Ondacinema

Come ogni anno il festival diretto da Emanuela Martini offre una panoramica eterogenea su passato, presente e futuro del mezzo cinematografico, fra ricerca e pop, genere e sperimentazione, scoperte e riscoperte

Volge al termine la trentaseiesima edizione del Torino Film Festival. Come si suol dire: è tempo di bilanci. Nell'insieme il concorso è rimasto molto in linea con gli ultimi anni, poche grandi emozioni. Tante piccole storie in compenso, e una serie di film sulla famiglia e la sua naturale crisi che è sembrato all'inizio un concorso tematico. Questa voglia di raccontare sempre cose piccole non credo porterà a molto di buono in futuro. C'è bisogno di aprire lo sguardo, cercare qualcuno che abbia una visione, che abbia un'idea forte di cinema. Non per nulla il migliore è stato senza dubbio "Angelo" di Markus Schleinzer che ha saputo raccontare una storia dentro la Storia, con una regia, sebbene debitrice dei vari Haneke e pessima compagnia cantante, precisa ma molto umana. Delusione su tutta la linea invece per la prima di Valerio Mastandrea. Che dire? Da lui ci si aspettava di più, se i giornali e le riviste in vista e i critici che hanno un peso gli dicessero qualcosa, invece di abbassare lo sguardo, son sicuro che dal prossimo film farebbe meglio.
Nelle sezioni laterali si distingue "Dovlatov", di Aleksey German Jr., sicuramente il miglior film visto al festival. Sempre per Festa Mobile, oltre alla prestigiosa première di "Santiago, Italia", segnaliamo "Ovunque proteggimi", non è un segreto che Bonifacio Angius farà strada, e questo è un suo ottimo punto di partenza. Poi da ultimo "Ash is purest white", non una sorpresa per il grande Jia Zhangke. La sezione After Hours offre alcune cose gustose, come "El Reino" e in parte "Mandy" (purché non lo si citi come film dell'anno altrimenti mi vien da pensare che stiate vivendo un anno particolarmente brutto), altre intollerabili nella loro bruttezza, su tutti l'ironico/non ironico "The Unthinkable".
In ultima analisi un festival sempre amato dal pubblico, o almeno così sempre si dice, un festival che forse ora sta vivendo un po' di rendita e per il secondo anno di fila sembra essere un po' stanco. Ma che spicca comunque come una gemma nella desolante situazione che gli sta attorno. All'anno prossimo! 
Alessandro Viale


Ecco i premiati: 

TORINO36
La Giuria di Torino 36 - Concorso Internazionale Lungometraggi, presieduta da Jia Zhangke (Cina) e composta da Marta Donzelli (Italia), Miguel Gomes (Portogallo),Col Needham (UK), Andreas Prochaska (Austria) assegna i premi: 

Miglior film a:

WILDLIFE di Paul Dano (USA)

Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a:

ATLAS di David Nawrath (Germania)

Menzione speciale della giuria a:

ROSSZ VERSEK / BAD POEMS di Gábor Reisz (Ungheria)

Premio per la Miglior attrice a:

GRACE PASSÔ per il film Temporada di André Novais Oliveira (Brasile)

Premio per il Miglior attore ex-aequoa:

RAINER BOCK per il film Atlas di David Nawrath (Germania)

e

JAKOB CEDERGREN per il film Den Skyldige / The Guilty di Gustav Möller (Danimarca)

Premio per la Miglior sceneggiatura a:

DEN SKYLDIGE / THE GUILTY scritto da Emil Nygaard Albertsen e Gustav Möller (Danimarca)

PREMIO DEL PUBBLICO EX-AEQUO 

DEN SKYLDIGE / THE GUILTY di Gustav Möller (Danimarca) 

NOS BATAILLES di Guillaume Senez (Belgio/Francia)

 

TFFdoc

INTERNAZIONALE.DOC 

La Giuria di Internazionale.doc composta da Fabrizio Ferraro (Italia), Narimane Mari (Algeria), Pablo Sigg(Messico) assegna i seguenti premi:

Miglior documentario per Internazionale.doc a:

HOMO BOTANICUS di Guillermo Quintero (Colombia/Francia) 

Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc a:

UNAS PREGUNTAS di Kristina Konrad (Germania/Uruguay)  

ITALIANA.DOC

La Giuria di Italiana.doc composta da Federica Di Giacomo (Italia), Annamaria Lodato (Italia), Anna Marziano (Italia) assegna i seguenti premi: 

Miglior documentario per Italiana.doc a:

IN QUESTO MONDO di Anna Kauber (Italia) 

Premio Speciale della giuria per Italiana.doc a: 

IL PRIMO MOTO DELL'IMMOBILE di Sebastiano d'Ayala Valva (Francia/Italia)

MENZIONE SPECIALE della giuria Italiana.doc a:

IL GIGANTE PIDOCCHIO di Paolo Santangelo (Italia)

 

ITALIANA.CORTI
La Giuria di Italiana.corti composta da Daniele Catalli (Italia), Gabriele Di Munzio (Italia), Jukka Reverberi (Italia) assegna i seguenti premi:

Premio il Miglior cortometraggio a:

ULTIMA CASSA di Elettra Bisogno (Italia)

Premio Speciale della giuria ex-aequo a:

13 VOLTE FUOCO SU MIO PADRE di Francesco Ragazzi e COL TEMPO di Sara Dresti (Italia)

 

PREMIO FIPRESCI 

La Giuria del Premio Fipresci (Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica) composta da Toni Junyent (Spagna), Anna Maria Pasetti(Italia), Alena Sycheva (Russia) assegna il Premio per il Miglior film a:

OIKTOS / PITY di Babis Makridis (Grecia)

 

PREMIO CIPPUTI

La Giuria, composta da, Francesco Tullio Altan (Italia) Cristina Trezzini (Italia), Laura Panini (Italia)

assegna il Premio Cipputi 2018 - Miglior film sul mondo del lavoro a: 

NOS BATAILLES di Guillaume Senez (Belgio/Francia)

 

PREMIO TORINO FACTORY

La giuria composta da Sara D'Amario, Emanuela Piovano e Gianluca Arcopinto ha deciso all'unanimità di assegnare il Premio della Città di Torino - Smat, Torino Factory, di a:

TEMPO CRITICO di Gabriele Pappalardo 

Menzione speciale a:

SOLO GLI OCCHI PIANGONO di Emanuele Marini

  
 
Arriva il TFF, a ideale chiusura dell'annata festivaliera, e come di consueto raccoglie alcuni dei titoli più interessanti circolati dalle rassegne internazionali del 2018. Ma non solo: la squadra capitanata da Emanuela Martini prosegue il lavoro di ricerca che è ormai prerogativa della manifestazione sabauda, fortunatamente sempre immune al canto delle sirene dei tappeti rossi. Al di fuori delle sezioni ormai consolidate  che da sempre compongono il cuore pulsante del festival, in nome dell'esplorazione del panorama cinematografico contemporaneo, spicca quest'anno la mini-retrospettiva a tematica musicale curata dal guest-director Pupi Avati, così come le retrospettive complete dedicate a Jean Eustache e Powell & Pressburger e la presenza di Jean-Pierre Léaud, per un programma di oltre 130 titoli che passa con naturalezza dal mainstream al doc al film-fiume (a questo giro la sfida è di 14 ore) e non smentisce la propria vocazione all'eterogeneità, confermandosi sanamente irrequieto e trasversale.

 
VENERDI' 30 NOVEMBRE - GIORNO 8

off_incidentinaghostland_1_1After Hours
INCIDENT IN A GHOSTLAND (Francia, Canada, 2018, 91')
di Pascal Laugier

Il problema, con Pascal Laugier, è "Martyrs". Nel 2008 il regista francese con il suo secondo film ha fissato altissimo l'asticella delle aspettative, e adesso il confronto è duro, e il risultato può essere quello di avere reazioni tiepide anche difronte a film complessivamente riusciti come "I bambini di Cold Rock" o quest'ultimo "Incident in a Ghostland" (in uscita il 6 dicembre per la Midnight Factory, col titolo "La casa delle bambole").
Madre rossa e due figlie adolescenti (una bionda superficiale e una mora aspirante scrittrice, appassionata di Lovecraft) si trasferiscono nella vecchia casa di provincia dell'eccentrica (e morta) zia. A pochi minuti dall'inizio, giusto il tempo di delineare qualche tratto psicologico, le tre sono assalite da "una strega e un orco" (e l'archetipo di tutto il film è proprio la fiaba nera), ossia due tizi, uno gigantesco e l'altro vestito da donna. Scena lunga, bella, brutale (Laugier ha buon gusto per la violenza). Da qui, una storia di traumi e sopravvivenza, con un plot twist che arriva abbastanza inatteso (dunque riuscito) a metà film e i restanti 45 minuti di sadismo e senso di disagio, come pochi film horror (almeno, fra quelli che riescono a guadagnarsi un'uscita in sala) oggigiorno riescono a produrre. Al netto di qualche incongruenza (ma poi giustificata dal meccanismo narrativo) e di qualche bizzarria sfiziosa ma forse fuori luogo (Lovecraft si paleserà in carne e ossa, a un certo punto), "Incident in a Ghostland" non è "Martyrs" e d'accordo, però fa il suo sporco lavoro e lo fa molto, molto bene. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5


off_unthinkable_3_1After Hours
UNTHINKABLE (Svezia, 2018, 129')
di Crazy Pictures

Produzione svedese a medio-budget che parte come un melodramma carico di pathos, ralenti, lacrime (antefatto lunghissimo, e già la baracca scricchiola), per poi svilupparsi in una sorta di survival dal sapore vagamente sci-fi alla Shyamalan, con un nemico invisibile o quasi che minaccia l'intera Svezia. Ponti che esplodono, centrali elettriche sabotate, uccelli morti che piovono dal cielo. Un ragazzo problematico si ricongiunge alla sua fiamma di gioventù per caso e, insieme al padre con cui non ha esattamente un buon rapporto, cerca di capire cosa sta succedendo e magari sfangarla.
Nolan e in modo minore Villeneuve hanno marcato uno standard negli ultimi anni nella commistione di action, fantascienza (e dintorni) ed "emozioni", e nel caso di "Unthinkable" l'ispirazione si trasforma presto in emulazione (colonna sonora compresa, che fa ben più che semplicemente guardare ad Hans Zimmer), sfociando nel ridicolo involontario. Al di là di una sostanziale frattura fra prima e seconda parte del film, appiccicate assieme con lo sputo del tema dell'amore impossibile, e reso conto che un paio di scene d'azione e di catastrofe sono effettivamente spettacolari e ben piazzate, quasi niente funziona nell'andamento della trama e nella messa in gioco dei sentimenti, dispiegati in modo talmente meccanico e alla ricerca della scena madre da voltarsi presto in parodia inconsapevole. Il mistero che avvolge la vicenda è interessante all'inizio e mal gestito in seguito, fino a diventare risibile nell'immancabile spiegazione (SPOILER: i Russi hanno contaminato l'acqua della pioggia, facendo così ammalare di Alzheimer chiunque si bagni - o qualcosa di simile).
Grandi ambizioni, grande fallimento (non sempre: qui sì). (Matteo Pennacchia)
Voto: 4,5

 

santiagoitalia675x905675x904Festa Mobile
SANTIAGO, ITALIA
(Italia, 2018, 80')
di Nanni Moretti

Nanni Moretti racconta la storia di alcuni cileni che dopo il golpe di Pinochet, grazie alla protezione dell'ambasciata italiana, hanno potuto rifarsi una vita nel nostro Paese. Correva l'anno 1973. "Santiago, Italia" è quello che ci si può aspettare da un documentario di Nanni Moretti, un film partigiano: "io non sono imparziale" dice in una delle sue affermazioni iconiche Moretti. E non ci si sarebbe aspettato diversamente. Tanto che è probabile che questo film verrà visto più come un atto politico che non come un'opera visiva. Le critiche e gli elogi verranno probabilmente dai contenuti e non dalla forma, quindi chi parlerà di accoglienza, umanità etc e chi invece dirà che in Italia oggi non c'è lavoro e che i cileni non sono gli africani. Perché il punto è anche quello. Si deve prendere posizione. Ma facendo un passo di lato, a pensare alle immagini del documentario ci son un paio di appunti da fare. Tre le parti in cui si svolge: la prima racconta brevemente l'ascesa di Allende e il golpe dell'11 settembre, la seconda l'ambasciata italiana a Santiago e la terza la vita in Italia. Pare piuttosto superflua la prima, ovvio che è una una pagina fondamentale della Storia, ma molto nota (si spera) o comunque nota di certo al pubblico morettiano. Quindi perché togliere spazio alla seconda parte, che offre gli spunti di riflessione più interessanti. Soprattutto grazie al tono a metà strada fra commedia e tragedia, molto umano, molto vivo. La terza parte poi è quella più "didascalica", la dimostrazione del teorema, e quella che certo creerà le due sponde di tifoseria.
"Santiago, Italia" si apre con un bellissimo ritratto con paesaggio e si chiude con un fermo immagine molto meno bello. Mi sento di dire che Moretti poteva fare di più, perché il mestiere certo non gli manca. (Alessandro Viale)
Voto: 6,5

 

GIOVEDI' 29 NOVEMBRE - GIORNO 7
 
 
la_disparition_des_lucioles_Concorso Torino 36
LA DISPARITION DES LUCIOLES (Canada, 2018, 96')
di Sébastien Pilote
 
Leò è una adolescente, e in quanto tale, confusa e indecisa sul proprio futuro. Ritrova in famiglia quel subbuglio interiore con i genitori separati, il padre lontano per lavoro, un patrigno da odiare. Conosce per caso un ragazzo molto più grande di lei, che le insegna a suonare la chitarra. Sullo sfondo una città del Québeq abbandonata delle industrie.
C'è qualcosa di diffuso e costante in prodotti come questo film, qualcosa che li tiene ancorati (ad affogare molte volte) al piccolo, il minimale. Già ne ho scritto, ma il respiro corto o cortissimo che hanno film come questi è asfissiante per lo spettatore che anela a qualcosa di più, un guizzo, una scelta registica, una follia. E invece qui no. Va detto che ha alcuni momenti ottimi, come il dialogo iniziale fra Leò e Steve, o le due scene, enfatizzate molto bene dai violini di sottofondo, in cui la ragazza sale di corsa sull'autobus. Un momento in cui sembra parta il sogno di una vita altrove, a livello diegetico un bel modo di rappresentare il desiderio di fuga. Anche l'azzerare la componente erotica, grazie al dio del cinema, è stata una buona scelta, e farlo attraverso un gesto appena accennato della protagonista è la dimostrazione che il mestiere c'è. Poi però chiudere con le lucciole, forse è troppo pure per chi vuole difendere "La disparition des lucioles" da qualunque critica argomentata.(Alessandro Viale)
Voto: 6
 
 
tff_2018_nothing_everythingSezione Onde
NOTHING or EVERYTHING (Corea del Sud, 2018, 84’)
di Gyeol Kim

"Dalla Corea, un’opera prima senza pietà" [per lo spettatore].
La citazione è espunta dalla sinossi, la quadra è un commento personale.
Due giovani donne si incamminano in una boscaglia a passo di marcia, affannata. Poi, ognuno ritorna per i fatti propri. In mezzo un cadavere, il dolore astratto di una perdita, e quello concreto, e dettagliatissimo, di una vita che se ne va.
Non si sa da dove cominciare, per demolire un film la cui regista, una signora deliziosa, educata, musicale nella sua lingua estremo-orientale, infine pure seduta di fianco a chi scrive, pesta sull’acceleratore della crudeltà in così malo modo.
Meglio approfittare del buio dei titoli di coda per svicolare, con un imbarazza tutto italiano, condiviso dallo gelo, cortese, in sala. Era previsto un dibattito post-visione, non ho voluto saperne niente, e sui giornali di oggi, giovedì, non c’era notizia di una sala spaccata nelle seggiole o messa a fuoco, sicché l’aplomb festivaliero ha avuto ancora ragione degli istinti più bassi.
Il film, che poteva durare sei ore, è stato condensato in 84 minuti. Questa è un’attenuante. Averlo lei rivisto insieme a noi, ignari, è una seconda attenuante. Della gradevolezza della signora ho già detto. Sul suicidio come un gesto estremo, che spesso va a demolire un corpo sano che si ribella fino all’ultimo, si poteva dire più e meglio, tre quarti del film sembrano totalmente inutili, a mostrare la vita che non sa, non vuole, non può.
Anche quest’anno, la sezione "Onde" si conferma, per distacco, la pecora nera del Festival.
Nel mentre le immagini martellavano a sangue la seduta sulle poltroncine, ho voluto mettermi nei panni dei selezionatori che, probabilmente, avranno ricevuto uno screener, o un DVD; si saranno seduti su una poltroncina pure loro, e alla fine della visione avranno pensato: "Che bel film! Degno del TFF". Ammirevoli. (Pietro Calò)
Voto: 3


off_rosszversek_1_photobyga769borvaluska_1_01Concorso Torino 36
ROSSZ VERSEK/BAD POEMS (Ungheria, 2018, 97')
di Gabor Reisz

"Bad Poems" non è solo una gradevole (se si è in vena) commedia romantica. L'antefatto (lui, Tamàs, ama lei, Anna; ma lei lo molla all'improvviso) dà il la a un'esaustiva ricognizione sentimentale (non solo amorosa) del protagonista, interpretato dal regista stesso Gabor Reisz, attraverso gli affetti famigliari, amicali, in base al rapporto con il proprio passato. Con continui salti temporali vediamo dunque Tamàs da bambino, pre-adolescente e adolescente, alle prese con i primi amori, le prime amicizie importanti, i parenti, in un'interazione metacinematografica ricca di espedienti e trovate originali (nell'arco di una sola inquadratura, una stanza da letto si può trasformare in una piscina; e una band comparsa dal nulla sopra un autobus avverte direttamente lo spettatore dell'arrivo - fra 45 secondi - del momento clou del film) che, al di là dello specifico romantic vanno a scandagliare in profondità la natura del ricordo, in un tripudio di attimi visionari (e un po' leziosi) che sembrano rifarsi a una versione meno cerebrale dell'infinita letizia della mente candida di Gondry. Anche Tamàs, come Jim Carrey, va a ritroso dentro se stesso e le proprie reminiscenze per cercare le ragioni del proprio essere e della rottura con la fidanzata, scoprendo quanto i ricordi siano tanto fragili quanto fondamentali e formativi. Con tono lieve, mai troppo sdolcinato o gratuitamente nostalgico (vengono alla mente anche "500 giorni insieme" e, in un certo senso, "Tutti giù per terra"), "Bad Poems" racconta la fine di una storia (mettendo in chiaro che le storie finiscono, a volte: capita) e, tramite questa, mette a confronto le aspettative (i sogni?) che ognuno nutre da giovane per il proprio futuro e la loro relativa trasformazione in realtà, raggiunto il fatale cambio di prospettiva dell'età adulta. A modo suo, quindi, un coming of age tardivo più ancora che una commedia romantica; dedicato però a un trentenne spaesato anziché a un ragazzino.
Nel contesto festivaliero, il film defaticante ci stava, dài. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5


off_madelinesmadeline_3_1_01Festa Mobile
MADELINE'S MADELINE (Usa, 2018, 94')
di Josephine Decker

Che età di merda, i 16 anni. Specie se, come la protagonista Madeline, si hanno problemi psicologici (non specificati, ma pare un disturbo bipolare) e si è divisi fra una madre che riflette l'ansia genitoriale di prendersi cura anche di ciò di cui non ci si può prendere cura e l'ambiziosa regista della piccola compagnia teatrale di cui fai parte. Con quest'ultima Madeline stabilisce un rapporto di competizione/compensazione pronto a esplodere (se nella realtà o nella fantasia della ragazza non è dato sapere) nel finale, durante la messa in scena di uno spettacolo improvvisato in cui è finalmente Madeline a prendere il potere e dettare le proprie regole, per quanto storte, all'interno del complicato mondo delle relazioni sociali, in una sorta di acquisizione di coscienza della propria imperfezione e di richiesta che questa imperfezione venga riconosciuta e accettata.
Josephine Decker frequenta ormai da anni il TFF, sempre sul crinale della sperimentazione, e "Madeline's Madeline prosegue con coerenza il discorso all'interno della filmografia della regista americana. Largo spazio all'improvvisazione degli attori (davvero splendida la debuttante Helena Howard/Madeline), regia che entra ed esce, confondendoli, dai piani di realtà e dalle proiezioni mentali, e nessuna vera trama, solo una "situazione" descritta per accumulo emotivo e narrativo; ciò comporta una certa fatica di visione e una sostanziale ripetitività, ma potenza e spontaneità viscerale delle interpretazioni (brava anche la indie-heroine Miranda July) riequilibrano tutto. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5



MERCOLEDI' 28 NOVEMBRE - GIORNO 6


tff_2018_duello_berlinoRetrospettiva Powell & Pressburger
DUELLO A BERLINO (Gran Bretagna, 1943, 163')
Di Michael Powell & Emeric Pressburger

Sacrosanta retrospettiva dedicata a una coppia spesso snobbata da una critica superficiale e all'attività da solista di Michael Powell che, se possibile, è ancor più passata sotto silenzio. I loro (e suoi personali) film hanno da sempre creato qualche imbarazzo, non solo legato al maledetto, "Peeping Tom" ("L'occhio che uccide", 1960), glaciale fin quasi risultare sordido, ma anche a un episodio sinceramente patriottico e ottimista quale il nostro "Duello a Berlino", che non piacque molto a sir Churchill perché vi è protagonista "un tedesco buono" (l'ottimo Anton Walbrook, di origine austriaca). Così, le versioni che passano spesso in TV, e in qualche retrospettiva poco rigorosa, sono tagliate di un'ora tonda tonda; un'operazione che, oltre a attenuare una evidente matrice anti-militarista, distrugge l'incastro dei flashback di un'epopea, un'amicizia, un amore ossessivo, che parte a inizi ‘900 e si chiude alla vigilia di Stalingrado. E così si perde anche quello splendido escamotage di un vecchio baffuto che si immerge in un bagno turco e vi riemerge giovane e irrequieto (l'ottimo anche lui Roger Livesey). Smorzata, ma comunque debordante, la presenza scenica della rossa Deborah Kerr, in tre ruoli diversi che sono l'anima della nostra storia, il tema dell'eterno feminino che fa diventare, "un semplice film di guerra", un capolavoro. Capolavoro coi connotati del kolossal, sia per durata sincronica e diacronica, sia per la disinvoltura con cui si passa dalla commedia al dramma, dall'azione all'introspezione, dal primo piano al campo lunghissimo, tanto da non suonare strano che, appena l'anno prima, il re indiscusso del genere kolossal, David Lean, sia stato il montatore di "Volo senza ritorno" ("One of Our Aircraft Is Missing", bellico, e presente nella retrospettiva anch'esso).
Si è accennato a Stalingrado perché, prima di quest'episodio campale, i film che sostenevano l'anti-nazismo si sono posti una questione morale molto delicata: se, per aver ragione di un nemico potentissimo e sin lì invincibile, fosse il caso di utilizzare anche mezzi scorretti, che dal punto di vista speculativo corrisponde a identificare "il Bene" non con le azioni che compie ma come un'aporia, vera per definizione, indiscutibile. Come è il caso del nostro film, in cui la scorrettezza è comunque mostrata in un contesto leggero, da commedia; o anche, per citarne un altro, del celebre Man Hunt ("Duello mortale", 1941) di Fritz Lang.
Capolavoro, cui si evita di mettere un voto. (Pietro S. Calò)


off_blaze_2_1Festa Mobile
BLAZE (Usa, 2018, 129')
di Ethan Hawke

La mitologia country-folk americana è vasta, longeva, fatta di chitarre scordate e ballate ubriache, infimi locali di provincia dov'è sempre notte anche quando è giorno, stivalazzi da cowboy, reietti che al microfono diventano poeti, risse, whisky. Di questo parla il terzo lungometraggio da regista di Ethan Hawke, biopic dedicato a Blaze Foley, uno dei tanti che noi di qua dall'oceano mai abbiamo sentito nominare. Tre piani temporali, un ricostruzione a ritroso che procede sui binari dei ricordi di chi lo conosceva (il film è co-sceneggiato dalla ex moglie di Foley, Sybil Rosen), per ricostruire la vita e la morte (prematura: morto ammazzato a 39 anni per un litigio) di Blaze e rendergli l'omaggio dell'onestà, presentandone anche gli aspetti caratteriali peggiori. E, attraverso lui, disegnare un mondo intero, una corte dei miracoli di loosers sdentati e fatalismo, con una regia granitica, precisa, che poco concede all'elogio gratuito e coglie piccoli attimi di bellezza dove sembra non possano esserci. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5


off_relaxer_1_1After Hours
RELAXER (Usa, 2018, 91')
di Joel Potrykus

Già in After Hours due anni fa con "The Alchemist Cookbook", Joel Potrykus continua a farci sentire molto strani durante la visione con "Relaxer".
Alle soglie del 2000 e del Millenium Bug, Abbie (tal Joshua Burge, perfetto, magnifica faccia da pesce e fisico da pensionato) accetta la sfida, una delle tante, del fratello Cam: restare seduto sul divano fino al superamento dell'impossibile livello 256 di Pac-Man. Fra numerosi piani-sequenza e dialoghi assurdi con caratteristi che entrano ed escono di scena come da un set teatrale, il giovane nerd prende la sfida molto sul serio, il divano si trasforma in un'isola deserta e Abbie in un naufrago costretto a pisciare in un secchio e cibarsi di avanzi, mentre il mondo esterno affronta l'apocalisse; fin quando la prolungata sessione di gioco non gli permette di elevarsi a uno stato mistico e acquisire poteri telepatici che avranno degna, esplosiva, cronenberghiana conclusione alla fine del film.
Con andamento lento e straniante (e una zona centrale decisamente da sforbiciare), "Relaxer" crea una propria originale sur-realtà senza mai perdere le redini di una messa in quadro minimalista, a suo modo elegante. Un'opera da subire più che da leggere: ci si può vedere tutto (lo stordimento catatonico provocato dall'imperante cultura dell'intrattenimento? Il desiderio imposto dalla società ipertecnologica di isolarsi dal mondo? E altre amenità...) o niente, la riflessione o la presa per il culo, il rebus o lo scherzo infinito, il contraltare al nostalgico e opulento orgoglio nerd di "Ready Player One" o un dedica spielberghiana affine, solo condotta con un lessico cinematografico opposto.
A tratti estenuante nel suo essere fatto di nulla, "Relaxer" è a sua volta un film-sfida: chi resta seduto fino alla fine vince un coltello. E magari sviluppa poteri telepatici. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7


MARTEDI' 27 NOVEMBRE - GIORNO 5


tff_2018_high_lifeAfter Hours
HIGH LIFE (Germania/Francia/UK/Polonia/Canada/Usa, 2018, 110')
di Claire Denis

Alla fine della proiezione, gli applausi, ormai un atto dovuto, sono stati tiepidi. Li avevano esauriti tutti all'inizio, quando è stata diffusa una carrellata di sequenze tratte dai film di Bernardo Bertolucci, che si è conclusa con la voce del Maestro che diceva, su per giù: "Vorrei vedere in 3D un film di Bergman. Di Fellini. Io stesso vorrei girarne uno con questa nuova tecnologia."
Non un capolavoro di ricordo, ma un funerale il 2 novembre è un'occasione troppo ghiotta per non approfittarne.
Poi, è iniziato il film; e siccome la giornata è un po' così, frastornata, la gente entra ancora che è già iniziato da venti minuti. E, all'apparire dei titoli di coda, è fuggita via, all'unisono, risucchiata dal buco nero del Festival che avanza, come la Binoche quando ha esaurito il suo compito.
Una combriccola di giovani senza speranza né redenzione, stipula un patto con l'agenzia spaziale francese (sì, è un film di fantascienza). Sprovvisti di tutte le matematiche nolaniane, andranno a impattare un buco nero senza sapere cosa potrà mai succedere.
Chi pensa di aver già dato, con le visioni integrali di "Solaris" e "2001: Odissea nello spazio", può astenersi domani dal rivederlo, proiettato per la terza volta in tre giorni. Non c'è nessun senso di immanenza tarkovskijana, non c'è il Dio congelato di Kubrick. Ci sono dei giovani, anche abbastanza antipatici; ma c'è pure Juliette Binoche, dalle spalle larghissime, in tutti i sensi, che prende in mano redini e altro (per sapere cosa è altro bisogna vedere il film) e costruisce il suo archetipo di donna-mantide-pre-menopausa, decisamente convincente.
Nelle parti migliori, la "stanza del sesso" su tutte, il senso di angoscia e inadeguatezza, molto consoni ai tempi, marcano punto e si fanno ricordare; in quelle peggiori, il filo tarko-kubrickiano su tutte, l'angoscia e l'inadeguatezza persistono, ma assumono una veste diversa, una mancanza di coraggio nella scrittura probabilmente, un movimento tiepido della macchina, che non frena né accelera; tutte cose che, in storie più o meno omologhe, Noé, Assayas, Bonello, Carax, hanno dato valore ai loro film. L'apprendistato della discontinua Denis non è ancora terminato e, a tutt'oggi, si potrebbe dire che del suo maestro Jarmusch non ha, ancora, preso le cose migliori. Tuttavia, da incoraggiare. (Pietro Calò)
Voto: 6,5

 
rideConcorso Torino 36
RIDE (Italia, 2018, 95')
Di Valerio Mastandrea

Quando una riflessione su un film incomincia con una giustificazione c'è qualcosa che è andato storto. Lo facessi di lavoro mi farei qualche domanda in più. Ma eccola: a Mastandrea voglio molto bene, quasi fosse un amico per quanto mai ci siamo incontrati. Gli voglio bene perché è un volto perfetto, perché è un attore che ogni volta mi appassiona. In ogni film che ha fatto riusciva sempre a tirar fuori qualcosa.
Detto questo, anzi in virtù di questo, devo dire che Ride è davvero un disastro di film.
Carolina è una donna a cui è morto il marito, in attesa del funerale elabora il lutto, e il mondo di amici e parenti che le ruota attorno sembra attento esclusivamente al proprio dolore. Il figliolo invece passa del tempo con un amichetto, cercando anche lui di mettere insieme i pezzi.
Il soggetto del film è molto buono, perfetto poi per un film d'esordio che vuol essere piccolo, ma aspirando a qualcosa di più. Ma lo sviluppo della trama (meglio tacere su tutta la parte del cognato) è ingolfata nei cliché del cinema italiano, tanto che come ha detto bene un a me ben noto spettatore in sala "sembrava un film di Muccino". Ecco, mancava giusto Margherita Buy, e in questo ha ben lavorato Mastandrea, scegliendo una brava Chiara Martegiani che è sicuramente la nota più positiva del film. Non lo stesso si può dire dei lavori con i bambini che mentre li si guarda sullo schermo si ha sempre ben precisa la sensazione che di qua del loro sguardo c'è una camera da presa e un regista.
Insomma dispiace, e la sala stampa era imperniata di un silenzio un po' imbarazzato a fine film, perché ora come si fa a parlar male di Mastandrea? (Alessandro Viale)
Voto: 5

 

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DOVLATOV (Russia, Polonia, Serbia, 2018, 126')
di Aleksey German Jr.


Sergej Donatovič Dovlatov è stato uno scrittore russo, emigrato negli Stati Uniti. Come scrittore non aveva vita facile a Leningrado, chiuso da una strettissima censura che mal sopportava la sua ironia e la scarsa propensione alla propaganda. Come lui molti suoi colleghi e artisti. 
Aleksej Alekseevič German, figlio di cotanto padre, ha il gusto per la nebbia. Una nebbia che invade molte inquadrature, oniriche o meno, e quando non è nebbia è fumo di sigarette. Un vapore inconsistente che aleggia e dà sostanza alla sua poetica. Tutto è infatti come sospeso, sebbene si tratti (in superficie) di un classico film biografico. Sono sospesi i due grandi temi del film: la Storia e la Russia. E la libertà dell'arte in questo rapporto è l'elemento scatenante.
German ha un'identità potentissima, i suoi fotogrammi sono riconoscibili, così come il suo modo di raccontare e l'idea di cinema che sta alla sua base è potente e solida. Una cultura dell'immagina che innalza lo spettatore. Il suo film è un continuo parlare e sussurrare, un affastellarsi di persone e luoghi, tra sogno e realtà, a rappresentare un fermento sotterraneo che ha attraversato la Russia. Da segnalare l'attore protagonista, Milan Marić. Il suo volto speriamo di rivederlo presto. (Alessandro Viale)
Voto: 8 
 

 

off_azurhangja_2Festa Mobile/TorinoFilmLab
HIS MASTER'S VOICE (Canada, Ungheria, Francia, Svezia, Usa, 2018, 108')
di György Pálfi

Il nuovo lavoro di György Pálfi ("Taxidermia", 2006, ad oggi il suo titolo più memorabile) è fatto di salti: temporali, narrativi, tematici, anche se, al cuore di tutto, la questione si concentra sulla ricerca di un padre: di Dio, di un genitore, di una genitura extraterrestre per l'intera razza umana? Ispirato a "La voce del padrone" di Stanislaw Lem, "His Master's Voice" è formalmente un viaggio iperframmentato - ai limiti della parodia satirica - nell'ansia crossmediale del contemporaneo, in cui lo schermo si scorpora in continuazione in ogni possibile device: video da Youtube, Skype, sequenze fotografiche, riprese con lo smartphone, servizi telegiornalistici, un intenzionale coacervo di stimoli visivi che si mischia senza contiguità logica (forse) a squarci onirici e scene di pura sci-fi, doppiando il senso di spaesamento provato dal protagonista (un ungherese in Usa, alla ricerca del padre perduto).
Fra complottismi, paranoie, astronavi, messaggi dallo spazio, rapporti familiari da ricucire o ridiscutere, reminiscenze politiche, esperimenti segreti, tutto è in pezzi nel mondo di "His Master's Voice", che però suggerisce lungo tutta la sua durata che ogni pezzo sia collegato all'altro in qualche modo (lasciato inspiegato). È più di un sospetto che la volontaria confusione (a tratti gilliam-osa) sia proiettata all'interno della diegesi (e della struttura filmica) dalla mente in ebollizione di Peter, il protagonista, incapace quanto noi di trovare il filo nascosto che tiene cucita la vicenda.
Un film anarchico che, più che abbandonarsi alla complessità, ridicolizza la complessità filosofica e interpretativa racchiusa nei suoi argomenti, nel suo sviluppo non lineare, nelle sue trovate visive. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7


off_oiktos_2_c__margarita_nikitaki_1Concorso Torino 36
OIKTOS/PITY (Grecia, 2018, 97')
di Babis Makridis

Laddove la nuova (ormai non più tanto nuova) corrente greca spesso eccede nel disagio a senso unico, il film di Babis Makridis esplora le potenzialità umoristiche del cinismo nero pece. Un avvocato sbucato fuori da un film dei Coen ha una dipendenza segreta: non può fare a meno dello sguardo delle persone che provano compassione per lui, per via del coma forse irreversibile della moglie. La vicina di casa che ogni giorno gli prepara una torta per rincuorarlo, i clienti con cui condivide il dolore, i colleghi preoccupati. Poi, sorpresa (sgradita): la moglie si riprende, la vita torna alla normalità, e l'avvocato entra in un vortice di depressione acuta, cercando in ogni (ogni) possibile maniera di recuperare il senso di conforto che solo l'infelicità riusciva a procurargli.
Makridis e il co-sceneggiatore Efthimis Filippou (fedelissimo di Lanthimos) puntano su una messa in scena elegante, anticlimatica, straniante, per ragionare su una sorta di atavico senso del dolore universale, sulla necessità nevrotica di stare male per stare bene, sul nostro bisogno di considerazione (più che di consolazione) da parte degli altri, in un universo sociale che pare votato alla coesione solo nei momenti in cui è più semplice essere coesi, quelli di sconforto. Fra black comedy, teatro dell'assurdo e thriller grottesco, "Pity" non si spinge tanto lontano da offrire spiragli di speranza per l'umanità, ma evitando trappole retoriche e morali(ste) dà l'occasione di ridere - a denti stretti, in modo terapeuticamente cattivo - di argomenti di solito dibattuti con serietà controproducente. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5


LUNEDI' 26 NOVEMBRE - GIORNO 4


off_hevireissu_2_harriraty_makingmovies2017_1After Hours

HEAVY TRIP (Finlandia, Norvegia, 2018, 92')
di Jukka Vidgren, Juuso Laatio

Sogni di rock'n roll, anzi di symphonic post-apocalyptic reindeer-grinding Christ-abusing extreme war pagan fenno-scandinavian metal. Il film d'esordio del duo Laatio-Vidgren (per entrambi una lunga carriera alle spalle di video musicali e pubblicitari) celebra gli outsider di tutto il mondo raccontando vita e speranze di quattro giovani metallari finlandesi, pecore nere di un paesino sonnolento diffidente da chiunque si allontani dalla norma. I quattro eroi ribelli hanno una band, gli Impaled Rektum, e l'incontro casuale con l'organizzatore del più grande festival metal norvegese li illude di essere "arrivati", ma per poter finalmente calcare l'agognato palco la strada sarà lunga, complicata e dolorosa.
La scandinavia è una delle patrie comprovate delle diramazioni più estreme del metal contemporaneo, e "Heavy Trip" rende un autoironico omaggio alla scena, fra citazioni e passione, autenticità e lievi surrealismi, ribaltando prospettive e aspettative canoniche (gli Impaled Rektum sono quattro dei personaggi più ingenui, commoventi e di buon cuore del cinema nordico recente), smarcandosi quel poco che basta dall'umorismo laconico e tragico dei padri nobili (v. Kaurismäki) per darsi a una schiettezza demenziale che non sempre centra il bersaglio ma è a ogni modo fortemente legata a determinati aspetti socio-culturali del paese natio. Non solo metal, dunque, e non solo un film di e per metallari, ma una commedia per tutti (e chissà che dopo aver visto il film qualcuno non sia preso dal desiderio di andare a scoprire intere discografie grindcore), che dietro le soluzioni comiche più semplici cela una bizzarria e una malinconia che, forse, più considerate, avrebbero dato alt(r)o spessore. Ma va bene così. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5


off_thewhitecrow_1_1Festa Mobile
THE WHITE CROW (Uk, Serbia, Francia, 2018, 122')
di Ralph Fiennes

Pezzi di vita di Rudolf Nureyev: l'infanzia fra gli stenti, l'assenza del padre, l'ambizione della danza, la vita privata, le prese di posizione politiche in contrasto al regime comunista degli anni '60, l'asilo politico in Francia. Ralph Fiennes esplora con mano sicura ma poca fantasia il carattere non conciliante del grande ballerino, mettendolo in relazione con un determinato spaccato storico, con i conflitti fra arte e politica e con una trafila di comprimari che il film mostra fin troppo innamorati del protagonista. Una amore che purtroppo stenta a contagiare anche la regia, troppo impegnata ad essere priva di sbavature per infondere il fuoco della vita nel ritratto dell'artista da giovane, trattato come un santino genio-e-sregolatezza da venerare a priori. Nel classicismo greve di una messa in scena e di una sceneggiature opache (flashback a tinte desaturate, scambi di battute spesso alla ricerca dell'aforisma finale) Fiennes ribadisce scene e concetti, non riuscendo a dare le necessarie profondità e ricchezza di sfumature a un personaggio che invece si prestava a una pratica di reinvenzione cinematografica più sfrontata, barocca - e meno celebrativa. Biopic sbiadito: nulla di formalmente sbagliato e forse è questo a essere sbagliato, e in 122 minuti la noia prende il sopravvento. (Matteo Pennacchia)
Voto: 5,5

 

ovunque_proteggimiFesta mobile
OVUNQUE PROTEGGIMI (Italia, 2018, 90')
di Bonifacio Angius
 

Alessandro è un cinquantenne cantante folk sardo, alcolizzato. Vive con la madre e in uno dei suoi momenti più cupi viene ricoverato con un T.S.O. In ospedale conosce Francesca, una donna con problemi di droga e instabilità mentale a cui hanno tolto la custodia del figlio. I due si mettono in macchina alla ricerca del bambino. Andata e ritorno tra dolore e redenzione."Ovunque proteggimi" ha il ritmo del road movie, infarcito di momenti drammatici e comici ben dosati. Stemperare quello che poteva essere una storia troppo carica alla fine è utile al racconto e giova al film evitando quasi sempre un sentimentalismo stantio che troppo spesso affligge questo tipo di prodotto. Bonifacio Angius è un regista da tenere d'occhio soprattutto per il lavoro con gli attori e i rispettivi personaggi. La sua capacità di mettere in scena la coppia di outsider è notevole, così come anche l'uso che fa dei paesaggi sardi. Nel finale del film sembra, superficialmente, lasciarsi andare con l'happy end di cui non si sentiva il bisogno. E invece leggendone più attentamente il senso vien da pensare che non c'è redenzione, se non interna al sistema di riferimento, mentre, aprendo lo sguardo, emerge lo svolgersi di un nuovo dramma ulteriore. (Alessandro Viale)
Voto: 7,5

 
 
DOMENICA 25 NOVEMBRE - GIORNO 3
 
off_angelo_1_1Concorso Torino 36
ANGELO (Austria, Lussemburgo, 2018, 111')
di Markus Schleinzer 
 

Angelo è il nome che viene dato attraverso il battesimo ad un bambino venuto dall'Africa. Angelo è il buon selvaggio addomesticato alla corte europea. Il negro di corte, che arriva fino al servizio dell'imperatore per trovare la libertà.
Il film di Schleinzer dalla prima inquadratura si esplicita per quanto riguarda la forma e il ritmo. Un quadro fisso di alcuni minuti sul mare, figure in lontananza che arrivano dal mare. Lento e riflessivo. Con un gusto per la ricerca dell'immagine, la composizione, il tempo dilatato che immediatamente assurge a leitmotiv visivo. Il tutto fermato in un 4:3 perfettamente utilizzato (specie nella possibilità di sottolineare l'inquadratura non ampia, con degli splendidi fuori campo).
"Angelo" è un film allegorico ma forse prima ancora è un film in cui si racconta una vita. Con una delicatezza e intelligenza rara. Perché l'allegoria non è mai asfissiante, anzi dopo un un inizio molto evidente, si sfibra e evapora man mano per lasciare spazio alla narrazione. Solo nel finale, bellissimo, riprende forza e sbatte come un pugno sul tavolo. La musealizzazione come ultimo momento prima dell'oblio.
E l'ultima incendiaria, come a dare una libertà impossibile all'essere umano in vita. Uno scarto di umanità da parte del regista, un gesto d'amore quasi inaspettato. (Alessandro Viale)
Voto: 8


off_tyrel_2_1After Hours
TYREL (Usa, 2018, 86')
di Sebastián Silva

"Questo film vivrà in ogni americano nella propria combinazione di opinioni e pregiudizi". Ciò dichiara Sebastián Silva, che rispolvera la claustrofobia di "Magic Magic"(2013) per mettere in scena un qualcosa che ha tanto a che fare con la politica quanto con i meccanismi della visione cinematografica. Tyler è l'unico ragazzo nero capitato in mezzo a una festa di compleanno in una casa fra i boschi. Non conosce nessuno dei presenti eccetto l'amico John, che l'ha portato con sé. Fra alcol e bagordi e battute a sproposito (ma innocue), Tyler assume un atteggiamento sempre più difensivo, acutizzando un disagio e un'intuizione di razzismo latente che però forse sono solo nella sua testa.
Negli Usa definito a torto come "il nuovo Get Out", il film di Silva si discosta nettamente da quello di Peele non solo nel sottrarsi a ogni direzione soprannaturale ma anche nel mantenere viva l'ambiguità dei punti di vista, affrontando il tema caldo del razzismo con occhio anticonvenzionale. Dal momento che la focalizzazione appartiene al protagonista (ricalcandone il progressivo senso di - inesistente - minaccia attraverso una regia nervosa, ubriaca, con la camera sempre incollata addosso ai protagonisti), il comportamento fondamentalmente normale dei "bianchi" giunge filtrato dalla paranoia autodiscriminatoria di Tyler, ed è qui la forza strutturale (nonché politica) del film: in primis la creazione di un'atmosfera tensiva quasi horror senza l'utilizzo di alcun elemento riconducibile al genere, ma solo grazie a inquadrature, ritmo del montaggio, piccole espressioni insignificanti che nello sguardo di Tyler (dunque il nostro) assumono significato distorto. Inquietanti come sempre Micheal Cera e Caleb Landry Jones; e c'è anche Roddy Bottum dei Faith No More. Ma canta e suona i R.E.M. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5


piercing_1_1After Hours

PIERCING (Usa, 2018, 81')
di Nicolas Pesce

L'esordio di Nicolas Pesce (classe 1990), "The Eyes of My Mother" (2016), aveva - giustamente - entusiasmato più di qualcuno, lasciando intravedere le potenzialità di un regista che sembrava sapere bene dove stesse andando. Mentre Pesce è ora alle prese con il reboot di "The Grudge" (ma aspettiamo prima di giudicare se sarà - speriamo di no - l'ennesimo giovane bravo regista fagocitato dall'industria dei franchising horror commerciali), arriva "Piercing", tratto da Ryu Murakami, padre letterario di "Audition" e specialista in deviazioni parafiliache legate alla violenza.
"Piercing" è l'incontro-scontro a suo modo tenero fra due psicopatici, un assassino e una sadomasochista, che si "corteggiano" a furia di narcotici somministrati di nascosto, sfregi e mazzate varie, sempre sul crinale dell'ambiguità delle reali intenzioni di ognuno. Nella (quasi) unità di luogo dell'appartamento di lei, Pesce registra e indaga le nevrosi dei rapporti sociali contemporanei, lasciando nascere una sorta di innamoramento nel contatto fisico (spinto all'estremo del dolore procurato a vicenda, o autoprocurato), edificando un universo diegetico in cui tutti hanno segreti da nascondere e, in pari misura, tutti sono alla ricerca forsennata di un benessere raggiungibile solo attraverso l'accettazione delle parti più disinibite di sé (quand'anche queste prevedessero l'omicidio). Un universo non privo di morale, ma con altri e più ampi e indefiniti parametri morali, per compensare il grande vuoto della solitudine sociale e trovare consolazione. Tutto con tono divertito da commedia macabra, un po' "Ubriaco d'amore" un po' "American Psycho".
Poteva essere un piccolo, futuro cult ma manca qualcosa, manca la scena memorabile, l'impennata. Alcune deviazioni in flashback, suggestioni visive poco approfondite e il finale sbrigativo danno l'amaro in bocca, lasciando in attesa di qualcosa che non arriverà.
Colonna sonora cinefila tricolore (Nicolai, Goblin...): grazie, ma ce n'era bisogno? (Matteo Pennacchia)
Voto: 6,5


off_pretenders_02Festa Mobile

PRETENDERS (Usa, 2018, 90')
di James Franco

Piaccia o meno, ciò che va tributato alla filmografia da regista di James Franco sono entusiasmo e trasparenza. Candore, per dirne un'altra. Anche nell'affrontare il proprio personale "The Dreamers" (RIP Bernardo Bertolucci), ossia il bizzarro triangolo d'amore fra Terry, Phil e Catherine di "The Pretenders", Franco gioca senza strategie, a carte scoperte e con autentico trasporto, intrecciando gli omaggi alla Nouvelle Vague di Godard e Truffaut al più sentito dei drammi sentimentali, realizzando un'opera dalla doppia anima: emotiva e intellettuale.
1979, Terry e Phil, amici per la pelle, uno dolce e timido, l'altro donnaiolo e poco affidabile, si innamorano di Catherine, che si concede a entrambi. Nel corso degli anni accade la vita, sentimenti e relazioni si trascinano, evolvono, prendono svolte inattese, sbattono contro il muro delle scelte. Fino alla scomparsa di Catherine, donna-immagine idealizzata, senza nome né identità (si scoprirà poi), quasi proiezione di un immaginario cinematografico che fa da fil rouge all'intera vicenda (Terry, il timido, è aspirante regista).
Alla prima parte dedicata alla love-story, patinata, prevedibile ma paradossalmente efficace, ne succede una seconda più cupa, nei toni e nella fotografia, in cui stona molto l'inserimento forzato del tema della malattia (l'AIDS), benché coerente al periodo storico esaminato. Un appesantimento narrativamente bulimico, massimalista, che toglie freschezza alla vicenda sentimentale - nel suo piccolo, metacinematografica - estenuando la visione e la pazienza, rendendo il 14° film da regista del factotum Franco un'operazione melò tanto sincera e partecipe, in fatto di citazionismo e attaccamento ai personaggi, quanto stancante e riuscita a metà. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6


 

 
SABATO 24 NOVEMBRE - GIORNO 2
 
nos_bataillesConcorso Torino 36
NOS BATAILLES (Belgio, Francia, 2018, 98')
di Guillaume Senez

Olivier e Laura hanno due figli, lui lavora nella logistica di un enorme magazzino, lei fa la commessa e si occupa dei bambini. Il tempo da condividere è poco. E infatti Olivier non si accorge che la moglie non sta bene. All'improvviso lei sparisce, non si sa bene per dove, lasciandolo da solo a ricomporre i pezzi di una nuova vita. Il regista franco-belga (già autore di "Keeper") Guillaume Senez lavora con gli attori lasciandoli improvvisare. Rischio enorme, che però quando funziona, come in questo film, restituisce un'esplosione di emozioni concrete e reali. Tutto lì il film, e non è poco: restituire la complessità del mondo senza schierarsi per dimostrare torti o ragioni. Senza giudizi moraleggianti o sentimentalismi da quattro soldi (se si esclude il finale in cui però è più che perdonabile l'uso della colonna sonora invadente).
Il racconto è la routine della vita, con le difficoltà che si porta dietro. Dove gli adulti e i bambini devono imparare a parlare e a parlarsi. I primi prendendosi le proprie responsabilità per poter guardare negli occhi i secondi. Un film lieve e delicato ma con una profondità narrativa rara.
Curioso come i primi tre film del festival in concorso abbiano come tema principale la disgregazione della famiglia tradizionale. (Alessandro Viale)
Voto: 7,5

 

mandyfilmAfter Hours
MANDY (USA, Canada, 2018, 121')
di Panos Cosmatos

È il 1983, Red Miller (Nicolas Cage, che se ne può sempre parlar male ma qui interpreta alla perfezione la monodimensionalità del personaggio) è un boscaiolo e condivide un splendida casa con la sua compagna Mandy. La loro vita tranquilla viene devastata dall'arrivo di un gruppo di sadici drogati aiutati da quattro "demoni" ancora più sadici e ancora più drogati. Va da sé, che poi la vendetta sarà un massacro.
Il film è un delirio, in tutto e per tutto, e va preso per quello che è, altrimenti si rischia di falsarne il giudizio. Le scelte registiche e soprattutto nella postproduzione/color correction esaltano l'antinaturalismo, rimischiando alcune derive refniane con una dose massiccia di ironia e il fare giocoso di chi non si prende troppo sul serio.
Panos Comatos, figlio d'arte, canadese nato in Italia, evidentemente non si trattiene e mette su un film con due parti ben distinte. Una dilatata, lenta, colorata e deviata. L'altra frenetica, violentissima e parodistica. Non si offendano i puristi dell'horror, o quelli che credono che dopo Sam Raimi non si possa più far ridere con le teste mozzate.
L'LSD è la base di tutto il viaggio. Un trip deviato e sporco. Che però lascia un paio di momenti di altissimo livello, su tutti il dialogo fra Jeremiah Sand (un incrocio fra Charles Manson e Owen Wilson in Zoolander) e Mandy e soprattutto l'ultimo sorriso di Nicolas Cage nella scena conclusiva.
Fuor di metafora, il film è una cazzatona, ma di quelle gustose. (Alessandro Viale)
Voto: 7


off_happynewyear_1_charles_dance_1Festa Mobile
HAPPY NEW YEAR, COLIN BURSTEAD (Uk, 2018, 95')
di Ben Wheatley

Il film che non ti aspetti dal regista che non ti aspetti. Ci ha impiegato qualche tempo ma (forse) Ben Wheatley ha messo la testa a posto e ha realizzato l'opera della maturità. Per quanto il Wheatley "spostato" ci stia molto simpatico, è innegabile come "Happy New Year, Colin Burstead" possa rappresentare un punto di svolta nella carriera del regista britannico. Cattive notizie per i fan della grottesca corrosività che finora è stata la dominante della sua filmografia, sebbene anche questo nuovo lavoro non risparmi frecciate alla "inglesità" (un lord decaduto e nevrotico se ne fa portavoce).
"Happy New Year, Colin Burstead" è un "Festen" anglosassone (ma senza i picchi di disagio del film di Vinterberg), girato a suon di un montaggio alternato che salta e si concentra sui membri di una famiglia disfunzionale che si riuniscono in un castello per festeggiare insieme l'anno nuovo, liberandosi a poco a poco dalla maschera dell'ipocrisia degli affetti personali, disseppellendo invece rancori, antipatie, conflitti che chiedono a gran voce di esplodere, finalmente. Tragicommedia dall'impianto teatrale, alla quale il cast (svetta il grande Charles Dance) ha contribuito in fase di improvvisazione davanti alla mdp. Wheatley leviga gli eccessi, scavalca la necessità di avere scene madri o rese dei conti, mostrando una dolcezza nei confronti dei propri personaggio che mai fin qui aveva fatto capolino nel suo lavoro di demolizione dell'animale umano, puntando la lente sulla naturale complessità delle relazioni di sangue, suscitando perfino (con disinvoltura) qualcosa di molto vicino alla commozione. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7,5


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HISTORY OF LOVE (Slovenia, Norvegia, Italia, 2018, 105')
di Sonja Prosenc

L'acqua è l'elemento allegorico preponderante nell'opera seconda di Sonja Prosenc, un dramma rarefatto e sussurrato che langue nel ritmo dilatato di una ricerca d'identità. L'adolescente Iva scopre che la madre, morta da poco in un incidente stradale, aveva una relazione clandestina con un direttore di orchestra. Lo coinvolge quindi, e non senza un comprensibile astio iniziale, nell'immersione nel proprio dolore, in nome di una terapeutica condivisione del lutto che porterà i due estranei a nuova vita. L'acqua, dunque, elemento amniotico e ferale al contempo, come figura retorica (decisamente troppo evidenziata) di una lacerazione interiore. Prosenc affida la messa in scena a un anti-sviluppo non necessariamente consequenziale, sospendendo l'azione, intervallandola con inserti onirici e attimi di contemplazione, riducendo al minimo i dialoghi. E nella prima metà la ritenzione è funzionale all'addensarsi di un clima ipnotico, capace di rapire l'attenzione anche e soprattutto per merito della curatissima fotografia e di un'attenzione maniacale ai dettagli figurativi. Peccato che a pochi minuti dalla fine arrivi una svolta fuori luogo, fuori tono, il pathos prenda il sopravvento e il film inizi a voler essere struggente a tutti i costi, a imporre forzatamente una serie di reazioni empatiche ed emotive, devastando l'equilibrio fragile e coinvolgente di un lavoro che perde all'improvviso tutta la propria delicatezza.
O, del come 15 minuti sbagliati possano far rivalutare in negativo un intero film. (Matteo Pennacchia)
Voto: 5


lanuitadevorelemonde_1_1Festa Mobile/TorinoFilmLab
LA NUIT A DEVORE LE MONDE (Francia, 2018, 93')
di Dominique Rocher

Ci sono codici piuttosto ferrei a comporre il canone degli zombie-movie. "La Nuit A Dévoré le Monde" è intelligente nel non fingere di non saperlo, e così li sfrutta come impalcatura per tentare di contaminare il filone con alcuni tocchi (ben riusciti) di novità.
Storia nota: epidemia zombie, un uomo si trova a essere - forse - l'ultimo uomo sulla Terra, asserragliato all'ultimo piano di un condominio parigino. Da qui, la messa in pratica di tecniche di sopravvivenza improvvisate, la solitudine (vissuta con ambivalenza: liberazione dalla farragine dei rapporti sociali, prigionia in se stessi), il desiderio di contatto umano portato alle estreme conseguenze (il protagonista, giunto al limite della sopportazione, suonerà forsennatamente la batteria per attirare l'attenzione dell'orda di morti viventi, affinché lo raggiungano).
Se ogni film sugli zombie è anche, volente o nolente, un film sulla società, l'opera di Dominque Rocher ne presenta una completamente disgregata, dominata dall'isolamento emotivo, sospinta da aneliti contrapposti, come in un tiro alla fune fra tensione monadica e bisogno di far parte di una collettività (o anche solo di avere un amico con cui confidarsi: Denis Lavant, zombie bloccato in un ascensore, sarà - quasi - l'unico appiglio a ciò che resta della necessità socializzante del protagonista). Qualche cedimento qua e là (il twist che coinvolge la sempre bella e brava Golshifteh Farahani né aggiunge né toglie nulla alla buona riuscita del film); nel complesso un buon lavoro che forse avrebbe potuto osare una maggiore eterodossia - ma attenzione alla scena "musical" (sulla quale, secondo noi, doveva chiudersi il film): qualche lacrima potrebbe strapparla. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7

 
 
VENERDI' 23 NOVEMBRE - GIORNO 1
 
off_wildlife_1_1Concorso Torino 36
WILDLIFE (USA, 2018, 104')
di Paul Dano

È il 1960, una giovane coppia che pare felice all'ennesimo trasloco in una nuova città si ritrova a fare i conti con la realtà. Jerry (Gyllenhaal) perde il lavoro e reagisce alla depressione allontanandosi, Jeannette (Mulligan) rimane a casa con il figlio quattordicenne Joe (Oxenbould).
Il film è tratto dal romanzo omonimo (in Italia uscito come Incendi) di Richard Ford, adattato per lo schermo dal regista e dalla sua compagna Zoe Kazan. Dietro la macchina da presa, per la prima volta, Paul Dano promettente attore in attesa di una filmografia più consistente.
Dano predilige la semplificazione nella regia, alternando quadri geometrici e calibrati a panoramiche lente e esplicative (Joe che seduto in attesa del bus, che viene inseguito dalla macchina da presa  con un movimento da destra a sinistra per sottolineare la sua voglia di rimanere) a tratti anche troppo esplicative (di nuovo la panoramica, di senso opposto, a mostrare il bacio al signor Warren Miller è quasi un eccesso di sfiducia nei confronti dello sguardo dello spettatore e soprattutto del potere del fuori campo).
Il paesaggio semiurbano, pulito perfetto fatto di ambienti tanto perfetti da sembrare finti, ha come sfondo una montagna lontana, in fiamme (e l'incendio qui funziona nell'unica scena in cui si vede rapidamente come allegoria). E la città del 1960, una storia del 1960. L'allontanare nel tempo una storia che poteva essere sviluppata e riadattata ai giorni nostri funziona per questioni narrative, ad esempio il personaggio di Jeanette è frenata in parte dal dover rispondere all'immagine della mogliettina. Ma forse ancor di più simboliche: si vede su un libro di scuola in una delle prime scene la foto di un'esplosione atomica, che sia segno di un'istituzione sociale, la famiglia, sul punto di esplodere?
Paul Dano fa un ottimo lavoro con le immagini, forse eccede e concede troppo alla Mulligan e al suo personaggio. Ci sono un paio di momenti che sembrano lievemente troppo carichi (la cena a casa di Miller per esempio), soprattutto perché in contrasto con la controllatissima regia e il tono minimale che fa da dominante del film.
"Wildlife" ha più di tutto un finale perfetto. Che se stessimo qui a dare i voti ai film ci farebbe dare un bel 7. (Alessandro Viale)
Voto: 7


off_53wojny_3_1Concorso Torino 36
53 WARS (Polonia, 2018, 82')
di Ewa Bukowska

Esordio alla regia dell'attrice polacca Ewa Bukowska, che adatta un romanzo di Grażyna Jagielska.
Anka è una giornalista. Witek - suo marito - un corrispondente di guerra che non fa che andare e venire da campi di battaglia (Afghanistan, Cecenia, Congo...) dai quali potrebbe non tornare, lasciando di volta in volta Anka in uno stato di angosciosa sospensione esistenziale che ben presto degenera in psicosi. Anka ha il viso e il corpo magri e tesi di Magdalena Poplawska, brava nel non cedere (quasi mai) all'overacting. La regia gioca con il rapporto fra corpo e spazi in interno, spesso frapponendo fra la camera e la protagonista delle cesure simboliche (una porta, un vetro, uno stipite), o lasciandola fuori fuoco, mentre la caduta nel delirio spinge Anka a una graduale "sparizione" fra le mura di casa, incastrata negli angoli, fra i mobili, accartocciata sul divano, ossessionata dalla presenza-assenza fantasmatica del marito, mentre il tempo perde forma e la Storia scorre davanti ai suoi occhi in lontananza, solo attraverso telegiornali sullo schermo di un televisore, da scandagliare in cerca di tracce di Witek. Se nella prima parte di film il gioco dell'amour fou funziona, grazie a una generale atmosfera di indeterminatezza che si sposa bene alla ritenzione glaciale della messa in scena, nella seconda la mano di Ewa Bukowska calca troppo, deviando nei corridoi di un labirinto mentale da thriller polanskiano che stona con l'indagine sentimentale di partenza. Resta di buono un ritratto femminile potente, la rappresentazione di una negazione di sé a cui non servivano eclatanti sviluppi narrativi per essere autosufficiente. (Matteo Pennacchia)
Voto: 6

 

off_thefrontrunner_2_1Festa Mobile
THE FRONT RUNNER (Usa, 2018, 113')
di Jason Reitman

Dopo la ricognizione intima di "Tully", Jason Reitman torna a un cinema esplicitamente politico. Se l'argomento è sempre presente come sottotraccia nei lavori del regista, qui il rapporto di forza fra questione pubblica e privata è invertito. Storia (vera) di Gary Hart, candidato democratico alla presidenza Usa sul finire degli anni '80 che resta invischiato in uno scandalo "morale" e, sotto gli strali della stampa e dell'opinione pubblica, è costretto a ritirarsi dalla corsa, consegnando di fatto il Paese a George Bush Sr. Nell'affresco corale che prende in esame l'entourage di Hart, la redazione del quotidiano che lo incastra, la famiglia di Hart, Reitman compie due movimenti contrari ma complementari, stringendo gradualmente il cerchio attorno al protagonista e contemporaneamente decentrandosi da lui, scivolando con naturalezza dal discorso politico al discorso affettivo, dal blaterare prolisso e retorico delle strategie elettorali al silenzio delle ferite personali. Come a volte accade anche nei precedenti titoli del regista, su piccoli tocchi di dramma puro si poteva sorvolare, e pure non presentando "The Front Runner" nessuna fondamentale caduta di ritmo, per essere un film strutturalmente basato in larga parte sulle parole ciò che manca è una reale tensione dialogica (v. "Thank You for Smoking"). Ma Hugh Jackman (che punta all'Academy) e il "solito" J. K Simmons regalano ottime prove, e il film, al di là della questione privata di Hart, regala a suo modo un resoconto storico sul recente passato degli Stati Uniti, registrando sullo sfondo della vicenda principale i cambiamenti e le svolte spartiacque di un'intera società. (Matteo Pennacchia)
Voto: 7





Torino Film Festival 36 - Diario Giornaliero