Ondacinema

recensione di Matteo Pennacchia
7.5/10

Se ne conoscono, persone così. Tendenzialmente depresse, col veleno sempre in bocca (da inghiottire o sputare addosso agli altri), solitarie, egotiche, vittimiste, che guardano il mondo col mix fra compassione e disgusto che si è soliti appioppare al cane morto a bordo strada. Generalismo antropologico da bar, ma lo Steven Morrissey di Mark Gill è questo, almeno nella prima sezione di film. Ciò che in America sarebbe il portrait of a serial killer (occhio: Steven legge "The Monsters of the Moors" di John Deane Potter, inchiesta sugli assassini nati Brady e Hindley), in Inghilterra è un ritratto dell'artista da giovane, ed è, nero su bianco, odioso. Stretford, Manchester, fine anni '70. Steven tira avanti a reflussi biliari. Scrive sul diario che la vita fa schifo perché non si è ancora accorta di quanto lui sia un genio, tratta a schiaffoni chi riesce a volergli bene, parla forbito e pungente per grandeur (quel poco che parla). Odioso anche per chi, spettatore, apprezza il genere, ma la sua odiosità è un programma di regia e sceneggiatura studiato - troppo carico all'inizio, meglio dopo. E poi neanche il vero Morrissey conta in cima alle sue prerogative pubbliche la simpatia. Dubitiamo abbia gradito, peraltro: le tag di "England Is Mine" dicono ovunque di un "biopic non autorizzato", benché ispirato all'autobiografia del cantante. Qualsiasi retroscena legale si possa immaginare, Mark Gill è andato dritto e ha fatto suo il film, ha fatto il suo film, dove il protagonista è un tizio chiamato Steven che accidentalmente è anche il futuro leader degli Smiths.

Dunque l'impulso costante di prenderlo a calci (Morrissey, non Gill) nei primi quaranta minuti non viene da falle nella costruzione del personaggio, ci è trasmesso con intenzionalità evidente. La diegesi rischia tutto, si comporta a imitazione della psicologia del protagonista. La nostra dinamica di immedesimazione ruota sull'antipatia, anti-empatia, verso Steven. Da lui scivola ai margini, si attiva nei comprimari (i quali, siccome il film vede attraverso gli occhi di Steven, sono tutti un po' fantocci, specie le due "coscienze" Anji e Linder con cui il narciso dialoga a suon di virgolettati shakespeariani). In pratica, Gill non vuole farci provare ciò che prova Steven, ma ciò che si prova ad avere a che fare con lui. Che è uno stronzo. Poi, uno a uno, i comprimari abbandonano il film, stanchi di essere insultati o ignorati. Steven resta da solo (e noi assieme a lui) con l'epifania della sua fragilità irredimibile, e da provetto egomaniaco ci avvince al suo dolore. Che ci ferisce. E che però, una volta tanto, non si attenua in itinere nella catarsi, macera invece nel compromesso (ovvero, alla fine dell'arco narrativo l'eroe non è cambiato ma sprofondato nel paradosso: per stare bene ed essere se stesso - addirittura sopra un palco - deve soffrire e mascherarsi), tenendo in bilico una a-morale della favola (a maggior ragione sapendo noi che gli Smiths hanno venduto milioni di album: qual è stato il prezzo? cosa è stato necessario fare?).

"England Is Mine" sostiene un discorso sul rapporto fra l'uomo e il fare nella messa in scena dell'ossessione del lavoro. Tarlo di Steven - che per lungo tempo smista scartoffie nell'ufficio tributi cittadino - e di chiunque lo circondi. La succursale Stretford è il modello in miniatura della Manchester post-operaia in crisi economica e occupazionale che a breve (il film va dal 1976 al 1983) diventerà la Madchester del party nonstop nelle fabbriche fallite (The Haçienda), al ritmo del doposbornia dance - nel cono d'ombra di Ian Curtis - dei New Order e degli Happy Mondays. Un universo in embrione da cui il Morrissey del film sta lontano, o che forse bazzica lontano dalla nostra indiscrezione, a lato del racconto. Non ci sono sequenze dedicate (forse mezza, breve e astratta, virata al rosso, in cui comunque il personaggio si estrania dal contesto di ciò che pare un night club; nel frattempo in scaletta di soundtrack sonorità afferenti vengono divorate da Shangri-Las e Vandellas). Steven non fa cose simili. Steven non fa. Mentre tutti all'intorno si riuniscono sul fil rouge dell'impiego professionale quale significato della vita (un impiego artistico, chitarrista o pittrice; o meno romantico, commessa di supermercato), Steven è uno di molte parole - scritte - e pochi fatti. In un'inquadratura replicata da "Il pasto nudo" (ebbene sì), il concetto si esemplifica. Un particolare del volto di Steven, mentre lui siede alla scrivania. L'immagine delle sue mani posate sulla macchina da scrivere (unico canale espressivo verso l'esterno da sé) si riflette nelle lenti degli occhiali che indossa. In Cronenberg (dove le mani di Bill Lee erano in azione) stava a dire di una fecondità scopica, di un voler "visualizzare la scrittura, rendere visibile il Verbo" (Canova), prerequisito essenziale di un "cinema che si fa corpo" (ancora Canova). Nel nostro caso (dove le mani esitano) è la descrizione di un orizzonte di vita passivo, stracolmo di parole mai finalizzate in gesti. Anche la costellazione musicale a cui guarda Steven appare più sotto forma di segno, di nome (scritto sul dorso della cassetta dei Roxy Music, sulla copertina del vinile dei Mott the Hoople) che non tramite audio, né a caso (la vista di) un poster del "parolista" Oscar Wilde scatena un tremendo accesso d'ira.

Se Cronenberg realizza "un film non da ma su 'Il pasto nudo'" (sempre Canova), Gill ne realizza uno non su ma con Morrissey. E lo fa adoperando una regia che nasce alla fonte di un'idea di regia, presieduta dall'estetica, riorganizzata in una partitura di carrelli, fuori fuoco, piani ravvicinati, assi di ripresa frontali, ralenti - né calligrafici né onniscienti, disposti a scopo di aderire a una soggettività. Il montaggio non evita analogie elementari (Steven scopre che la sua ex migliore amica sta morendo / dettaglio su vetro incrinato di finestra battuta da pioggia, eccetera) ma con una coerenza retorica che ci usa la cortesia di non pigliarci per fessi, semplicemente lavorando sulla figurazione della temperatura emotiva sottesa dalla misuratissima performance di Jack Lowden (bravo, promosso in ogni materia: ritenzione, black humor, dramma). L'attore, già in "Dunkirk", si scazzotta con il convitato di pietra (gli Smiths) e ne esce quasi illeso. Della band c'è sentore nello strimpellio di Johnny Marr (Laurie Kynaston), nel mimetico Lowden durante una cover commovente di "Give Him a Great Kiss", il resto è allusione sorniona (colloquio in agenzia, a Steven viene offerto il lavoro di impacchettatore di carne in macelleria e tu ti aspetti che risponda "Meat is murder!"). E questa non è l'unica implicazione a stabilire che è irrilevante essere cultori, ma nemmeno sapere dell'esistenza, di Morrissey e del suo gruppo per avere buon motivo di guardare - e apprezzare - "England Is Mine".


28/01/2018

Cast e credits

cast:
Jack Lowden, Jessica Brown Findlay, Jodie Comer, Simone Kirby, Katherine Pearce


regia:
Mark Gill


titolo originale:
England Is Mine


durata:
94'


produzione:
Baldwin Li, Orian Williams


sceneggiatura:
Mark Gill, William Thacker


fotografia:
Nicholas D. Knowland


scenografie:
Helen Watson


montaggio:
Adam Biskupski


costumi:
Yvonne Ducket, Oliver Garcia


Trama
Stretford, Manchester, anni 70. Il giovane Steven Morrissey passa il tempo a sentirsi incompreso, odiare il mondo, fare un lavoro che non gli piace, e scrivere stroncature di concerti o poesie. Spinto da due sue amiche, decide di provare a entrare in una band, e se all'inizio le cose non sembrano andare bene, in realtà si stanno ponendo le basi per quelli che saranno gli Smiths.