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Speciale registi - Il miglior film di Spike Jonze

Attore, sceneggiatore, produttore, videomaker musicale e pubblicitario, ma soprattutto regista di alcuni dei film americani più interessanti degli ultimi vent'anni, Spike Jonze è il volto perfetto per riprendere i nostri speciali sugli autori più influenti del cinema contemporaneo d'oltreoceano.

Nonostante abbia solamente quattro film all'attivo, Spike Jonze (nome d'arte di Adam Spiegel), classe 1969, è sicuramente un regista molto amato, non solo dal grande pubblico, ma anche dalla critica e dalle istituzioni hollywoodiane, tra cui l'Academy, che lo premiò nel 2014 con l'Oscar alla miglior sceneggiatura originale e che lo nominò per diverse altre statuette nel corso della sua pur breve carriera. Non è certo facile redigere una classifica delle migliori opere di un cineasta con una filmografia così scarna, ma il fatto che ognuno di questi titoli abbia fatto presto parlare di sé e che taluni siano diventati dei piccoli cult, ha fatto sì che non lo si potesse escludere da una serie di speciali sui registi che più hanno influenzato gli ultimi vent'anni di cinema americano.

Prova ne sia il fatto che ognuno dei quattro film in questione abbia raggiunto il primo posto almeno in una delle classifiche dei singoli redattori e che, a livello di punteggi, non ci sia stato uno scarto così considerevole tra le varie posizioni. Ma se dal risultato finale è possibile trarre una qualche conclusione, si può far notare come i posti più prestigiosi siano occupati da quei titoli che rappresentano l'esordio di Jonze e il suo sodalizio con lo sceneggiatore Charlie Kaufmann (ora a sua volta divenuto un ottimo regista). La distribuzione dei meriti nella riuscita di queste due pellicole ha fatto in effetti discutere la nostra redazione, ma se ne "Il ladro di orchidee" la penna di Kaufmann sembra imporsi e prevalere, in "Essere John Malkovich" l'occhio di Jonze ha una maggiore possibilità di espressione, ed ecco spiegata la nostra prima posizione.

Non si deve tuttavia pensare che i titoli che rappresentano la coda di questa breve graduatoria, siano da noi considerati opere di poco valore, come ben spiegano le pillole dei redattori che ne hanno voluto parlare: ci sembra, tutto sommato, che Jonze non abbia ancora mai sbagliato veramente un colpo e gli auguriamo che sappia ancora in futuro produrre opere capaci di far parlare di sé e di riscuotere meriti e successi.
E ora, come sempre dall'ultima posizione per arrivare in vetta alla classifica, partiamo!


4. NEL PAESE DELLE CREATURE SELVAGGE
(Where the Wild Things Are, 2009)

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Let's the wild rumpus start!

Spike Jonze parte da un testo fondamentale, un cult e probabilmente un capolavoro dei libri illustrati, sul quale in tanti avevano messo gli occhi addosso in passato. E, in collaborazione con Dave Eggers, scrive una sceneggiatura miracolosa. Perché uno degli aspetti più interessanti di questo film è il legame fra originale e elaborato, dove la brevissima storia viene sì gonfiata, ma senza stravolgere o "aggiungere" nulla. Non stupisce quindi che Sendak abbia dato il via libera solo a Jonze. Nel paese delle creature selvagge è un film delicato, che racconta la rabbia e l'immensa malinconia di un ragazzino (dell'essere ragazzino) attraverso la metafora perfetta. Pochi altri film hanno sviluppato quella delicatezza, quella capacità di stare ad "altezza" bambino e di immergersi pienamente nel mondo interiore. Ovviamente la sintesi estrema che era sul libro un punto di inarrivabile profondità (la chiusura che recita "and it was still hot" racchiude un universo) qui è stata ampliata, ma con un'accortezza davvero unica.
Alessandro Viale

I turbamenti del giovane Max

Dopo aver trasposto le cervellotiche sceneggiature di Charlie Kaufman, Spike Jonze decide di adattare, insieme a Dave Eggers, il celebre libro per bambini "Nel paese dei mostri selvaggi", racconto dolcissimo - e sottilmente inquietante - sulla fuga del piccolo Max in un mondo di creature fantastiche. "Where the Wild Things Are" (questo il titolo originale), cercando di riprodurre l'ingenua anarchia del suo protagonista, rifugge ogni schema narrativo in favore di un incidere libero e scanzonato: Max prima combatte con la dura realtà quotidiana (i primi quindici minuti di folgorante naturalezza, quasi a voler prendere programmaticamente le distanze dal surrealismo kaufmaniano), poi, nel contraddittorio microcosmo bestiale, assiste a episodi che squarciano il cuore per la loro violenza (l'arto reciso da Carol al migliore amico) o per la loro dolcezza (la dormita del primo giorno, ammassati l'uno sull'altro). Il punto di vista straniante dello sceneggiatore di "Essere John Malkovich" è lontanissimo: Jonze analizza, con grande sensibilità, le fragili psicologie del mondo maschile e di quello femminile; rappresenta, attraverso dettagli apparentemente insignificanti, i turbamenti emotivi portati in grembo dall'età della giovinezza. Imperfetto ma sinceramente toccante, "Nel paese delle creature selvagge" costituisce, a oggi, la prova migliore del talento del regista statunitense: basti osservare - e lasciarsi trasportare - dal peso di quegli sguardi, finalmente ricongiunti, che si scambiano madre e figlio sul finale: un campo-controcampo che vale intere filmografie.
Emanuele Richetti


3. LEI
(Her, 2013)

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Amour Fou

Un uomo introverso e un sistema operativo di nuovissima generazione in grado di parlare, pensare e interagire come un essere umano. Grazie a una scrittura di sorprendente finezza e misura, Jonze evita ogni banalità sociologica e ogni deriva moralistica sull'alienazione dell'uomo contemporaneo per tessere la più bella, intensa, originale storia d'amore dell'ultimo decennio. Theodore e Samantha imparano a conoscersi, diventano complici, si innamorano follemente e teneramente, si scontrano, diventano estranei, si lasciano, seguendo una parabola comune alla maggior parte delle avventure romantiche. Come quella, ormai giunta al capolinea, tra Theodore stesso e l'adorata ex moglie, il cui ricordo irrompe spesso nelle malinconiche giornate del protagonista. Una presenza incorporea e un'assenza assolutamente fisica, dunque, che si alternano e si sovrappongono fino quasi a confondersi in un'unica emozionante incursione in quella che, ci ricorda l'autore, è la sola forma di follia socialmente consentita.
Stefano Guerini Rocco

Camminare da soli e ancora da soli

Viene difficile prendere Spike Jonze sul serio se si pensa a lui come co-creatore di "Jackass", ma se si guarda alla sua filmografia gli si riconosce il merito di aver portato sullo schermo con il giusto equilibrio due sceneggiature di Charlie Kaufman, la cui presenza autoriale è decisamente ingombrante. E dopo essersi staccato da lui e dai lavori precedenti con "Nel paese delle creature selvagge" scrive e dirige  "Lei". La solitudine e le ossessioni hanno sempre fatto parte del suo cinema, ma prima c'era appunto Kaufman a partorire incubi e labirinti mentali struggenti e desolanti. Scopriamo che Jonze ci riesce anche da solo, costruendo (complice la musica degli Arcade Fire) un futuro tecnologico asettico, dove i sentimenti si compilano come programmi, dove si interagisce con un sistema eppure si finisce comunque per soffrire, come se fosse un implacabile, inguaribile destino per l'uomo. Tante volte le separazioni al cinema sono state raccontate in diapositive-ricordi, ma qui fanno particolarmente male. Superbo Joaquin Phoenix che riempie lo schermo come pochi eppure restituisce tutta l'umana fragilità del personaggio.
Davide De Lucca

Love Will Tear Us Apart (Again)

L'intelligenza potrà anche essere artificiale ma le angosce dell'amore restano le medesime; un uomo che rifiuta una relazione di carne e di ossa per il terrore di essere tradito, ne intavola una con un software che si innamora contemporaneamente di 8.316 individui, e il dolore è lo stesso. Pessimismo virato al rosso, colore dominante del film che è la rabbia senza sfogo di un Joaquin Phoenix schiantato prima, durante e dopo, quando inizia a vedere un futuro possibile, ma dall'alto di un troppo invitante grattacielo.
Piero Calò

The Love Network

Aggiornava il suo profilo Facebook freneticamente, nella speranza di notificare l'"amicizia" tanto agognata. Già il sulfureo finale di "The social network", con Eisenberg-Zuckerberg vittima della sua stessa creatura, già divenuto specchio di un'epoca intera, aveva messo a fuoco le disperate incongruenze di un'umanità connessa a tutto e con tutti, eppure impregnata di una solitudine malcelata dal vir(tu)ale proliferare di like e nuove "amicizie". Spike Jonze, che aveva dato concretezza alle sceneggiature di Kaufman, qui si mette in proprio e rielabora l'amore e le nevrosi contemporanee servendosi della tecnologia. Ne viene fuori un'opera anomala che può soddisfare il cinefilo come tediarlo: il rapporto con la modernità è ambiguo ma in un certo senso già visto, sebbene la solitudine espressa da Phoenix (non lontano dal Cage de "Il ladro di orchidee") non possa lasciare indifferente soprattutto chi è cresciuto a contatto con l'universo di Internet. La fotografia di Von Hoytema (replicando le tonalità pastello delle app e dei social più in voga?) confeziona un'opera che si fatica a decidere se sia geniale o banale. Troppo o troppo poco per un artista come Jonze?
Ivan Barbieri

L'amore ai tempi della tecnologia

Celebrato autore di videoclip, Spike Jonze è dall'anno del suo debutto cinematografico ("Essere John Malkovich", 1999) regista multiforme, incostante, fuori fuoco ma capace di restituire sprazzi di tutto riguardo. "Lei" è il suo film più impiantato nella contemporaneità, nella metropoli, in una nevrosi forse impossibile da radiografare in un'ottica filosofica ed è proprio questo l'azzardo principe della pellicola. Bisogna ad ogni modo fare i conti con la tecnologia, ormai già digerita, già protagonista di postumi (che si rigeneranno poi). E, dunque, se fare un film sulla tecnologica che assoggetta coscienze ed emozioni dell'uomo contemporaneo non è una novità, Jonze vuole andare al di là e donargli una poetica che può dirsi imparziale, al punto che le parole liberate dall'OS Samantha ci paiono provviste di un calore che quasi si direbbe proprio dell'essere umano. Non vi è dubbio che il nocciolo della questione finisca per esaltare l'unicità che una macchina mai potrà offrire e che il Theodore interpretato da uno Jaquin Phoenix davvero ammirevole finisca con misura per accettare la realtà dei fatti (dei sentimenti), ma il film di Jonze, che pure non sempre ha il dono della sintesi, non spara facili giudizi né morali ovvie. Ma racconta il tutto come fosse un'autentica storia d'amore.
Diego Capuano

Essere Theodore Twombly

"Lei" è una favola in cui il bisogno di affetto appare talmente universale da contagiare persino le macchine, capaci pure loro, come Samantha, di soffrire per amore. Lungi dallo stigmatizzare qualcosa di ovvio (la digitalizzazione amplifica la solitudine, blandisce il conforto garantito dallo star soli), Jonze si concentra sul bisogno profondo di instaurare contatti intimi e non superficiali, e lo fa mettendoci in condizione di empatia con Theodore che pure reale non è, per noi, esattamente come, per lui, non sarebbe reale Samantha, eppure esiste. "Lei" ci proietta dentro Theodore come fosse lo spazio interiore di John Malkovich nel film del 1999. Dentro di lui ci troviamo intrappolati come Samantha è a sua volta intrappolata dentro un sistema operativo eppure aspira, prima che a una fisicità, a una dimensione propria di libertà. ...In fondo, cosa si nasconde dietro la disumana pletora di relazioni amorose stabilite dai sistemi operativi come Samantha, se non un irrefrenabile bisogno di contatto, di affetto, di amore?
Stefano Santoli

It

Lo spunto è banale e la confezione è eccessivamente patinata, ma il risultato finale è comunque interessante. L'inizio è simpatico - il mondo futuristico è non banale e visivamente ben congegnato, e alla sua efficace descrizione contribuiscono particolari come la donna incinta nuda, il videogame scurrile e quello con i bambini iperattivi. L'entrata in scena del sistema operativo è invece un pò scontata, per chi abbia visto almeno un paio di film sul tema, e la messa in scena delle deviazioni sessuali è curiosa ma veramente troppo di maniera. Piano piano però  alla scoperta delle affinità tra essere umano e sistema operativo si sostituisce l'emergere di una radicale alterità. Lei (esso) è delocalizzato, non costretto all'interno di un corpo che invecchierà e morirà. Soprattutto a lei (esso) tale alterità piace, viene vissuta come superiorità. Bellissime in particolare le scene del protagonista smarrito in un bosco innevato. E' lo stesso aldilà dell'incipit di "Biutiful" di Inarritu? Chissà. Peccato che il contrappeso di questa deriva astratta siano flashback dell'"amore reale" che paiono pubblicità del cellulare o del cornetto o della birra. Ma forse davvero non c'è nessuna realtà originaria a cui tornare.
Alberto Mazzoni


2. IL LADRO DI ORCHIDEE
(Adaptation, 2002)

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Un'intricata catena di ossessioni

Quando Jonathan Demme chiese a Charlie Kaufmann di trasporre per il grande schermo il saggio "The Orchid Thief" della giornalista americana Susan Orlean, probabilmente non si aspettava questo risultato. Non riuscendo a trasformare in sceneggiatura il lavoro della Orlean, Kaufman scelse infatti di mettere nero su bianco il resoconto del blocco dello scrittore che lo affliggeva e di liberarsi in tal modo di esso. Da tali premesse segue un intricato labirinto di livelli narrativi e di myse en abyme che fanno de "Il ladro di orchidee" uno dei capolavori della contemporanea scrittura cinematografica. L'ingarbugliata vicenda ivi narrata diventa allora principalmente il racconto di un'ossessione su più piani: l'ossessione di Laroche per quei fiori proibiti che danno il titolo alla pellicola; l'ossessione della Orlean per Laroche; l'ossessione di Kaufman per una sceneggiatura impossibile, trasformata grazie a un colpo di genio in un grandioso puzzle narrativo. E se il merito maggiore va senz'altro allo sceneggiatore (rivelatosi di recente anche ottimo regista), Spike Jonze sa fornire da parte sua interessanti soluzioni narrative al tutto, riuscendo a tenere le redini e a rendere equilibrato e comprensibile un racconto di tutt'altro che facile resa.
Eugenio Radin

Il ladro di storie

Impossibile è negare la positività della collaborazione fra il cervellotico ed egocentrico sceneggiatore Kaufman e l'ex autore di videoclip Jonze, autori di un dittico di opere fra le più influenti del cinema hollywoodiano a cavallo fra i due millenni. Ormai usuale per la critica è discutere su chi dei due sia il "vero" autore dei suddetti film, così come riguardo le motivazioni per le quali il primo sarebbe da preferire al secondo o viceversa. Come si sarà capito il sottoscritto predilige (di poco) "Il ladro di orchidee". Fosse soltanto per le ottime interpretazioni dei vari attori principali (Cage valido come solo in un'altra manciata di occasioni), per il gustoso (perché coscientissimo) sprofondare nella "cattiva" sceneggiatura e per la smodata autoreferenzialità dello sceneggiatore. Jonze tenta di accompagnare ma la regia stricto sensu è una delle cose meno memorabili della pellicola. Da tale punto di vista questo cercatore di storie farà meglio in seguito, quando avrà maggiori possibilità di intervenire sugli script, fino ad un Oscar alla miglior sceneggiatura che spinge per l'ennesima volta a constatare l'inscrutabilità delle scelte dell'Academy.
Matteo Zucchi

Da dove comincio?

Charlie Kaufman viene assunto per sceneggiare il libro della giornalista Susan Orlean "The Orchid Thief" ma non riesce a trovare la chiave giusta, il registro consono, una linea narrativa forte: vive (male) il blocco dello scrittore. Così scrive una sceneggiatura sul suo fallimentare tentativo di sceneggiare l'opera della Orlean, inventandosi di sana pianta un fratello, Donald, co-sceneggiatore. I diritti erano stati rilevati da Jonathan Demme e il lavoro rimane in ballo per qualche anno, finché Spike Jonze che ha appena collaborato con Kaufman in "Essere John Malkovich" non decide di dirigerlo.  Jonze completa una sorta di dittico che, grazie alle sceneggiature  complesse e multilivello di Kaufman (al contempo al lavoro con Michel Gondry), costituisce lo Zeitgeist del cinema post-moderno di inizio millennio. "Adaptation" non è solo purissimo calembour metacinematografico, con Nicolas Cage che si destreggia impacciato sul set di "Being John Malkovich", bensì una lezione di scrittura e di regia sul fallimento di un certo tipo di cinema, quello che non vuole edificare, non vuole sublimare un messaggio, non vuole provocare una catarsi (almeno classicamente intesa). È questa l'ambizione di Kaufman, dentro e fuori il suo personaggio, e Jonze qui lo segue adattandosi alle pieghe delle sue nevrosi: l'uso introflesso della voce fuori campo di Charlie che si dice di non sudare di fronte alla produttrice, mentre l'inquadratura mostra un orrido sgocciolamento; le scene davanti allo schermo bianco da riempire di parole, mentre il protagonista si chiede se non sia meglio fare prima uno spuntino oppure iniziare a lavorare per poi premiarsi. E ancora la decisione capitale: "da dove iniziare?", ed ecco una serie di scenari ipotetici montati velocemente come un videoclip che si sublimano nell'idea di iniziare con l'inizio del mondo, la rappresentazione dell'evoluzione, l'avvento dell'homo sapiens. Una ricerca dell'origine che è la ricerca delle origini dell'ispirazione artistica che, in certi casi, non si può ricavare o non si svolge secondo i canoni del cinema hollywoodiano. Non è un caso che "Adaptation" diventi via via più sconnesso, assurdo, un film-freak che tradisce se stesso impartendo una lezione di vita al povero protagonista.
Giuseppe Gangi

L'arte cinematografica tra furto e adattamento

Adattamento o furto? Cosa fa uno sceneggiatore in crisi dopo un film di successo? Charlie Kaufmann (il vero) diventa schizofrenico e si sdoppia in un fratello gemello (il finto) e si fa mettere in scena dal suo amico Jonze in un'opera sulla creazione artistica, sulla sopravvivenza umana, sul delirio di onnipotenza, sull'impossibilità di raccontare la realtà senza tradirla, adattarla, plasmarla, renderla materica a immagine di se stesso. In una mise en abyme letteraria e cinematografica, si compie un viaggio psichedelico all'interno della mente dello scrittore, dove si assiste alla visione dell'idea originale e alla sua clonazione, all'alternanza tra arte e commercio. Così come il personaggio di Laroche (il ladro di orchidee) naturalista e, appunto, ladro, idealista e assassino. Il bene e il male, che si confrontano, si inquinano a vicenda, si accoppiano, in una copula metafisica. Cinema come messa in scena della creazione, Cinema come rappresentazione della parola, Cinema come risoluzione di una crisi esistenziale attraverso strumenti ripudiati. L'arte salvata dai meccanismi della narrazione.
Antonio Pettierre


1. ESSERE JOHN MALKOVICH
(Being John Malkovich, 1999)

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La vita degli altri

Sindrome premillenaria: il 1999 è l'anno del cinema degli alter ego, dei personaggi che si ribellano alla propria forma permanente, degli universi-matriosca. Da "Eyes Wide Shut" a "American Beauty" fino a "Fight Club" e "Matrix", tutti cessano o desiderano cessare di essere chi sono per incarnare qualcun altro, un'eversione-evasione identitaria spesso pagata a caro prezzo. Spike Jonze, alter ego di Adam Spiegel, salta dai videoclip a Charlie Kaufman nel più pirandelliano dei film del filone, in quello più esplicitamente metacinematografico, riuscendo a trovare la grazia di un equilibrio complementare fra ricchezza di scrittura e fluidità di visione. Nella love story metafisica rimane intonsa la fitta, nevrotica complessità delle intersezioni di Kaufman. Dentro lo spazio fuor di sesto del logorio fra persona-Malkovich e personaggio-Malkovich non si discute solo lo status di celebrità; vi nasce una vertigine che fa tremare le dinamiche dell'immedesimazione e scomoda le posizioni di autore, spettacolo e spettatore in merito all'intera macchina filmica e al corredo (implicito o paratestuale) che ne determina prima la creazione, poi la fruizione.
Matteo Pennacchia

Essere Spike Jonze

Spike Jonze, nome d'arte di Adam Spiegel, è stato uno dei registi di video musicali più influenti dell'ultimo ventennio. La lista delle band e dei cantautori intrappolati nei suoi videoclip (alcuni famosissimi come "Buddy Holly" dei Weezer) è impressionante. Nel 2000 crea insieme a Johnny Knoxville e Jeff Tremaine la serie televisiva Jackass, dove un gruppo di cazzoni autolesionisti cercano in ogni modo di rischiare la pelle. Appena l'anno precedente, in preda a un febbrile e imprevedibile stato d'eccitazione autoriale, diresse il suo esordio alla regia, "Essere John Malkovich". Il film non può che risultare uno dei più creativi e affascinanti esperimenti sul mezzo cinematografico ma gran parte del merito lo si deve al cervellotico sceneggiatore Charlie Kaufman, col quale collaborerà anche in "Il ladro di orchidee" (2002). Tuttavia non è un caso se l'eccentrica creatività di scrittura di Kaufman trovi terreno fertile tra le macchine da presa di Jonze. In fondo, il cineasta di Rockville è stato capace, soprattutto al suo debutto sul grande schermo, di infondere un cinema capace di comunicare con lo spettatore attraverso tunnel claustrofobici, cercando di esplorare temi quali l'identità, l'inquietudine e la lucida follia che alberga dentro l'essere umano.
Matteo De Simei