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recensione di Vincenzo Lacolla

Una difficile gestazione

Hitchcock spesso asseriva che, giunto il fatidico momento delle riprese, si annoiava terribilmente perché il film, nella sua testa, era già finito. Il suo impegno consisteva, più che altro, nel "sorvegliare" che le direttive fossero pedissequamente rispettate sul set. Non di rado, durante la lavorazione di una pellicola, già si concentrava intensamente su quella successiva. Di fatti mentre girava "Il ladro" - caso raro nella sua produzione di severa adesione al realismo, a torto considerato "poco hitchckiano" - era tutto preso da un progetto che già allora gli appariva "molto personale". Si trattava della trasposizione del romanzo "D'entre les Morts" di Thomas Narcejac e Pierre Boileau, la coppia di romanzieri francesi che aveva rinnovato le forme del romanzo gotico, indebolendo la forza granitica degli esiti razionali che di solito risolvevano storie all'apparenza inspiegabili, senza così recidere completamente i legami col mondo del soprannaturale. A quanto pare, proprio Hitchcock, rimasto comprensibilmente colpito da "I diabolici" di Henri Georges Clouzot (basato sull'omonimo lavoro dei due scrittori), chiese a Boileau e Narcejac di imbastire su misura per lui una trama altrettanto incisiva e disturbante. Nonostante la specifica commissione del regista, numerose e profondissime risultano le differenze tra lo scritto e quel che ne scaturì, ovvero "Vertigo". Tant'è che pure il titolo, in origine fedele traduzione di quello francese ("From Amongst The Dead"), subì continui mutamenti fino alla soluzione definitiva che, con la diretta evocazione della vertigine, sottolinea un aspetto lasciato in secondo piano nella matrice letteraria. Comunque, nel 1955 l'acquisto dei diritti di "D'entre les morts" diede il via alla lunga e, per molti versi, sofferta gestazione del film. In primis, colpevole di uno sregolato regime alimentare, Hitchcock subì due interventi chirurgici a breve distanza l'uno dall'altro, in seguito ai quali non poté che mettersi a dieta. Come se non bastasse, Vera Miles, colei che aveva designato come sua nuova musa e sul cui corpo e talento aveva plasmato la (doppia) protagonista del film, osò restare incinta per la terza volta. La notizia fece imbestialire il regista [1] che assunse a malincuore Kim Novak, stella nascente della Columbia Pictures, per la quale non nutriva alcuna stima professionale ("Almeno ho potuto buttarla in acqua", si consolò). Ma il principale motivo di ritardi in fase produttiva fu la problematica stesura di soggetto e sceneggiatura. All'inizio, Hitchcock si affidò a due collaboratori che avevano già lavorato con lui per "Il ladro": il drammaturgo Maxwell Anderson, che colse certe affinità tra i temi e i riferimenti mitologici del libro e alcune costanti del romanticismo inglese (il difficile rapporto con la realtà, l'inganno dei sensi, l'attrazione per la morte) [2], e lo sceneggiatore Angus McPhail che, in una descrizione di poche righe, parve approcciarsi con maggiore libertà al testo, inserendo in un breve elenco gran parte delle ambientazioni che poi comparvero nel film. Poco dopo, entrambi si tirarono indietro: McPhail per problemi di alcolismo e Anderson perché rinunciò a collaborare alla redazione del copione finale. Allora, su consiglio della Paramount, il regista si rivolse al giovane scrittore Alec Coppel, col quale impostò buona parte del lavoro, senza risultati entusiasmanti. La questione si risolse con l'intervento salvifico di Samuel Taylor che comprese alla perfezione le esigenze del regista e così diede vita e carattere ai personaggi, raccordando la storia al suo complesso substrato di simboli e significati subliminali.


Fascinazione


"L'assorbimento della coscienza per mezzo dello spettacolo si chiama fascinazione: l'impossibilità di afferrarsi alle immagini, movimento impercettibile verso lo schermo di tutto l'essere in tensione, abolizione dell'io nelle meraviglie di un universo in cui anche il morire si trova all'estremo del desiderio. Provocare questa tensione verso lo schermo sembra essere il progetto fondamentale del cineasta"
Michel Mourlet [3]

Prima di avventurarsi in qualsivoglia lettura critica dell'opera in analisi in quanto "testo" cinematografico, bisogna mettere in chiaro una cosa: il primo e fondamentale campo d'azione di "Vertigo" è quello sensoriale. Per spiegare questo assunto, vengono in aiuto i titoli di testa realizzati da Saul Bass, su indicazioni di Hitchcock che - segno distintivo dei suoi capolavori americani - li immaginò come un condensato concettuale dell'intero film. Dettagli molto ravvicinati di un volto di donna in bianco e nero: bocca, naso e un occhio nel quale roteano, in serie, spirali colorate. A prescindere dalle numerose implicazioni iconografiche e metaforiche che la figura spiraliforme assume nel corso dell'opera [4], quei vortici policromi - probabilmente ispirati ai disegni di Man Ray per la poesia "La logique assassine" e ai "Rotorelief" contenuti in "Anémic Cinéma" di Duchamp - con il loro movimento ipnotico e incessante, tessono una "rete" che si allarga fino a catturare lo spettatore. Quell'occhio, appartenente a un'entità femminile ignota, è l'occhio dello schermo che, con le sue ammalianti insidie, rapisce chi sta guardando. Difficile immaginare una sintesi grafica più esaustiva del concetto di "fascinazione"; concetto che non riguarda tanto il mero coinvolgimento emotivo o la partecipazione "empatica" di chi assiste allo spettacolo, ma si riferisce a un'esperienza totalizzante, una sorta di possessione temporanea da parte del sistema audiovisivo che esige la compresenza di una componente irrazionale (il puro godimento estetico, l'abbandonarsi ai sensi) e una razionale (lo stimolo intellettuale a cercare un senso chiarificatore, una "via di fuga"). Ma non è finita qui, altrimenti non si spiegherebbe perché la fascinazione, che è un processo attinente non solo al cinema tutto ma all'intero spettro delle espressioni artistiche, sia il cuore pulsante di "Vertigo". Il film, infatti, a sua volta mette in scena una storia di fascinazione che coinvolge il detective John Ferguson (Scottie, per i conoscenti) ritiratosi dal corpo di polizia perché colpito da una forma acuta di acrofobia. Costui è irresistibilmente attratto da Madeleine, la donna che deve sorvegliare su incarico del marito, l'ex compagno di college Gavin Elster, preoccupato dalle sue inspiegabili tendenze suicide. A quanto pare, a possedere Madeleine è lo spirito della bisnonna, Carlotta Valdes, impazzita per via del drammatico distacco dalla figlia e per questo toltasi la vita. Dopo averla salvata una prima volta, tirandola fuori dall'acqua della Baia di San Francisco dove si era lasciata cadere, Scottie comincia a frequentarla e tenta di esorcizzare i fantasmi che la perseguitano. Purtroppo, vittima delle vertigini, non potrà impedire che si getti da un campanile. Il senso di colpa e la malinconia lo conducono in una clinica psichiatrica. Un anno dopo, nel volto di una passante, rivede all'improvviso lo sguardo di Madeleine. Assillato dall'idea di riportare in vita l'amata, corteggia con insistenza la sconosciuta, che di nome fa Judy ed è una commessa. Un flashback rivela allo spettatore la verità: Judy è Madeleine, ha cioè finto di essere la signora Elster di comune accordo col marito della vittima, di cui era amante, che, usando Scottie come testimone, ha lanciato dal campanile la vera consorte e mascherato l'omicidio con un suicidio. Judy prima desidera scappare, poi decide di accontentare Scottie che, ignaro di tutto, la costringe a trasformarsi (di nuovo) in Madeleine. A tradire l'identità di Judy è un pendente che l'uomo subito ricorda di aver visto al collo di Madeleine e, prima ancora, in un ritratto di Carlotta Valdes. Accecato dall'odio, Scottie vince le sue paure e trascina in cima alla torre campanaria l'ingannatrice che gli confessa la partecipazione al delitto e al contempo si dice di lui profondamente innamorata. Le loro labbra si avvicinano, ma spaventata da un'ombra nera che avanza, Judy precipita nel vuoto.


L'inganno della percezione e i demiurghi diegetici


"Il vero mistero del mondo è il visibile, non l'invisibile"
Oscar Wilde

Com'è evidente, l'intrico appena ricapitolato si organizza intorno a un uomo che percepisce la realtà in modo distorto perché altri lo imbrogliano con un'illusione, imponendogli una finzione mendace. Sembra di assistere a una nuova variazione del mito della caverna di Platone in cui Scottie è lo schiavo incatenato, convinto che le ombre sulla parete (dei fantasmi, sostanzialmente) corrispondano al mondo vero, senza sapere che, dietro di lui, dei portatori di simulacri nascosti da un muro proiettano quelle ombre e che la verità sta fuori dall'antro tenebroso. A fare la differenza è però il piano d'azione prescelto, infatti a Hitchcock non interessano le Idee platoniche, ma basta il perimetro dell'immanente, lo spazio della caverna. L'inganno che vuole dimostrare si estrinseca nel visibile: lo spettatore assiste alle peripezie di un altro spettatore che, a sua volta, è affascinato da uno spettacolo. Ritorniamo dunque al concetto metalinguistico di "doppia fascinazione", facendo questa volta una precisazione cruciale: mentre il ruolo del pubblico rimane passivo per via di una barriera fisica e dimensionale (lo schermo) che lo separa dall'universo finzionale, il protagonista è interno a quell'universo, pertanto - al contrario di quanto accadeva in "Rear Window", in cui la finestra e la condizione di immobilità schermavano Jeff, mantenendolo, nella sfera dell'estraneità, un semplice di osservatore - questa volta può intervenire. Come interviene? Dopo aver recuperato le sue facoltà sensoriali, abbandonate in concomitanza dello "shock fascinativo" per la "prima" morte di Madeleine, diventa lui stesso un demiurgo e ricrea, a propria misura, la finzione perduta. Guarda Judy, la priva della sua identità e, novello Pigmalione, riplasma su di essa le fattezze di Madeleine, modello di perfezione, rendendola una Galatea, una statua d'avorio [5]. La progressione del racconto porta con sé due fondamentali conclusioni. In primis, prova quanto i nostri sensi, principali strumenti di relazione con la circostante realtà, siano aggirabili e dunque quanto quell'insieme di convinzioni e credenze che per mezzo di essi faticosamente costruiamo e che ci lega al mondo minacci di crollare da un momento all'altro. Ma soprattutto, questo delicato apparato speculativo, gioco di specchi sul guardare-essere guardato, si focalizza su una teoria che è alla base di tutto il corpus hitchcockiano e, in generale, del dispositivo cinematografico: lo sguardo crea. Guardare qualcosa significa non soltanto finire complici di ciò che si guarda, ma permettere che l'evento guardato accada. Questo assunto viene enucleato già in "La finestra sul cortile", solo che in quel caso lo spettatore diegetico e quello extradiegetico vengono protetti da un recinto divisorio tangibile (da qui la maggiore "serenità" della pellicola), mentre in "Vertigo" entrambi si ritrovano in un gorgo misterioso e inarrestabile, nel bel mezzo del processo in corso. Perciò, come lo spettacolo cinematografico non esiste senza gli occhi dello spettatore, così nulla di quanto accaduto fuori dalla finestra di Jeffries si sarebbe avverato se lui non fosse stato lì ad assistere, e niente avrebbe reso possibile il piano criminoso di Elster senza la testimonianza e la predeterminata reazione di Scottie.
A tal proposito, assume grande rilevanza la scelta di riferire in anticipo, allo spettatore fuori dalla diegesi, la soluzione del delitto. Fino a quel punto "Vertigo", con un andamento circolare ed enigmatico, si comporta come vera e propria proiezione audiovisiva di Scottie, una sorta di soggettiva metaforica che visualizza la vicenda con la lente deformante della psiche del protagonista. Questo è reso evidente non solo dal famoso effetto-vertigine che, sincronizzando una zoomata in avanti col movimento retrocessivo del carrello, materializza la fobia di Ferguson nelle mostruose fauci del vuoto o dall'aura rossastra che avvolge il profilo di Madeleine alla sua prima apparizione, associandola a una creatura ultraterrena, ma anche dalla progressiva scomparsa di alcuni personaggi dagli orizzonti della rappresentazione; uno per tutti, la protettiva Midge che ama Scottie senza essere corrisposta, e, nel momento in cui si azzarda a dissacrare la venerata immagine di Carlotta, annulla ogni ulteriore possibilità di relazione col personaggio. Quando più avanti un flashback e la lettera di Judy informano il pubblico delle vere dinamiche delittuose, si verifica uno scollamento temporaneo dalla prospettiva iniziale del film che sostituisce la sorpresa con la suspense. In seguito a questo slittamento, marca hitchcockiana per antonomasia, lo sguardo del pubblico viene riassorbito da quello di Scottie con una diversa e "tragica" consapevolezza. La domanda non è più "che cosa è veramente accaduto", ma "cosa accadrà", o meglio "come reagirà il personaggio-demiurgo di fronte al disfacimento della sua finzione". Solo grazie a questo salto, la congruenza dei punti di vista può generare una lettura autoriflessiva.


Il fantasma e il desiderio: una parabola pansessualista


I: "Non lo trova un po' perverso?"
H: "Be', ogni cosa, a modo suo, è perversa, no?"
(da un'intervista pubblicata su "Movie", n. 6, gennaio 1963) [6]

L'accezione di "vertigine" più lampante e incisiva rimane senza dubbio quella sessuale. "La donna che visse due volte" si incentra prevalentemente sul sesso e lo affronta con piglio insospettabilmente materialista. L'ossessione di Scottie nei confronti di Madeleine non ha alcun fondamento sentimentale, bensì si manifesta come una pulsione psichica istintuale insopprimibile. Non conoscendo Madeleine, Scottie non ama Madeleine in quanto individuo e tantomeno gli interessa intraprendere una relazione di questo genere. Di fatti, l'assillo di Scottie non è una persona, ma un'immagine carnificata, un oggetto femminile a cui non intende rinunciare. A conferma di questa tesi basti considerare il suo rapporto morboso con Judy: sa che quella donna non è realmente Madeleine, ma non gli importa. Ciò che conta è che sia come Madeleine, che porti gli stessi abiti e le stesse scarpe, che abbia lo stesso sguardo, portamento, colore dei capelli, acconciatura. Quindi, il sesso paradossalmente non implica la nudità, quanto l'attaccamento feticistico a una figura ideale. Durante la celeberrima intervista con Truffaut, Sir Alfred lo spiega senza mezzi termini, tirando in ballo la sequenza della "resurrezione" di Madeleine: "È la situazione fondamentale del film. Tutti gli sforzi di James Stewart per ricreare la donna, cinematograficamente, sono mostrati come se cercasse di spogliarla invece che di vestirla. E la scena che sentivo di più era quando la donna torna dopo essersi fatta tingere i capelli di biondo. James Stewart non è completamente soddisfatto perché non ha raccolto i suoi capelli in uno chignon. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che è quasi nuda davanti a lui, ma si rifiuta di togliersi le mutandine. Allora James Stewart si mostra supplichevole e lei dice: ‘D'accordo, va bene', e ritorna nel bagno. James Stewart attende. Attende che ritorni nuda questa volta, pronta per l'amore" [7].
In campo psicanalitico, bisogna imprescindibilmente tener conto dell'analisi di Robin Wood [8] che elabora un discorso onnicomprensivo. Per lo studioso, la sequenza d'apertura è la schematizzazione filmica della seconda topica freudiana: il criminale in fuga rappresenta l'Es, matrice caotica della psiche legata al principio del piacere, il poliziotto che muore nel tentativo di salvare Scottie il Super-Io, la coscienza morale associata alla parte genitoriale maschile, mentre il protagonista è l'Io che resta aggrappato alla grondaia, sospeso per tutto il film tra la legge e la libido. Wood spiega meglio anche il rifiuto dell'amore romantico da parte di Scottie che vede Midge come un modesto surrogato materno troppo accessibile da cui svincolarsi, mentre Madeleine come l'obiettivo privilegiato delle sue mire erotiche, un'entità inesistente, irraggiungibile. È un fantasma il cardine del desiderio maschile [9]. Un fantasma come il cinema che infesta lo schermo per qualche ora, e poi si dissolve.


Il labirinto polisemico e la vertigine interpretativa


Alfred Hitchcock era soprattutto un eccezionale formalista e solo la sua impareggiabile capacità di gestire ogni ingranaggio della macchina filmica ha sganciato le sue opere dalle meccaniche di genere, portandole al grado universale di saggi sull'umano. Il suo chiodo fisso era il cosiddetto "cinema puro", cioè un distillato di quelle componenti che attenevano esclusivamente alla comunicazione cinematografica. Com'è noto, nel corso dei suoi film, spesso in posizione centrale, pone lunghe sequenze prive di dialoghi, in cui a parlare sono "soltanto" le immagini, la durata, il movimento. Nel caso de "La donna che visse due volte", ad esempio, i dieci minuti muti in cui Scottie segue la vettura di Madeleine svelano da soli l'essenza dell'opera: nei graduali cambi d'espressione il maturare della sua passione malata, nel dedalo inestricabile di strade l'ossessione che lo consuma. Parallela alla volontà di riportare il mezzo alla massima limpidità, vi è la consapevolezza che la Settima Arte nasce ibrida e che la compresenza di svariati codici artistici è insita nella sua natura. Così, il Maestro attinge a piene mani dai vicini universi della pittura, dell'architettura, della grafica, della musica, della danza per comporre le sue pellicole intersecando e sovrapponendo strati di significato. Di conseguenza il suo capolavoro, "Vertigo", non può che essere un labirinto polisemico in cui la cooptazione di matrici molteplici produce un surplus di senso e suggestione, in cui il tutto si scopre sempre superiore alla somma delle singole parti. Al conseguimento di ciò è stato ovviamente preziosissimo il contributo dei suoi collaboratori. Gli incubi grafici di Saul Bass disegnano le traiettorie dell'assurdo, la fotografia di Robert Burks esalta i cambi di luce e gli interventi del colore come riflesso dei disordini interiori dei personaggi, la sublime ipnosi della sinfonia di Bernard Herrman si evolve, ricorsiva, in una sorta di paradossale effetto Droste musicale. Un mare magnum di questa portata seduce e intimidisce chi, durante la traversata, tenta di ricondurlo a un sistema chiuso e inequivocabile, salvo poi ammettere l'inevitabile parzialità della propria esegesi. Allora quella generata da Hitchcock diventa, in ultimo, una vertigine interpretativa, che, attraverso il pensiero di innumerevoli interpreti, trasforma in puro spettacolo lo stesso sforzo ermeneutico. E lo ripaga generosamente col suo abbacinante splendore.



[1] Per provare quanto fosse possessivo se non proprio patologico il rapporto di Hitchcock con le sue "bionde virginali", Donald Spoto, nella ricca biografia dedicata al Maestro ("Il lato oscuro del genio. La vita di Alfred Hitchcock", Lindau 1999), non solo riporta alcune delle tremende e perfide sfuriate contro la "traditrice" Vera Miles, ma ipotizza che questi episodi abbiano anche dei nessi con la relazione tra Scottie e Madeleine/Judy. Fatto sta che il rancore non si smorzò nemmeno col passare del tempo; vent'anni dopo Hitchcock ricordò: "Stavo per avere una ricaduta quando seppi la notizia. Era il suo terzo figlio e le dissi che un figlio era normale, due lo erano abbastanza, ma il terzo era veramente osceno. Non le importò nulla del commento".
[2] Suggestivo e molto significativo il titolo proposto da Anderson per il film, "Darkling, I Listen" (in italiano, "All'oscuro, io ascolto"), desunto dalle prime parole del verso iniziale di un'ode di Keats, "To a Nightingale".
[3] Citato in "Dizionario teorico e critico del cinema" di Jacques Aumont e Michel Marie, Lindau, Torino 2007.
[4] A questo proposito, rimandiamo a "La vertigine in una spirale. La centralità della figura spiraliforme in La donna che visse due volte" di M. Teti (http://annali.unife.it/lettere/article/view/212).
[5] È qui esposta la lettura di Victor I. Stoichita che vede nel "simulacro" il fondamento dell'immaginario occidentale lungo tutta la sua storia (cfr. "L' effetto Pigmalione. Breve storia dei simulacri da Ovidio a Hitchcock", ed. Il Saggiatore, 2006).
[6] Riportata in Alfred Hitchcock, "Io confesso. Conversazioni sul cinema allo stato puro", a cura di S. Gottlieb, Minimum Fax, 2008.
[7] Cfr. François Truffaut, "Il cinema secondo Hitchcock", Il Saggiatore, pag. 203
[8] Cfr. Robin Wood, "Hitchcock's Films Revisited", Columbia University Press, pagg. 108-131
[9] Riporta Bill Krohn in "Alfred Hitchcock al lavoro" (Rizzoli, 2000) che, a un certo punto della bozza di sceneggiatura scritta da Hitchcock e Coppel, si legge "to lay a ghost", letteralmente "stendere un fantasma". In inglese il verbo "to lay", in questo caso traducibile con "esorcizzare", può significare anche "possedere sessualmente". Non dimentichiamoci che, nonostante la spiegazione razionale fughi ogni dubbio sul mistero della donna, c'è un punto che resta oscuro: quando Madeleine si reca al McKittrick Hotel la vediamo entrare e affacciarsi alla finestra. Scottie arriva nella sua camera, ma lei è scomparsa e noi non l'abbiamo vista uscire. In quell'occasione soltanto non viene smentita la sua natura fantasmatica.


06/10/2014

Cast e credits

cast:
James Stewart, Tom Helmore, Kim Novak, Barbara Bel Geddes, Henry Jones


regia:
Alfred Hitchcock


titolo originale:
Vertigo


distribuzione:
Paramount


durata:
128'


produzione:
Paramount Pictures


sceneggiatura:
Alec Coppel, Samuel A. Taylor


fotografia:
Robert Burks


scenografie:
Henry Bumstead, Hal Pereira


montaggio:
George Tomasini


costumi:
Edith Head


musiche:
Bernard Hermann


Trama
Dopo un grave incidente in cui un suo collega ha perso la vita, John Ferguson si è ritirato dal corpo di polizia a causa della sua acrofobia. Un giorno, viene incaricato da suo un ex compagno di college di sorvegliare sua moglie Madeleine, per via di strani comportamenti e tendenze suicide. Ferguson, rapito dalla bellezza della donna, tenta di liberarla dai suoi fantasmi. La salva dalla morte una prima volta, ma non riesce a impedire che si butti da un campanile. Un anno dopo, ritrova nel volto di una passante lo sguardo di Madeleine e l’ossessione di riportare in vita l’oggetto d’amore perduto riaffiora.