A pochi giorni dalla doppia statuetta conquistata agli ultimi Academy Awards, Ondacinema ripercorre la carriera del regista di Guadalajara, tra roboanti produzioni blockbuster e visionarie fiabe dark d'autore
Anche l'ultimo dei
los tres amigos, i tre registi messicani più conosciuti a Hollywood, ha ricevuto l'Oscar per il miglior film e la miglior regia. Gli stessi premi furono vinti da Alejandro Gonzalez Iñarritu nel 2015, che poi bissò la regia anche nel 2016, mentre ad Alfonso Cuarón toccarono miglior regia e miglior montaggio nel 2014.
La filmografia di Guillermo del Toro ha acquisito una dimensione sempre più personale nel corso della carriera, nonostante il continuo rimbalzare tra fiabe dark d'autore e produzioni blockbuster. Originario di Guadalajara, del Toro è approdato al lungometraggio nel 1993 con una produzione messicana, ma è solo dopo l'incontro con il fumetto americano che viene notato dal grande pubblico internazionale, grazie a titoli come "Blade II" e "
Hellboy". La scelta di eroi poco convenzionali al cinefumetto
mainstream costituisce una variazione sul tema del mostro, vero
leitmotiv della filmografia di del Toro. Un mostro che non attende dietro un'ombra di essere snidato, ma piuttosto si appropria dei propri spazi, come fanno i vampiri nella discoteca di "Blade II", oppure invoca la necessità della propria guida strappandola al mondo degli uomini, come accade in "
Il labirinto del fauno".
Ma la poetica del regista messicano si fa vividamente riconoscibile anche in tanti altri piccoli, significativi dettagli, come mostra la ricorrenza dell'insetto fin dai suoi esordi ("Cronos", "Mimic"), la compenetrazione del fantastico con la Storia ("
La spina del diavolo", "Il labirinto del fauno"), l'amore per le forme classiche dei generi cinematografici ("
Crimson Peak", "La forma dell'acqua"), costruendo attraverso essi un universo iconico dalla messa in scena vivida e tattile, anatomica nella sua precisa rappresentazione.
Nell'appuntamento che mette in classifica le preferenze della Redazione, l'approvazione per le opere di del Toro è eterogenea come la sua filmografia, come testimoniano bene "
Hellboy: The Golden Army" e "La spina del diavolo", due film agli antipodi, che si contendono il terzo posto a pari merito. Se le sperimentazioni muscolari, pur interessanti, di "
Pacific Rim" e "Blade II" convincono poco, maggiori riscontri vengono registrati dalle produzioni
action da grande pubblico. A incantare, però, sono le opere più sentite e personali come "Il labirinto del fauno" e "La forma dell'acqua".
9. MIMIC (1997) ex aequo
Scarafaggi
Dopo i vampiri di "Cronos" e prima dei fantasmi de "La spina del diavolo", del Toro si confronta con gli insetti più disgustosi del pianeta: gli scarafaggi. Ma a qualcuno piacciono, bisogna dire, come alla protagonista di "Mimic" (una bellissima Mira Sorvino), che quegli scarafaggi li studia per lavoro. "Mimic" è un b-movie ad alto budget dalla tipica impostazione hollywoodiana, a cui del Toro cerca di innestare gli stilemi tipici del suo cinema. Un b-movie ludico e dalla realizzazione altalenante, assolutamente insoddisfacente nella sua interezza. Il regista messicano non ha il final cut e si vede, dato che una conclusione così lui non l'avrebbe mai concepita, ma i mostri, le atmosfere e i momenti granguignoleschi sono suoi al 100%. Ci si può divertire, tra sequenze splatter, bambini uccisi e uomini sventrati, ma solo a patto di restare al gioco. Perché il film, in fondo, è meno orribile delle creature di cui tratta.
Emanuele Richetti
9. CRONOS (1993) ex aequo
Le Freak, C'est Chic
Declinando l'immaginario secondo le forme della fiaba gotica, "Cronos" contiene in nuce temi e stilemi destinati a giocare un ruolo di primo piano nella filmografia di Guillermo del Toro. Se la scelta del cinema di genere permette al regista di trasfigurare la realtà all'insegna della fantasia più sfrenata e citazionista, è anche vero che il mix di horror e romanticismo utilizzato dall'autore appare l'unica modalità per restituire la dimensione bigger than life dei personaggi di del Toro, tutti, buoni e cattivi, destinati spingersi oltre le barriere del visibile. Ed è proprio la necessità di allargare le maglie del reale per contenere la debordante diversità dei suoi protagonisti a guidare la mdp di del Toro qui, come altrove, protesa a unire tempi e spazi in apparenza inconciliabili. Così, se in "Cronos" il male arriva dal passato e risponde al desiderio degli uomini di sostituirsi a Dio, il cuore della storia è l'alleanza tra Jesus, l'antiquario deturpato dall'incantesimo che lo trasformato in vampiro, e la piccola Aurora, la nipote dell'uomo decisa a salvarlo dalle grinfie della morte, altro non sono che la rappresentazione di un'innocenza che i film di del Toro riescono sempre a restituire alla sua iniziale purezza.
Carlo Cerofolini
8. BLADE II (2002)
Monsters & Bo(tte)
Dagli insetti umanoidi ai fantasmi (della guerra) ai vampiri nell'arco di dieci anni, del Toro sale a bordo del progetto "Blade" da fumettaro impenitente. Con una mano schiaccia di nascosto i bottoni di quella che oggi riconosciamo essere la sua poetica, con l'altra sbatte avanti e indietro la manopola della truzzaggine vera, scherzando con la blackness del personaggio (e dello Snipes-attore). È tutto più techno, più gangsta, più cool, più Tekken rispetto al primo episodio. Il ragazzone venuto da Guadalajara dà lezioni di action movie ai gringos sparando a raffica contaminazioni anime e videoludiche, con gli scontri corpo a corpo spesso ripresi come in un picchiaduro. Ma dietro l'adrenalina parossistica, gli fx (notevoli, come al solito) e la retorica ad effetto, è ben visibile Guillermo: la sua capacità di mettere in scena la solitudine dei freaks (il magnifico mutante Nomak proietta l'ombra della tragedia), l'empatia per i mostri a qualsiasi natura essi appartengano, proprio perché, in quanto mostri, con la loro natura devono farci a botte più degli altri.
Matteo Pennacchia
7. PACIFIC RIM (2013)
I sette mecha-samurai
Il mondo come villaggio da difendere dalle razzie di mostruosi predoni animaleschi. Non il Giappone di
Akira Kurosawa, ma quello di Ishiro Honda con i suoi
kaiju eiga, teatro di Godzilla e fratelli; e poi quello dei
mecha nati negli anni Settanta, mescolanza delle varie declinazioni di robottoni sviluppatesi negli anni. Ecco i due universi scontrarsi e deflagrare in un
guilty pleasure fanciullesco, prepotentemente fantasy prima che fantascientifico. I mostri di del Toro, sia Jeager che kaiju, sono titanica carne da macello per battaglie vorticose e senza pausa, perfettamente equilibrati nel design, geometricamente leggibili durante le coreografie digitali. "Pacific Rim" elude qualsiasi complessità,
iper in ogni sua accezione, basta guardare la saturazione dei colori che risplendono nelle molte scene notturne. Lancia nella mischia bozzetti umani da fumettone a cavallo di macchine armate contro mastodonti terrestri, volanti e marini, senza paura del parossismo.
Diego Testa
6. HELLBOY (2004)
Sympathy for the Devil
Dopo il successo di "Blade II" (2002), del Toro realizza un sogno a lungo coltivato, ossia l'adattamento del fumetto "Hellboy" di Mike Mignola. Il regista lavora a questo primo capitolo realizzando una
origin story da manuale, passando dalla nascita del cucciolo di diavolo alle sue imprese oggigiorno. Del Toro non rinuncia né all'autoironia né alle atmosfere gotiche, ma deve abdicare al genere con una sceneggiatura convenzionale, giocata su situazioni prevedibili che ripetono lo schematico scontro tra Hellboy e i mostri, ingrandendo di volta in volta solo le proporzioni e le difficoltà del conflitto. Elemento originale ed essenziale per comprendere l'operazione del regista è la costituzione di un nucleo familiare alternativo e disfunzionale, dove Hellboy trova il suo
buddy nell'uomo anfibio Abe Sapien (che anticipa il design del "mostro" de "La forma dell'acqua") e la sua
love story con la piromante Liz Sherman. Con tali basi, del Toro approfondirà con più ambizioni l'universo di Mignola nel sequel "The Golden Army", che influenzerà palesemente James Gunn e "
I Guardiani della Galassia"...
Giuseppe Gangi
5. CRIMSON PEAK (2015)
A Ghost Story
Un'ereditiera con velleità da scrittrice, un baronetto in piena decadenza, una magione fatiscente che custodisce indicibili segreti. Reduce dall'action fracassone "Pacific Rim", il regista messicano firma un horror che sembra rifarsi al modello un po' desueto del romanzo gotico anglosassone. Vera protagonista della pellicola è la casa di Allerdale Hall, tutta spifferi e cigolii, esaltata in ogni sua spettacolare, magniloquente componente scenografica. Una casa che vive, respira, sibila e urla. Una casa che sta sprofondando letteralmente sotto terra (all'inferno?) e le cui pareti grondano sangue. Guillermo del Toro ce la fa esplorare gradatamente, un inquietante dettaglio alla volta, moltiplicando i giochi cromatici, le invenzioni stilistiche, gli stimoli visivi, le immagini perturbanti, le citazioni cinematografiche. È una vera festa per gli occhi: si procede per accumulo, in un'abbuffata visiva che, nonostante qualche grossolaneria in fase di sceneggiatura, non teme mai il kitsch né il senso del ridicolo.
Stefano Guerini Rocco
3. LA SPINA DEL DIAVOLO (2001) ex aequo
Un insetto intrappolato nell'ambra
La poetica cinematografica di del Toro, riconoscibile lungo tutto l'arco della sua produzione, raggiunge con "La spina del Diavolo" la sua piena maturazione autoriale. Se il tema del diverso, del mostro la cui presunta alienità rivela poco a poco la sua familiarità, era già presente nei due lavori precedenti del cineasta messicano, avviene invece qui per la prima volta l'incontro fondamentale con la Storia, la contaminazione dell'elemento realistico con quello favolistico. Qui la favola diventa elaborazione fantastica, rilettura poetica di un presente storico a cui è necessario far fronte. Tale rilettura è operata dalla prospettiva di uno o più bambini; diviene il mascheramento infantile di un trauma che è però reale: i piccoli protagonisti della pellicola reagiscono a un sopruso, così come la Spagna sullo sfondo reagisce al sopruso franchista. L'elemento fantastico si inserisce in tale prospettiva, aiuta a elaborare il trauma che del Toro però non risparmia allo spettatore, così come non lo risparmierà nel film successivo, che di tale poetica è il punto di arrivo più alto.
Eugenio Radin
3. HELLBOY: THE GOLDEN ARMY (2008) ex aequo
La solitudine dei numeri due
Basta un'occhiata superficiale a "Hellboy II" per rendersi conto di come confermi la regola del secondo film di un autore nel genere supereroistico: come con Burton,
Raimi, Nolan (e il sottoscritto aggiungerebbe provocatoriamente Zack Snyder) è la seconda pellicola all'interno di una serie di
cinecomic a distinguersi sia per completezza che per personalità, rispetto ad un genere da sempre tendente alla standardizzazione. Fortunatamente il cineasta di Guadalajara ha optato per evitare un terzo, paradigmaticamente disastroso, film. Dopo il successo internazionale de "Il labirinto del fauno" il regista messicano torna difatti alla saga del demone rosso traendone un doppio oppositivo: tanto oscuro, low budget (per gli standard del genere, ovviamente) e lovecraftiano era il primo, quanto colorato, fastoso e fantasy è "The Golden Army". Lo esplicita già il titolo, d'altronde. Vi è tutto ciò che esprime al meglio del Toro: la passione per i dettagli microscopici (gli insetti, le scenografie elfiche), l'orrore celato sotto la superficie dell'abitudine, lo spazio sempre saturo, la tragicità che la Storia costringe a subire, l'imprevedibile lieto fine che arride ai protagonisti, la solitudine come costante esistenziale. La medesima
loneliness che caratterizza questo film, emblema, unicum e cellula totipotente del cinema deltoriano.
Matteo Zucchi
2. LA FORMA DELL'ACQUA - THE SHAPE OF WATER (2017)
L'insostenibile leggerezza dell'acqua muta(nte)
La forma dell'acqua hegeliana diventa l'elemento fisico universale e la materia si solleva fino alla vita. Il flusso dell'acqua è la corrente psichica freudiana della nascita, dove la banalità del bene (dell'amore) sconfigge la banalità del male (dell'odio). È la vittoria del sogno, della favola di chi è diverso, di chi si sente diverso, la rappresentazione del sogno cinematografico, immagini che scorrono come le gocce sul finestrino di un bus notturno. L'acqua è la forma fluida della vita e del Toro immerge la macchina da presa nella sostanza del sentimento, nella leggera liquidità della luce e delle ombre, negli sguardi muti(lati) di esseri viventi (in)visibili, e prendono sostanza attraverso Eros e Thanatos. L'acqua riempie l'obiettivo in profondità e prende la forma dell'occhio dello spettatore, l'entrata principale nella sua anima. Il cinema che sconfina, che tracima, che affascina, che deborda, flusso di marea di silenziose immagini che amano e si fanno amare, nella muta(zione) del reale.
Antonio Pettierre
1. IL LABIRINTO DEL FAUNO (2006)
Il sonno della ragione genera mostri
Con "El laberinto del fauno" Del Toro completa il dittico sulla Spagna franchista già sviscerata ne "La spina del diavolo" cinque anni prima. Tocca alla piccola eroina Ofelia (l'eroe della pellicola del 2001 era anch'egli un bambino, Carlos) immaginare un mondo dove la fantasia lenisce l'angoscia e il dolore del reale. Insieme all'ultimo successo "La forma dell'acqua", fresco vincitore di Oscar, "Il labirinto del fauno" racchiude la vetta della poetica del cineasta di Guadalajara, vivida rilettura carrolliana, opera nella quale l'orrore non è quello mostruoso e rivoltante del mondo sotterraneo ma la cruda realtà marchiata dalla Storia (la bambina non si scompone dinnanzi al fauno ma è letteralmente terrorizzata in presenza del patrigno), che secerne continui input visuali indissolubilmente concatenati con la mefistofelica violenza figlia dell'uomo. I reiterati, martellanti proiettili che si conficcano nelle teste dei membri della resistenza racchiudono l'allegoria di un passato angoscioso, creatura senza occhi che si desta dal sonno della ragione in una magistrale e classicheggiante sequenza horror/splatter.
Matteo De Simei