Ondacinema

recensione di Diego Capuano
7.5/10

Tendenza e caratteristica di un certo cinema britannico degli anni 2000, le biografie dedicate alle aristocrazie delle Loro Maestà, quando caratterizzate da un gusto (della messa in scena, dei dettagli, del comparto attoriale), sono i prodotti cinematografici forse in assoluto più apprezzati (almeno dalla critica) d’Oltreoceano, pronti a gareggiare al pari di pellicole statunitensi per i più prestigiosi premi. Oscar compresi.
Questi film hanno le loro radici in: le opere di William Shakespeare, alcuni film storici britannici degli anni ’60 (es. “Becket e il suo Re”, “Un uomo per tutte le stagioni”), il cinema di James Ivory (almeno quello degli 80-90). Al contempo, si avvalgono talvolta di una chiave umoristica che è qua e là la stessa che avvalora il percorso del film e dona quell’umanità e trasparenza necessaria per andare al di là della mera raffigurazione.

Con la morte del padre Giorgio V (1936) e la successiva abdicazione (un anno dopo) del fratello Edoardo VIII, designato al trono, il riluttante Albert Frederick Arthur George Windsor, poi Giorgio VI (Bertie per la famiglia e gli amici), regnò durante la seconda guerra mondiale e fu, successivamente, tra i principali promotori della ripresa economica e sociale della Gran Bretagna. C’era un altro problema personale che Giorgio VI dovette combattere: la balbuzie, che diventava un handicap nei numerosi discorsi (prima da Duca di York, poi da Re) che era obbligato ad affrontare. Lo aiuta a risolvere il problema Lionel Logue, poi amico storico del Re, tanto da essere in seguito insignito prima del titolo di Cavaliere dell'Ordine Reale Vittoriano, poi da quello di Comandante. A dispetto delle apperenze è possibile denotare ne “Il discorso del Re” punti di contatto con il precedente film di Tom Hooper, il calcistico “Il maledetto United”, soprattutto nel rapporto tra i due protagonisti: chi tra Giorgio VI e Lionel Logue è l’allenatore Brian Clough? Entrambi, naturalmente, ma mentre il primo è anche le squadre di calcio che Clough allenò, il secondo impersonifica una ideale continuazione dell’ assistente Peter Taylor.

I personaggi si muovono in pochi ambienti, perlopiù in interni, sebbene l’impressione di trovarsi in un teatro in scatola è smussata puntualmente da una regia e una sceneggiatura che non calca mai la mano, privilegiando il tocco leggero ai toni accesi. Basta vedere le soluzioni con le quali vengono risolte le sedute di correzione della balbuzie: dal canto alle incalzanti e liberatorie parolacce al chiacchiericcio confidenziale, è indubbiamente nell’incontro poco scontro tra Giorgio VI e Logue che il film si fa carico di un ritmo più free, un aspetto umano che emerge con una convinzione pari almeno alle sentite e sincere sequenze familiari (il rapporto del protagonista con la moglie e le piccole figlie). Il ritratto di Giorgio VI è di certo affettuoso e benevolo, anche se non edulcorato né stereotipato.
Resta maggiorente sospeso quello di Lionel Logue, medico logopedista australiano, con la passione del teatro e attore mancato.
La sceneggiatura di David Seidler offre a lui l’opportunità di scardinare la psicologia del Re, quasi andando a fondo della radice della sua balbuzie, cercandola tra i meandri della rigida e fino ad allora inattaccabile (almeno per Bertie) rigidità di una educazione almeno in parte da aggirare. Lionel resta in balia di Re Giorgio VI, pur essendone una sorta di “allenatore”. Emblematico è, in questo senso, lo sguardo che gli dona Geoffrey Rush nel finale: l’orgoglio di un uomo che ha raggiunto un suo obiettivo ma che si rende ben conto che sarà destinato a una vita trascorsa dietro ad un sipario, seppur onorevole.

Tom Hooper, che aveva precedentemente diretto due celebrate opere per la tv di impianto storico (“Elisabetta I” con Helen Mirren e “John Adams” con Paul Giamatti) si rifà il più delle volte a inquadrature frontali, che sembrano inchiodare i personaggi (spesso situati sulle estremità della composizione) allo sguardo dello spettatore. Inquadrature fisse alternate a pochi frammenti di maggiore mobilità, durante le quali la mdp segue di spalle o frontalmente Colin Firth (le carrellate del pre e post discorso).

Ma “Il discorso del re” resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. Situato nel XX secolo, quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un importanza capitale per il vivere quotidiano del cittadino (poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla povera gente, specie durante i conflitti bellici), il film è costruito da una incessante partitura dialettica che ci ricorda sia la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere (e in questa epoca storica è una lezione che andrebbe ripetuta sovente), sia che una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio. E se tutto ciò ne “Il discorso del re” funziona molto bene, il merito maggiore è forse del magnifico cast: Helena Bonham Carter e i comprimari non sbagliano un colpo e Geoffrey Rush tiene testa allo straordinario Colin Firth. Bisogna sottolineare che sarebbe preferibile ascoltarli in originale per cogliere tutte le sfumature? Per amarli.


30/01/2011

Cast e credits

cast:
Colin Firth, Anthony Andrews, Derek Jacobi, Jennifer Ehle, Timothy Spall, Michael Gambon, Guy Pearce, Helena Bonham Carter, Geoffrey Rush, Eve Best


regia:
Tom Hooper


titolo originale:
The King's Speech


distribuzione:
Eagle Pictures


durata:
118'


produzione:
See Saw Films, Bedlam Productions


sceneggiatura:
David Seidler


fotografia:
Danny Cohen


scenografie:
Eve Stewart


montaggio:
Tariq Anwar


costumi:
Jenny Beavan


musiche:
Alexandre Desplat


Trama
Bertie, che soffre da tutta la vita di una forma debilitante di balbuzie, viene improvvisamente incoronato Re Giorgio VI d’Inghilterra. Con il suo paese sull’orlo della guerra e disperatamente bisognoso di un leader, sua moglie, Elisabetta organizza al marito un incontro con l’eccentrico logopedista Lionel Logue...
Link

Sito ufficiale