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recensione di Pietro S. Calò

Alain (Maurice Ronet) alla fine di una lunga e dolorosa riflessione stabilisce che il suo tempo è finito. Si dispone al congedo ma le cose non si svolgono come le aveva immaginate. 
Adattato a sceneggiatura dallo stesso Louis Malle, "Feu follet" è un romanzo breve che Pierre Driu la Rochelle portò a termine nel 1931 dopo che nel 1929 aveva dato alle stampe "Adieu à Gonzague". 

Nel novembre di quell'anno un suo caro amico poeta e dadaista, Jacques Rigaut, si era tolto, giovanissimo, la vita e così Drieu gli rendeva omaggio e cercava di placare il senso di colpa di non essergli stato sufficientemente vicino. "Adieu à Gonzague" è una sorta di resoconto in terza persona vibrante e appassionato anche se la forma "post factum" potrebbe suggerire una disamina fredda e razionale, metabolizzata. 

Solo due anni dopo Drieu portò a termine una ricostruzione più articolata e ancora più emotivamente densa, scritta in prima persona che prenderà il titolo di "Feu follet", fuoco fatuo. Come a chiudere il cerchio, nel 1945 lo stesso Drieu si toglie la vita, quasi a testimoniare la medesima fattura di un'Angoscia che li aveva perseguitati entrambi fino al gesto estremo. 

 Malle rimase abbastanza fedele al pretesto, salvo sostituire una all'epoca misconosciuta eroina con il più familiare alcol e traslare il fattaccio nel presente, nei dintorni di quella Saint Germain des Prés che fu il territorio di Jean-Paul Sartre e di quell'Esistenzialismo di cui fu alfiere. 
Il romanzo, breve e crudele, presentò da subito a Malle l'inconveniente di una profonda scrittura introspettiva e di uno svolgimento a tesi carico di entimemi, molto a loro agio sulla carta stampata ma poco "cinematografici". Il regista aggirò l'ostacolo dotando Alain di quella innocua psicopatologia che ci è nota come il "parlare da soli". 
Siamo tra Parigi e Versailles, dove ha sede la clinica del dottor La Barbinais, una casa di cura esclusiva che funziona come un albergo di giovani e vecchie pecore nere di famiglie nobili o quantomeno alto-borghesi della Ile de France. 

Parigi ci viene mostrata in una fotografia in bianco/nero leggermente sovraesposta che la rende rarefatta, quasi impalpabile, un luogo di profonda anomia in cui la cinepresa si sofferma in primi piani di sguardi e mezze figure che camminano; il loro è un movimento di scandaglio, come tanti periscopi che attendono alla loro funzione primaria di evitare incontri che non sarebbero altro che collisioni. 

Così, la gente in marcia e lo stesso Alain sono accompagnati da carrellate a passo d'uomo che si chiudono in rassemblement, riunioni improvvisate di individui accomunati da una insegna che è l'unico motivo del loro stare insieme: si tratti di un bar, una clinica, un albergo, li vediamo come quei piccioni di città, sempre alla ricerca di un cornicione, un monumento... 

 Alain è un bell'uomo e ha la faccia tonda e regolare di Maurice Ronet, icona del cinema di Malle e esso stesso dandy come lo fu lo sfortunato Rigaut. 
La sua figura è disegnata con una perizia estrema. 
Fino alla fine seguiremo e soffriremo le ultime ore di un uomo disperato senza avere compreso pienamente la matrice della sua angoscia di cui offre decine di indizi nessuno dei quali inequivocabili: il suo sorriso amaro, i suoi slanci improvvisi e imprevisti, le sigarette irlandesi che accende e spegne in continuazione, la sua capacità di restare sempre nelle righe, deciso ma cortese, inesorabile ma sempre disposto al perdono. 

La sequenza in cui prende in mano un Cinzano dopo quattro mesi che non tocca alcol è, da questo punto di vista, magistrale: Alain si è appena congedato dai fratelli Minville (poco cervello e tanta azione, sono adesso terroristi dell'OAS) che gli lasciano, inavvertitamente, il bicchierino nel dehor del famoso Café de Flore. Alain resta da solo e si guarda intorno nel mentre si diffondono le note della "Gnossien" di Erik Satie. Per quanto si tratti sicuramente di un suono off, viene agevole pensarlo a una music on the air, una manciata di atomi provenienti da chissà dove e che colpiscono le orecchie di Alain con lo stesso procedimento con cui gli atomi dei fiori ci colpiscono il setto nasale con una fragranza di cui è spesso difficile rintracciare la provenienza.

Alain guarda fisso il suo tavolino, ingolfato di cose: posacenere, cartacce, sottobicchieri, acqua... che stanno lì a testimoniare il vitalismo dei due fratelli appena andati via e di cui il bicchierino è solo un elemento tra gli altri. Inizia a guardarsi intorno, gli occhi spalancati, l'interesse pari a zero. 

Una cabrio con dei draguer all'interno strombazza allegra e sgomma via nel mentre una jolie fille nel dehor cerca di farsi notare dal bell'Alain che la ignora. Un vecchietto si guarda intorno circospetto e intasca una manciata di cannucce di plastica nel mentre Alain abbassa lo sguardo imbarazzato. Si appoggia allo schienale e fa un sospiro profondissimo, come si fosse dimenticato di respirare da una buona mezz'ora e la sua piccola cassa toracica sembra schiantarsi da quella boccata, troppo profonda per la sua capacità. 

Appena rinfrancato, Alain si stringe nelle spalle con una smorfia di una tenerezza tale che avrebbe strappato un abbraccio anche al peggior cuore di pietra ma nessuno pare accorgersi di lui, anche la jolie fille ha gettato la spugna e Alain, con un complicato movimento scacchistico porta a sé il bicchierino che beve tutto d'un fiato senza dramma, senso di colpa, libidine. 
È il barman giunto a mettere un po' d'ordine sul tavolino che strappa Alain da uno stato di sospensione, una reverie interrotta bruscamente che lo riporta al suo ultimo entimema: vivere o no. 
Perché è nient'altro che questo il tema del film (e del romanzo): trovata agevolmente una ragione per morire, si tratta adesso di immaginare o addirittura esperire una ragione per vivere.
In tutti i suoi incontri, con persone che comunque gli vogliono bene, Alain non la trova.
L'incontro col vecchio amico di tante bisbocce, il molle Dubourg (Bernard Noel), è quello che meglio sintetizza l'amara verità. 
Dubourg ha paura di Alain. 
Teme di essere smascherato, giudicato, teme di dover ammettere che la sua salvezza non è altro che l'ultima presa in giro, il più stupido dei compromessi firmato da un uomo mediocre. 
Dubourg non può aiutare Alain, nemmeno a morire: deve sostenere il suo compromesso, spergiurare di essere felice, paziente, saggio, di aver elevato "le cose che lo divertivano" alle "cose che lo interessano" talché adesso scrive dei ponderosi saggi sull'Antico Egitto. 
Ama profondamente sua moglie, un essere insignificante ma che lui, con un profondo sforzo creativo, patetico, disegna come un essere solo apparentemente freddo e silenzioso, un pozzo profondo e oscuro nel quale, al culmine della discesa, trova finalmente la luce. 

Si tratta di un colloquio tra due persone completamente spente, con la sola differenza che Dubourg vuole illudersi di essere felice laddove Alain ha abdicato; eppure per una sola volta in tutto il film lo vediamo "acceso", nell'unica occasione che gli si presenta, quando viene a salutarlo una delle figliolette di Dubourg in cui il dandy rivede finalmente se stesso. Entrambi sono infatti attachant, quella qualità che nella lingua italiana non ha un corrispondente così preciso e indica quelle persone, come Alain, come i bambini in generale, che esercitano una forte seduzione, un magnetismo che si traduce con la protezione che viene loro accordata, come la custodia di qualcosa di molto prezioso. 

L'incontro con Dubourg, che congedandolo avrà tirato un profondo sospiro di sollievo, si è svolto in un quadro cromatico irreale. Il sole è tracimato dalle porte, dalle finestre, dai balconi fino a raddoppiarsi nella passeggiata ai Jardin du Luxembourg in cui il caratteristico tufo bianco dei suoi viali rende l'ambiente etereo. 

Per contrasto, subito dopo Alain incontra quasi casualmente Eva (Jeanne Moreau, si ricostituisce così la diabolica coppia de "L'ascensore per il patibolo", 1958). Eva rappresenta il pessimismo che Alain in cuor suo condivide: "Credo solo nel sonno - dice - E così sono inalterabile. E distrutta". 
Eva è una tossicomane che crede nell'oppio e vorrebbe che Alain credesse nell'alcol con la stessa forza; è convinta che da questo, come lei dall'eroina, troverà la ragione di vivere. Distrutto, certo. Ma inalterabile e soprattutto lontano le mille miglia dalla mediocrità di un Dubourg che anche lei conosce e disprezza. 

Nella sua villetta buia, estranea al mondo e alle sue mediocrità, Eva sprofonda nella poltrona e nell'eroina e lascia andar via l'amico convinta di non averlo convinto, sicura che Alain andrà a fare qualcosa di irreversibile ma che lei sarebbe incapace di trattenere. Anche lei non è se non patetica. 

Tutto sommato, l'indagine di Alain è un successo: la decisione che andrà a prendere è la risposta precisa al suo interrogativo ed essendo ormai sicuro che la gente concentra il massimo dei suoi sforzi a trovare giustificazioni alle loro mediocrità, adesso sa che la parola definitiva spetterà a chi sarà in grado di porgli le cose nella più assoluta semplicità. 

Così, l'ultima stazione è la casa di Cyrille (Jacques Sereys), l'amico ricco e poco avvezzo alle morali. Lì, in una sorta di parodia raciniana l'enigma trova la sua risoluzione, al culmine di un borghesissimo triangolo costituito dallo stesso Cyrille, la sua bella moglie Solange (Alexandra Stewart) e un avventuriero qui s'appelle Brancion (Tony Taffin) che sembra uscito da una qualche pagina africana di Albert Camus. 
Non si può tacere che il film di Malle pur mantenendo l'unità temporale, il presente, il 1958, non è altro che una complessa distopia che integra grandi momenti della vita culturale francese, primi tra tutti il Dada e l'Esistenzialismo. 

Ritroviamo, nel gesto estremo del Dada il Roland Barthes che scopre il senso ottuso delle cose, la verità che sfugge ma che è sempre lì, nessuna che l'abbia invitata ma lei si è presentata lo stesso: la ritroviamo, attraverso la cinepresa, nello scrutare in dettaglio le smorfie di Jeanne Moreau, nella rassegna dettagliata dell'altarino di Alain nella sua camera d'ospedale: ritagli di giornali su cui spicca un titolo NAVRANT (straziante), bamboline, telegrammi, assegni. 

Su uno di questi oggetti Alain indugia, perplesso. È una bandierina americana stampata su entrambi i lati. Alain la scruta da un lato, poi dall'altro, ci soffia sopra ma niente cambia. Si presenta duale ma è totalmente singolare, sfida le più semplici verità della vita sociale, addirittura contraddice la moneta. Essa è una, fuori di ogni logica, addirittura sconveniente. 
È la semplificazione che ha sempre sconfitto Alain: americana è Dorothy, la moglie che lo ha abbandonato; americana è New York, la città che gli ha fatto conoscere l'eroina (nel film chiaramente questo passaggio non c'è). 
La sua chute, la sua discesa all'Inferno non ha niente di misterioso, rappresenta semplicemente "le cose come sono", senza girarci intorno come ha invece fatto il suo amico Dubourg per tutta la vita, al solo scopo di giustificare la sua mediocre esistenza.

Viene il sospetto che se Alain si fosse trovato in una realtà semplificata, come quella del soldato nel capolavoro di Dalton Trumbo "E Johnny prese il fucile" (1971), ne avrebbe avuto la vita salva, essendo queste due storie una moneta con due facce, con la sfortuna di occupare ognuno quella sbagliata. 
Innocuo "come una biscia che scivola tra due massi", Alain confessa infine la fattura della sua angoscia: essere incapace di prendere le cose, trattenerle, abbracciarle. Eppure il soldato Johnny non aveva braccia né gambe... 

A quest'uomo tutti riconoscono un gran cuore e che proprio in quel piccolo spazio concentra la più parte delle sue attività: inspirare il tabacco, espirare il tabacco, inspirare l'aria espirare l'anidride carbonica, inspirare l'angoscia espirarla raddoppiata. Non il cervello che mai nulla ha calcolato; non la pancia che mai lo ha guidato nelle sue azioni; neppure lo stomaco implume, per niente avvezzo all'alibi e alla giustificazione, o il bacino perché non ha mai saputo far l'amore o le gambe che mai lo hanno portato via dalla strada della perdizione: il fallimento di Alain sono le mani incapaci di trattenere. E quelle, e il cuore, saranno il suo ultimo e definitivo atto... 

 Louis Malle è a volte considerato un regista della Nouvelle Vague. 
In realtà, pur condividendo alcuni loro stilemi (primo tra tutti l'analisi dettagliata dei personaggi, i loro climax) non fu mai un loro sodale e mentre i "giovani turchi" si facevano le ossa scrivendo di cinema, Louis aveva assistito Robert Bresson nella stesura della sceneggiatura di "Un condannato a morte è scappato" (1956) e aveva già ottenuto dei riconoscimenti per dei documentari subacquei in collaborazione con Jacques Costeau (nel 1955 fu addirittura Palma d'oro a Cannes con "Il mondo del silenzio"). 
Dopo una proficua attività in patria ("Gli amanti", 1958; "Zazie nel metrò", 1960; "Arrivederci ragazzi", 1987) si trasferisce in America dove ottiene un grande successo con "Il danno" (1992).
Muore nel 1995, a Beverly Hills.


26/10/2015

Cast e credits

cast:
Yvonne Clech, Lena Skerla, Maurice Ronet, Jeanne Moreau, Hubert Deschamps


regia:
Louis Malle


titolo originale:
Feu follet


distribuzione:
Lux Compagnie Cinématographique de France


durata:
108'


produzione:
Nouvelles Éditions de Films (NEF)


sceneggiatura:
Drieu La Rochelle (romanzo originale) - Louis Malle (sceneggiatura)


fotografia:
Ghislain Cloquet


scenografie:
Bernard Evein


montaggio:
Suzanne Baron


costumi:
Gitt Magrini


musiche:
Erik Satie (eseguite da Claude Helffer)


Trama
Alain alla fine di una lunga e dolorosa riflessione stabilisce che il suo tempo è finito. Si dispone al congedo ma le cose non si svolgono come le aveva immaginate.