Ondacinema

recensione di Matteo Zucchi
6.0/10

"Da non riuscire a stargli dietro"



"It" è probabilmente il capolavoro di Stephen King. Difatti è nel monumentale romanzo pubblicato nel 1987 che lo scrittore americano porta a compimento il suo personale Bildungsroman inserito in esplicite vesti di genere e al contempo crea alcuni dei punti fissi di quell'universo (anzi, Macroverso) narrativo che la saga della "Torre nera" (di recente ridotta per lo schermo in maniera purtroppo mediocre) espanderà enormemente. Pertanto un'opera di maturazione, sia per i protagonisti che per l'autore, e una pietra miliare della narrativa americana tardo-novecentesca. Non stupisce quindi che l'opus magnum dello scrittore che ha ricevuto più adattamenti nella storia del cinema dopo Shakespeare e Agatha Christie (così pare) abbia tentato l'industria hollywoodiana. Viceversa può colpire che le trasposizioni si siano limitate solo a due "pellicole", tra l'altro non così scontate a livello produttivo: l'iconico ma mediocre (e a basso budget) miniserial del 1990 e, ventisette anni dopo, il dittico diretto da Muschietti, indeciso tra il b-movie "di classe" delle recenti produzioni Blumhouse e il blockbuster di più ampio respiro, e forse fracassone, che il libro di King avrebbe facilmente permesso.

Ma non è questa l'unica contraddizione che anima, e dilania, l'adattamento in questione, indeciso tra la replica della formula utilizzata nel '90 e puntante ad una facile e immediata riconoscibilità delle pellicola mediante l'iconica figura del clown Pennywise (John Wayne Gacy docet) e un'interpretazione istrionica di questo (lì era Tim Curry, qua l'ora lanciatissimo Bill Skarsgard) e lo sviluppo di un mondo narrativo più complesso e popolato da personaggi di spessore, così come tra una maggiore corrispondenza al romanzo grazie al maggiore tempo a disposizione e il supporto dello stesso autore (ma la sfida è già persa in partenza con la decisione di separare saldamente le due sezioni narrative principali) e la necessità di rendere facilmente fruibile un'opera che fa delle digressioni e della frantumazione delle linee narrative e dei punti di vista uno dei suoi maggiori punti di forza. Ci sarebbe da discutere anche delle stesse scelte di regia del cineasta argentino, il quale pare a sua volta indeciso tra il citazionismo parassitario all'immaginario 80s che ora va tanto di moda e il rispetto dei cliché di messa in scena dell'horror coevo, fra jump scare e didascalismi.

Detto ciò si deve riconoscere che Muschietti (ora "diventato" Andy, più fruibile per gli americani) è un manierista di un qualche talento, come si era già potuto dedurre dalla deltoriana fiaba gotica "La madre", mediocre sul piano orrorifico quanto discreta su quelli visivo e atmosferico. Facile a questo punto risulta fare il nome di James Wan, il cui approccio citazionista e non univoco al genere, ha, anche in virtù della collaborazione con la succitata Blumhouse, influenzato come nessun altro il settore nell'ultimo decennio e quindi fornito un chiaro modello all'argentino. E difatti il distacco fra i due cineasti è evidenziato proprio dalla capacità precipua del malese di creare la tensione e ancor più di dare coerenza ai propri mondi narrativi (la saga di "Insidious" mi pare, nella sua modestia, l'esempio più evidente), elementi fondamentali per la piena riuscita di questo genere di adattamento. Eppure Muschietti dimostra a tratti di avere un'indubbia capacità nella composizione delle inquadrature e nella resa della natura allusiva della mostruosità di It mediante l'enfasi sui dettagli, similmente alla condizione soggettiva di queste quando si manifestano ai protagonisti, resi in primissimo piano con lo sfondo sfocato.

L'"It" del 2017 appare quindi circondato e frequentemente schiacciato da una sequela di paragoni, più o meno sensati, più o meno scomodi. Ma se vi è un confronto tanto obbligato quanto inglorioso è quello del film di Muschietti con l'immaginario Amblin da cui prende a piene mani, come già fatto da una pletora di film e serie pressoché illimitata e tra i quali "Stranger Things" è sì l'esempio più banale ma probabilmente anche quello più a fuoco (ma non si dimentichi Wan neanche in questa prospettiva). Il riferimento che si fa la carne stessa del progetto e la perfezione mimetica per quanto riguarda le consuetudini estetiche del periodo sono i pilastri di questo cinema (non solo) parassitario che fa di quello che Eco avrebbe definito il sentimento di piacere infantile del riconoscimento del medesimo in un racconto diverso la propria bandiera. Non che vi sia nulla di male nel riempire un film ambientato negli anni 80 di allusioni e stilemi propri di quel periodo ma il fatto che essi vengano principalmente dalla produzione dell'altro grande Stephen dell'epoca e dei suoi sodali (più interessanti le citazioni provenienti da cinema solo superficialmente affini, come quella, azzeccatissima, da "Badlands") rivela molto sulla natura del progetto e sulle motivazioni del cambiamento di ambientazione storica e la scissione delle due linee narrative.

Questa discussa decisione, sicuramente più sensata a livello produttivo e facilitante la comprensione da parte di coloro che non avessero letto il romanzo (facile pensare siano molti, data la mole degli incassi), distrugge l'unità e l'intricatezza dell'opera di King, linearizzando la fruizione e annullando tutta una serie di richiami interni ad essa, cosa cui contribuisce anche la completa elisione dei frammenti dedicati alle passate manifestazioni di It nella città di Derry, pur a volte intelligentemente inseriti nel film nella forma di allusioni visive o di meno intelligenti spiegazioni. Se tale scelta, semplificante il lavoro anche in sede di sceneggiatura (difatti dallo sviluppo abbastanza tormentato), avrebbe potuto dare un senso allo spostamento in avanti di un trentennio circa di tutte le vicende e magari permettere di portare la riflessione dell'originale sulla permanenza del Male e sul suo essere (al)le origini della storia americana all'interno del film, la sudditanza nei confronti di quel preciso immaginario cinematografico denota quali siano i ben diversi interessi degli autori della pellicola. La "facilità" è la categoria con la quale va analizzata l'opera di Muschietti: così come sono state prese le decisioni più facili dal punto di vista produttivo, così si è optato per l'immediatezza di Pennywise e di un coming of age piuttosto convenzionale e si è adottato un immaginario per mera retromania.

Se gli anni 2000 sono stati, secondo qualcuno, gli anni 90 con un decennio in più, non pare assurdo reputare gli anni 10 come gli anni 80 svegliatisi dopo un sonno (un incubo?) durato non a caso quasi trent'anni. O perlomeno così sembra vogliano essere narrati. Questo spunto avrebbe potuto spingere i realizzatori di "It" a perseguire una vera trasposizione del capolavoro di King e rendere così il giusto omaggio a quella, all'immaginario 80s e al loro, necessario, tradimento. Ci si può anche domandare cosa abbia spinto la New Line Cinema a optare per la forma filmica invece che mantenere la fluvialità della narrazione in un formato seriale, tra l'altro nel suo periodo di maggiore affermazione. Domande che dimostrano la loro irrilevanza di fronte agli incassi record e alle lodi continue, spropositate, che la pellicola ha ricevuto, anche da fonti non così prevedibili. Comunque si può tentare di immaginare come sarebbe potuta essere un'ipotetica serie di "It" scritta e diretta da, per fare due nomi, James Wan o da David Robert Mitchell. Quest'ultimo autore d'altronde del film che per la sua atemporalità, per la mutevolezza delle incarnazioni dell'orrore e per il mancato timore del grottesco, e quindi del tragico che è al contempo buffonesco (e l'opera di King fra omicidi inverosimili, legioni di morti che parlano dai lavandini e orge prepuberali non ne era certo priva), è il più fedele e al contempo originale discendente dell'"It" primigenio nel panorama cinematografico attuale. Per venire confermati nei propri timori o sorpresi nelle proprie speranze, come già fatto dall'a suo modo riuscito primo film non resta che attendere il sequel del progetto di Muschietti.
Appunto, "It Follows".

20/10/2017

Cast e credits

cast:
Jaeden Lieberher, Sophia Lillis, Finn Wolfhard, Jeremy Ray, Wyatt Oleff, Jack Dylan Grazer, Chosen Jacobs, Bill Skarsgård, Nicholas Hamilton


regia:
Andres Muschietti


distribuzione:
Warner Bros. Pictures


durata:
135'


produzione:
Warner Bros. Pictures, New Line Cinema, Vertigo Entertainment, KatzSmith Productions, Lin Pictures


sceneggiatura:
Cary Fukunaga, Gary Dauberman, Chase Palmer


fotografia:
Chung Hoon-Chung


scenografie:
Claude Paré


montaggio:
Jason Ballantine


costumi:
Janie Bryant


musiche:
Benjamin Wallfisch


Trama
Derry, Maine. 1987-8. Mentre iniziano le vacanze estive un gruppo di preadolescenti, detti i "Perdenti", si trova tormentato da visioni che paiono venire dalle loro più profonde paure. Indagando sull'origine di queste allucinazioni e confrontandosi con contesti e situazioni personali drammatici scoprono la radice primigenia del Male della loro città, l'antichissimo(a) It e la sua incarnazione più temibile, il clown Pennywise. Decisi ad affrontarlo a tutti i costi si rendono presto conto del prezzo che tale sfida può comportare.