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Diviso tra blockbuster di matrice hollywoodiana e opere indipendenti in stile art house, Denis Villeneuve è tra gli autori più influenti della sua generazione. OndaCinema ripercorre la sua carriera alla ricerca del vero capolavoro in una filmografia di altissimo livello

Non si può introdurre un autore come Denis Villeneuve e, soprattutto, una filmografia destinata a riservare una serie di trasformazioni tali da invertirne più volte il segno distintivo, senza mettere in evidenza i percorsi dello status artistico di un regista capace di integrare, con un punto di vista personale, il modo di intendere il cinema tipico dell'estetica del vecchio mondo con il pragmatismo spettacolare di marca hollywoodiana. Un modus operandi che è riuscito a rimanere se stesso anche quando, da "Prisoners" in avanti, Villeneuve è stato chiamato a cimentarsi con i gigantismi produttivi della Mecca del cinema. Così facendo, la capacità di replicare la violenza della storia in ambiti circoscritti e con toni intimisti (vedi "Polytechnique" e "La donna che canta"), diventa, a contatto con gli ingranaggi della grande macchina produttiva, il contenitore di un immaginario tendenzialmente incline ad aprirsi alle possibilità e alle insidie dei generi più iconografici, dando prova di sapersela cavare sia quando si tratta di calarsi nelle tenebre dell'inferno messicano di "Sicario", sia nel momento in cui decide di prendere di petto la fantascienza toutcourt, raccontando come fa in "Arrival" un incontro del terzo tipo. Interessato all'umano e agli aspetti più contraddittori delle sue manifestazione, il regista canadese è riuscito di film in film a mantenere inalterata la volontà di occuparsi delle persone, e quindi dei suoi personaggi, trasfigurandone sullo schermo tanto gli abissi interiori, quanto le ambiguità della prassi quotidiana. Sotto questo profilo le storie del nostro cineasta, da un lato assecondano una primaria esigenza narrativa sposata alle istanze di un cinema classico e divistico ("Blade Runner 2049"), dall'altro consentono l'affermazione di una posizione morale nella quale la salvezza può essere raggiunta solo a patto di perdere la propria innocenza. A rimanere inalterata, in questa ricerca d'armonia tra poetica d'autore e resa spettacolare, sono le immagini che Villeneuve ha sempre costruito a partire da un'idea di bellezza capace di trascendere anche le efferatezze più plateali della realtà, stabilendo con il mondo circostante un rapporto dialettico all'insegna della composizione di un ordine superiore. Non è un caso che Ridley Scott abbia pensato proprio a Villeneuve per l'ideale prosecuzione di una cifra stilistica inaugurata diversi decenni prima. 




9. UN 32 AOÛT SUR TERRE
(1998)

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Il mondo fuori

Un poster di Jean Seberg inquadrato a lungo, come un certificato di provenienza. Villeneuve all'esordio raccoglie polvere di Nouvelle Vague e la sparge a Montreal e poi nel deserto bianco di Salt Lake City, sulle orme di un amore banale e impossibile. Spazio neutro contro spazio connotato e tempo oltre il tempo: il 32 agosto è un'altra dimensione, lì a dire di qualcosa che non esiste, dall'incidente d'auto che apre il film al pestaggio che lo chiude permettendo alla storia di entrare nei ranghi del reale. A non esistere è il sentimento che vive di se stesso elidendo il mondo oggettivo, senza un esterno a erodere, testare, suscitare, rivelare, consolidare. Inciampare in un cadavere carbonizzato dà significato al rapporto di Philippe e Simone più di un proposito maldestro di fare sesso, e dietro l'esercizio di stile c'è già un regista che trova nell'entropia uno dei motivi del proprio cinema.

Matteo Pennacchia


8. LA DONNA CHE CANTA
(Incendies, 2010)

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Il melò che stona

Ultimo capitolo di una involontaria tetralogia a tema femminile, "La donna che canta" segna l'addio del regista canadese alle misure sperimentali del suo cinema precedente e l'accostamento alla frontiera statunitense delle grandi produzioni mainstream. In sostanza, il classico shock hollywoodiano viene anticipato e il peccato originale sta nell'aver reso dominante il tono del melodramma, che nel miglior Villeneuve si limita ad essere soltanto una delle tante vibrazioni. Come melodramma il film non è affatto spregevole (alcune sequenze meritano davvero lo sguardo del lettore non ancora spettatore!), ma ciò non basta a renderlo convincente e incisivo: il discorso sul male e la violenza intessuto in uno schema da detective story si risolve in una mini-saga familiare in salsa rosa. Come sempre, un campionario dei motivi ricorrenti di un'intera filmografia.

Alessio Bottone


7. MAELSTRÖM (2000)

maelstrom

Prove d'autore

Villeneuve insegue il suo cinema cercandolo in una storia d'amore resa stravagante dal fatto che la protagonista si innamora del figlio dell'uomo che ha accidentalmente ucciso. Le stranezze però non si fermano qui perché mentre l'azione si concentra sui dolori sentimentali della giovane Bibiane, a commentare ciò che vediamo è addirittura un pesce parlante, pronto a sentenziare ogniqualvolta il regista gliene lascia la possibilità. Ancora contaminato dai vezzi del cinema d'autore, Villeneuve sperimenta registri e soluzioni visive, tentando di stemperare il climax della tenzone amorosa con sprazzi di grottesco che tolgono compattezza al film. La convivenza tra bene e male e l'interesse per quello che si agita nell'inconscio dei personaggi anticipano temi e stilemi del prossimo futuro ma senza provocare il sospirato incantesimo.

Carlo Cerofolini


6. SICARIO
(2015)

sicario

Alice nel paese degli orrori

Alla sua seconda prova hollywoodiana, il québécois Villeneuve firma un tortuoso e cupissimo affresco sulla violenza e la corruzione della società contemporanea, ambientato in quelle terre di frontiera tra USA e Messico inaridite dalle atrocità perpetrate dai signori del narcotraffico. Un vero e proprio teatro di guerra, fotografato non a caso come l'Iraq di "The Hurt Locker" o il Kuwait di "Jarhead". "Sicario" è, dunque, un film di confine. O meglio un film sul confine. Non soltanto quello tra due Paesi e due lingue che si accavallano e si mescolano senza soluzione di continuità. Ma anche - e soprattutto - il confine etico tra lecito e proibito, tra corretto e opportuno, tra vendetta e giustizia, che anima il conflitto interiore di tutti i personaggi. Su questo crinale sottile si muovono l'idealista agente FBI Kate e il suo torvo consulente latino (un Benicio Del Toro gigantesco). Dolentemente in bilico (appunto) tra un presente rispettabile e un passato tormentato, è lui il cuore pulsante della pellicola, il burattinaio che tira i fili di un imbroglio inestricabile e guida lo spettatore verso un finale di fredda brutalità.

Stefano Guerini Rocco


5. ARRIVAL
(2016)

arrival

Fantascienza Zen

Solo su un primo livello di lettura "Arrival" si pone come odierno "Incontri Ravvicinati", proponendoci un diverso che, a dispetto di tutte le nostre paure, non viene per aggredirci. A un livello più profondo il succo sta non nell'incontro con gli alieni, ma nel loro dono: la capacità di leggere il tempo (passato e futuro) come un tutt'uno da accettare senza affanni. Non sarebbe necessario l'arrivo degli eptapodi: ce lo insegnano molte filosofie orientali. Non è un caso se la scrittura semasiografica degli eptapodi ricorda da vicino gli enso zen. Si tratta di una caratteristica visiva specifica del film, che non compare nel racconto "Storie della tua vita" di Ted Chiang: e in rete si trovano letture del film in questo senso. Se conoscessimo il futuro, vivremmo con più serenità e comprensione il presente. Siccome non conosciamo il futuro, il suggerimento è accettare con più comprensione i limiti del nostro destino, per vivere con più pace noi stessi (unica strada per immaginare pace anche con il "diverso"). "Arrival" prova a ridimensionare la concezione "interventista" dell'esistenza connaturata alla civiltà occidentale, che non è l'unico modo di affrontare la vita, e di certo non il migliore. Di questi tempi, scusate se è poco.

Stefano Santoli

Mind the gap

L'Islam, giustamente, vieta la rappresentazione di Dio. Più in generale, come si può pretendere di raffigurare il radicalmente altro da noi? Nel cinema, c'è riuscito solo "Stalker". "Arrival" si pone il problema di come comunicare con il completamente altro, ma prima di ciò deve dare la sensazione dell'alterità totale. E incredibilmente ci riesce con la scena più folle vista quest'anno al cinema, il salto da capogiro con cui la squadra umana mette piede sull'astronave aliena. Un cambio di prospettiva faticoso che giustamente induce un po' di mal di testa. Una scheggia di "Stalker" nel cinema commerciale del 2017.  Se questo non vi convince a vedere "Arrival" non so cosa possa.

Alberto Mazzoni


4. PRISONERS
(2013)

prisoners

Perdersi e mai più ritrovarsi

Pennsylvania, pioggia. Una popolazione preda e prigioniera di psicopatici, pedofili, psicotici, pozzi, preti e poliziotti che si scambiano sistematicamente i ruoli e passano da vittima a carnefice nello spazio di una stessa inquadratura. Due bambine spariscono da casa nel Giorno del Ringraziamento. Thriller ad alto tasso di dramma e abiezione che il talentuoso regista québécois alza in piedi non tanto con lo schema fin troppo didascalico della sceneggiatura, ma chiedendo agli attori di oltrepassare il personaggio e diventare maschera: tragica, ambigua, connotata dal corpo più che dalla parola. Film corale in cui svettano l'inquietante Paul Dano, l'enigmatico Jake Gyllenhaal, anche protagonista del coevo "Enemy", e il fido compositore islandese Jóhann Jóhannsson che ammanta il molesto paesaggio rurale con disturbati e "agghiacciati" glitch che amplificano il senso di smarrimento, l'impronta stessa del film.

Piero Calò

Un titolo programmatico

Potrà suonare stonato attribuire al titolo fino ad allora più commerciale di Villeneuve l'incarico di riassumerne con un solo sostantivo una filmografia che inizia a delineare oltre ogni possibile perplessità dei cardini da cui nessuno tra i suoi lavori ad oggi girati ha deviato. D'altronde come non intravedere nel polisemantico e straordinariamente ambiguo termine "prisoners" un minimo comune denominatore degli uomini e soprattutto delle donne che hanno scandito il percorso cinematografico del nostro? In effetti una condizione di coercizione grava su ogni personaggio, direttamente o meno. Ognuno, vuoi per un passato ombroso o un carattere rivelatore del lato peggiore dell'umanità, si vede incanalato su binari rigidamente diretti verso soluzioni estreme. Qui Villeneuve non si snatura, anzi affina il proprio bagaglio tecnico continuando a narrare storie che pongono in rilievo il destino matematicamente determinato dell'uomo e il suo essere sottoposto a situazioni limite. Con i suoi personaggi specchio di un'intera carriera, "Prisoners" è un titolo programmatico per il canadese quanto può esserlo "Sangue facile" per i Coen o "Le Iene" per Tarantino.

Ivan Barbieri


3. ENEMY
(2013)

enemy

"Ciao tesoro, sono la mamma"

In effetti Denis Villeneuve, prima ancora che in "Blade Runner 2049", aveva già messo in scena il contrasto tra un mondo cerebrale, architettonicamente complesso, e un uomo alla ricerca della propria identità: la Toronto di "Enemy" è una città ermetica, astratta, indifferente ai tormenti del suo protagonista esattamente come la Los Angeles del capolavoro di Ridley Scott. Adam Bell conduce la propria monotona esistenza trascinandosi stancamente di giorno in giorno, di amplesso in amplesso, di paranoia in paranoia: l'incontro con un uomo a lui identico è l'evento che aspettava da tempo, quello in grado di dare una svolta alla sua noiosa quotidianità. Ma se invece la vita del suo sosia, tale Anthony St. Claire, fosse una menzogna, un'invenzione, una messinscena (d'altronde, bisogna ricordarlo, non è niente meno che un attore cinematografico)? Sì insomma: e se Anthony e Adam fossero la stessa persona? Se fossero la rappresentazione esteriore di un conflitto presente nella coscienza di Jake Gyllenhaal, che si trova a dover scegliere con quale donna - la moglie o l'amante - continuare la relazione? "Enemy" in fin dei conti è anche la storia di un ritorno a casa, tragico ma inevitabile. Perché è proprio lì, a casa, che Adam deve stare: in trappola. 

Emanuele Richetti

La farsa e la tragedia

Secondo Marx i grandi eventi storici si verificano sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. Sta qui, in questa duplice natura, uno dei tratti tipici del doppio villeneuviano: un doppio che può percorrere due opposte traiettorie (talvolta L'Io si svela come Altro, talvolta nell'Altro si riscopre un Io), ma che rimane come una costante della sua filmografia: da "Maelström" a "La donna che canta", da "Arrival" a "Blade Runner 2049". Per questo "Enemy" non può semplicisticamente esser letto come la vicenda di un adultero che ritorna sui suoi passi per riabbracciare la moglie: in esso il tema dell'Altro è decisivo. Il protagonista si scinde: vive la tragedia, ma ricerca la farsa, diventa assieme burattino e burattinaio; il suo dissidio interiore si risolve in psicosi, in uno sdoppiamento che non metaforizza un narcisismo freudiano, ma piuttosto il congiungimento in un unico presente, di quelle due facce della storia che Marx poneva in un rapporto di continuità e che qui si riscoprono invece come coesistenti nello stesso individuo e nello stesso tempo.

Eugenio Radin


2. POLYTECHNIQUE
(2009)

polytechnique

Lo sguardo obliquo

La macchina da presa capovolta, una lunga carrellata in avanti, con il soffitto che diventa un piano astratto ribaltato. Così si chiude "Polytechnique", nel destabilizzare il senso delle cose. E più volte, in maniera insistite l'occhio di Villeneuve è ribaltato, storto, perpendicolare rispetto all'azione. È forse l'espediente più facile, ma efficace comunque, per descrivere il collasso di senso e significato che è insito nelle azioni di un "folle omicida" che si considera "persona razionale ed erudita". "Polytechnique" ha la capacità, e non è poco, di diventare universale dal particolare. Di raccontare un fatto di cronaca senza voler esser didascalico con i fatti. Che a un certo punto non sono più rilevanti nel loro essere realmente accaduti o meno. Perché il film porta avanti un discorso palesemente, e giustamente per chi scrive, femminista. Dove l'aggressività del potere (maschile ma solo perché sono gli uomini a ricoprire ruoli di potere) si manifesta in diverse forme: nel non dare spazio alla maternità, nel non aiutare il prossimo (gli uomini che escono dalla stanza del primo massacro), e nel rimorso post-traumatico.

Alessandro Viale

Memoria e Trauma

La follia misogina esplode nel 1989 all'École polytechnique di Montréal, quando Marc Lépine entra nell'edificio e uccide diciotto studentesse. Villeneuve mette in scena il trauma dei salvati e delle famiglie delle sommerse, effettuando un'immersione visiva senza ostacoli per il Male che scivola e colpisce indifferente, sotto una coltre di neve che blocca il tempo ed elimina lo spazio fisico, in un bianco e nero che avvolge la memoria di un intero paese. Visione fluida, morte fisica, in un equilibrio liquido tra forma e contenuto in cui il cinema si fa trasmutazione emotiva per colpire lo spettatore con la banalità del male.

Antonio Pettierre

Cubismo

Come insegna Picasso la deflagrazione della violenza distrugge lo spazio e annienta i colori. L'unica messa in scena possibile del femminicidio messo in atto nell'89 al Politecnico di Montreal è quindi un film cubista in bianco e nero. Tre prospettive personali - l'assassino, un uomo che forse è sopravvissuto una donna che forse non ce l'ha fatta - più di tre prospettive temporali. E innumerevoli prospettive spaziali, destabilizzanti, come se inclinando la testa per cercare di capire meglio quello che stavamo guardando ci fossimo trovati a testa in giù, o morti a terra. Eppure, l'essenza delle cose è semplice, come la frase che (rac-)chiude questo capolavoro.

Alberto Mazzoni


1. BLADE RUNNER 2049
(2017)

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E il digitale prese (un) corpo

Assecondando il dettato della grande produzione formato blockbuster, Villeneuve realizza un'opera dai connotati anfibi: una prosecuzione, ma anche una replica ribaltata dell'originale. Il protagonista, non più Deckard, tormentato detective da hard boiled, è il blade runner K, una nuova tipologia di replicante: consapevole e fedele finché non inizia - anche lui - a dubitare su di sé e sulla sua origine. Se Scott ragionava su antinomie classiche quali creazione/mortalità, umanità/artificialità, Villeneuve, dandoli per scontati, si concentra metacinematograficamente sul processo di digitalizzazione della realtà, mostrando il punto di sviluppo limite nel quale gli organismi artificiali reclamano lo status di umanità e il digitale anela alla corporeità. A ridimensionare i risultati ci pensano i difetti ormai tipici del blockbuster: lungaggini, ridondanze didascaliche, svolte di trama prevedibili e passaggi raffazzonati, riciclo di immaginari e idee altrui. Forse, però, era questo l'unico sequel possibile, realizzato da un metteur en scene che ricrea un mondo sagomando di forme e colori lo spazio, attraverso una regia geometrica che reifica il freddo e chirurgico sguardo del demiurgo e del replicante.

Giuseppe Gangi

Il futuro è già presente

Dopo il dramma degli esordi e il thriller della seconda fase, il canadese Denis Villeneuve entra in azione col genere fantascientifico. "Arrival", che doveva presentarsi come antipasto al ben più atteso seguito del capolavoro di Scott, è stato qualcosina di più di un semplice esperimento e Villeneuve ha avuto l'occasione di riconfermarsi un autore arguto e intelligente. Nel mezzo, la sfiancante attesa che ruotava attorno a "Blade Runner 2049", cinema che trasuda romanticismo nichilista, tristezza e alienazione con il bianco della neve, catturata meravigliosamente dalla fotografia di Roger Deakins, a sostituire l'oscurità e la pioggia di Scott. Ma questo "Blade Runner", seppur funzioni piuttosto bene a livello di personaggi e allegorie, non può essere paragonato alla scrittura del suo capostipite. Forse per sua colpa, forse perché non si riesce a scorgere un futuro diverso. In fondo, il futuro di Scott era davvero un profetico futuro. Quello di Villeneuve è già presente. Magari con un'amante-ologramma in meno.

Matteo De Simei

Teriosfera

Il rapporto con i robot ci costringe a rivalutare il nostro rapporto con gli animali, mi spiegò un amico: nel momento in cui vediamo intelligenza nel non-umano si aprono molte porte. Il "Blade Runner" di Villeneuve è un film perfettamente centrato sulla con-fusione contemporanea: non è possibile tracciare una linea tra un noi e un loro, ogni possibilità è racchiusa in ogni individuo. Il nuovo test non mira a distinguere tra esseri umani e replicanti, per quello ci illudiamo che basti l'occhio, ma per capire in che misura un replicante sta diventando umano. Non è più un test qualitativo, ma quantitativo, per stabilire una posizione lungo uno spettro in cui sia noi che i replicanti ci collochiamo. Per una civiltà per cui è normale andare a Las Vegas a vedere repliche di Parigi, che guarda spettacoli olografici di sosia di Elvis e film in cui il volto ventenne di Sean Young è incollato su una attrice di cui nessuno sa il nome, ha ancora senso sognare una distinzione netta tra reale e irreale?

Alberto Mazzoni





Speciale registi - Il miglior film di Denis Villeneuve