove vie, forme, modi, sperimentazioni. Non parlo tanto di contatti o sodalizi, ma di una più ampia circolazione di idee, di cui, spesso, non trovo traccia. Come se ognuno si limitasse a coltivare il proprio orticello, indifferente al lavoro degli altri. È solo l'impressione di un esterno?
Guarda, questa è una cosa che mi affascina tantissimo. Io ho vissuto e lavorato in Spagna per sette anni e verso la fine della mia permanenza ho sperimentato la tendenza da parte di alcuni autori, soprattutto di questo tipo di cinema, a rimanere in contatto, scambiarsi le idee, pur senza mai formare un gruppo. Per me è stato un momento molto bello, anche perché sono uno a cui piace tantissimo parlare e tirare fuori idee. Qui in Italia conosco i film, ma non sono molti i registi con cui ho contatti. Però devo dire che in questi tre anni c'è comunque stato uno scambio di impressioni con altri colleghi. È successo, per esempio, a Trieste, quando siamo andati al festival "Shorts". Non so se hai visto "I racconti dell'orso".

Quello presentato al TFF? Sì, un esordio interessante.
Ecco, con Olmo Amato e Samuele Sesieri c'è stato uno scambio di idee e di impressioni molto importante. Forse i nostri film hanno delle cose in comune, sebbene siano stati girati e montati praticamente nello stesso momento. Oppure con Antonello Faretta, con i De Serio, con cui ci vediamo a Torino, nel Piccolo Cinema. Sì, io sono dell'idea che lo scambio di idee funziona sempre, anche in caso di opinioni divergenti.

Soprattutto quando si lavora in ambiti così vicini.
Oh sì, anche perché non pratichiamo un cinema che si ruba i posti in sala. Siamo quasi una nicchia, un piccolo gruppo. E poi aggiungo una cosa, che mi è piaciuta parecchio: alla prima de "I cormorani" a Roma sono venuti tutti i miei colleghi registi che ho conosciuto a Trieste e, dopo la visione, ne abbiamo parlato un po'. Insomma è stata una serata bellissima e questi confronti, questi contatti servono anche da sostegno, secondo me. Quando provi a immaginare un film che esce un po' dagli schemi classici, c'è sempre un momento in cui ti dici: ma cosa sto facendo? È lì che questo scambio ti permette un confronto che ti dà ancora più carica. Ti dici: bene, c'è qualcuno che la pensa più o meno come me. O comunque ti offre degli spunti su cui ragionare.

Fabio, ti ringrazio molto per la disponibilità. Ho solo un'ultima curiosità: stai già lavorando a un nuovo progetto?
In realtà sì, anche se penso che il mio prossimo film sarà un po' più scritto. Mi piacerebbe continuare a lavorare nel canavese, perché è una zona poco raccontata e piena di contrasti. È stata una zona agricola per tanti anni, poi è diventata una zona industriale e adesso, senza la Fiat, è quasi un non-luogo. C'è molto terziario, però è una fase storica in cui il rapporto col lavoro non è molto chiaro. Inoltre è una zona che conosco molto bene e mi sono accorto, soprattutto quando ero a Barcellona, che quando conosci una cosa è molto più facile avere un punto di partenza, anche solo pensare a un'immagine. E poi c'è questo lavoro di partenza dal reale che mi interessa molto. Sarà comunque una storia molto diversa: mi piacerebbe raccontare un personaggio adulto, anzi parlare del lavoro. Ci sto lavorando, però non ti anticipo niente, anche perché magari tra due mesi avrò già cambiato idea (ride).





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