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recensione di Diego Capuano

Marco Ferreri non amava andare alla ricerca e proclamare i grandi messaggi e gli spunti di riflessione che i suoi film pure offrivano, ed in particolar modo gradiva poco i dibattiti e i giri di parole cuciti addosso a "Dillinger" è morto", film di rottura nel cinema italiano. Ci adegueremo come potremo, sottolineando una manciata di aspetti che il film ci regala.
"Dillinger è morto" è un miracoloso punto d'incontro tra sperimentalismo e realismo, tra surrealismo iperreale e concretezza astratta. Sebbene sia proponibile come manifesto di avanguardia moderna la sua universalità lo rende unico, forse il film alieno per eccellenza nella storia del cinema italiano, tattile ma inclassificabile.

In che modo trascorre il tempo l'uomo comune, nell'arco di una giornata, lo sanno tutti, ma mostrare questo qualcosa (?) in tempo reale per novanta minuti al cinema non l'aveva ancora fatto nessuno.
Tramite le azioni giornaliere di un uomo Marco Ferreri sembra afferrare il nucleo di un'intera società, e un intero periodo storico (gli anni 60). Gesti che si ripetono quotidianamente, ossessivamente, senza una logica, se non quella del tirare avanti afferrandosi su azioni che talvolta possono sembrarci alternative, particolari (addirittura divertenti?), ma che non sono altro che il frutto di un unione di esseri viventi che si stanno forse illudendo.

Mai come in questa circostanza il cinema ha mostrato l'"essere" dell'essere umano. L'uomo è visto come oggetto di una società che sta andando alla deriva, e che ha perso i veri valori della vita, se mai li abbia avuti.
Era l'anno 1969 quando il film fu distribuito nelle sale. Un anno in cui spopolavano i movimenti di contestazione ideologica e studentesca. Il modo di vivere stava cambiando? No, perché l'uomo sarà in futuro quello che è già stato in passato. "Dillinger è morto" ci fa credere di essere un frutto sessantottino, ma aprendo gli occhi si presenta come simbolo di un'illusione che mette in discussione simboli, bandiere e schieramenti concentrandosi esclusivamente sull'uomo meccanico, immutabile anche con il trascorrere dei decenni. Rivendica la manualità dell'essere umano e anticipa il catastrofico ruolo della televisione nel mondo civile, rendendo il grado di superiorità del primordiale senso tattile sull'avanzare della tecnologia.

Un film sperimentale, si diceva: già il solo fatto di realizzare una pellicola quasi muta in tempi dove spopolava il sonoro, e dove le parole abbondavano, rappresentava gesto estremo, sfacciato, di vera ribellione. Uno sberleffo alle inutili chiacchiere, quindi. Per non parlare del fatto che il protagonista (un Michel Piccoli assolutamente perfetto) per 3/4 del film appare in ogni singola inquadratura da solo, quasi esclusivamente in un unico ambiente (l'appartamento che vediamo apparteneva a Mario Schifano, mentre la cucina è quella di Ugo Tognazzi: due amici di Ferreri).
Le maschere progettate dall'ingegnere sono chiare metafore delle maschere che tutti noi indossiamo. Maschere che fanno perdere i segni della nostra vera identità: il nostro io, costretto dalla paura che subisce dalla società, a rifugiarsi in spiriti che non esistono, o meglio: esistono, ma sono del tutto fasulli. Il susseguirsi di azioni di (senza) senso quasi "necessario" portano alla frustrazione.
Sono le nostre giornate: un continuo girotondo di movimenti simili quando non identici.
Cosa fa l'ingegnere del film (e quindi, come si comporta l'uomo)? Torna da lavoro, cucina, proietta alcuni filmini, fa giochi erotici con la cameriera, e...

Per tutta la durata del film la macchina da presa pedina ossessivamente Michel Piccoli, ed ogni sua minima azione. Ma lui non reagisce a questo continuo movimento: è la rassegnazione di (dell') uomo ad (all') un occhio indiscreto che non lascia intimità (e libertà), conducendolo comunque ad un futuro già scritto: la morte.
Nel finale (irreale e sorprendentemente bello) il protagonista, che già in precedenza aveva trovato (avvolta in una carta di un vecchio giornale che parla della morte del gangster Dillinger, da qui il titolo del film) una vecchia pistola , (dopo averla dipinta e aver mimato il suicidio) uccide la moglie dormiente, e si imbarca come cuoco su uno yacht diretto a Tahiti. Questo assurdo finale simboleggia la fuga impossibile dalla vita di tutti i giorni, da questo mondo che ci opprime, che ognuno di noi (almeno una volta) sogna. Ma lo stesso finale, essendo un sogno utopico, non cancella il totale pessimismo che permea l'intera opera (e le azioni del protagonista). Proprio la nave diretta a Tahiti è "dominata" da una giovane fanciulla. Se c'è futuro, sarà nel segno della donna (ed ecco la filosofia ferreriana).

Solo un regista controcorrente e geniale come Marco Ferreri poteva sfornare questo viaggio nel cuore dell'alienazione, tanto coraggioso quanto incredibilmente efficace.
E lo schermo che si tinge di rosso finisce con il sopprimere ogni briciolo di speranza residua e quasi sembra incendiare il film stesso o forse il cinema tutto.


19/03/2009

Cast e credits

cast:
Carole André, Gino Lavagetto, Annie Girardot, Anita Pallenberg, Michel Piccoli


regia:
Marco Ferreri


durata:
95'


sceneggiatura:
Marco Ferreri, Sergio Bazzini


fotografia:
Mario Vulpiani


montaggio:
Mirella Mercio


musiche:
Teo Usuelli


Trama
Rientrato in casa dopo una giornata di lavoro, un ingegnere si prepara una prelibata cenetta, si proietta filmini, fa giochi erotici con la cameriera mentre la moglie dorme, trova una vecchia pistola avvolta in un giornale, la mette a lucido, la dipinge a pallini e mima il suicidio. Nell'irreale finale, l'uomo uccide la moglie dormiente e si imbarca, come cuoco, su un veliero diretto a Tahiti