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recensione di Matteo De Simei

Un regista di cinema è una persona che ha il tempo solo di pensare ai suoi problemi"
Ingmar Bergman

Bergman e Persona

Nell’intervallo di tempo che va dal 1956 al 1963 Ingmar Bergman diviene una delle colonne portanti del cinema mondiale in virtù delle sue immagini fortemente simboliche, pregne di modernismo, dei suoi contenuti saturi di religione e psicologia, del suo bisogno di trasfigurare in immagini i propri disagi personali. Sono in questi anni che la “persona” del regista svedese comincia a formarsi pienamente, i suoi tratti distintivi si elevano all’ennesima potenza attraverso l’esistenzialismo de “Il settimo sigillo”, l’autobiografia de “Il posto delle fragole”, al tema del viaggio e della fede ne “La fontana della vergine”, fino alla trilogia del silenzio costituita dai film “Come in uno specchio”, “Luci d’inverno” e “Il silenzio”. Proprio in questo periodo che vede la Weltanschauung del regista raggiungere l’acme di una lunga carriera, la sua fragilità emotiva si incrina pericolosamente in concomitanza dell’insuccesso commerciale di “A proposito di tutte queste... signore”. La decade d’oro si interrompe bruscamente anche per la critica che comincia a giudicare il suo operato ridondante ed egli, di riflesso, precipita in una profonda depressione psichica. Malattia che lo porta a rinchiudersi nella solitudine e nell’abulia più totale sino a quando nel 1965 (ri)prende vita un nuovo progetto. L’importanza di un film come “Persona” nasce da qua, dal bisogno interiore di imprimere in pellicola i sentimenti di un uomo distrutto che trova nel cinema quell’azione salvifica in grado di risollevarlo, dal bisogno di esprimere (ancora una volta) il senso dell’isolamento e la caducità del genere umano. Più semplicemente, dal bisogno di comunicare i suoi (nostri) problemi. “L’ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l’angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della nostra condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede, del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede”. In queste parole che la giovane infermiera Alma legge all’attrice/paziente Elisabeth, è racchiusa tutta l’essenza del cinema bergmaniano.


Persona e Persona

Ma l’idea che porta alla nascita di “Persona” è anche un’altra, ossia quella di dedicare un film al mondo attoriale, in particolar modo femminile, che sia contenitore di sogni, visioni e riflessioni sulla condizione dell’artista (è proprio Alma a confermarlo ad Elisabeth “Io provo una grande ammirazione per gli artisti, credo che l’arte di recitare abbia enorme importanza nella vita, specialmente per chi non sa superare da solo le sue difficoltà”), non a caso il film si incentra sull’improvviso mutismo di un’attrice, Elisabeth Vogler, avvenuto nel bel mezzo della rappresentazione dell’Elettra e affidata alle cure della giovane inserviente Alma. Proprio il nome dell’opera teatrale introduce lo spettatore in una delle chiavi di lettura più manifeste all’interno del film, la psicoanalisi (si pensi anche solo al titolo del film, “Persona” deriva dal latino e significa maschera, personaggio). La sequenza nella quale i volti delle due donne finiscono per confondersi l’uno con l’altro rientra nel conflitto tra l’essere e il sembrare profetizzato dalla dottoressa ad Elisabeth e di chiara impronta junghiana (“Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere [...] Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia”), pensiero che sarà recepito anche dalla giovane Alma (“E' tanto importante non mentire, dire la verità, avere accenti sinceri? [...] Mi chiedo se la tua pazzia non sia la peggiore di tutte. Tu reciti la parte della persona sana. E lo fai tanto bene che tutti ti credono. Tutti tranne me”).

Anche la religione rientra prepotentemente tra le chiavi di lettura del film, né può essere altrimenti in un film bergmaniano che si rispetti. Oltre alle criptiche e subliminali immagini di apertura che ritraggono la famigerata mano inchiodata, l’agnello sgozzato e il ragno nero (ritorna alla mente “Come in uno specchio” nel quale Dio appare proprio nelle sembianze di un aracnide) il messaggio più importante è legato alla figura femminile di Alma (anima), anello di congiunzione, e anzi, incarnazione a tutti gli effetti del finale de “Il silenzio”, quando il piccolo Johan legge sul treno la parola “hadjak” (anima, appunto); la fede è vista come il percorso spirituale che Alma intraprende alla scoperta di sé, tra paure, confessioni e sensi di colpa. In questo senso “Persona” ribadisce ancora una volta (e più di prima) l’angoscia del nostro tempo per la solitudine e per le paure incontrate nel cammino, foriere di un’alienazione e di un’incomunicabilità tali da portare a quell'esasperazione che neanche la fede più audace ha la possibilità di spiegare. Come spiegare infatti alla povera Elisabeth il perché di un gesto così estremo come quello sostenuto da un monaco buddista che si dà fuoco durante la guerra in Vietnam? Come spiegare a sé stessa quella foto nella quale è ritratto il suo unico figlio, non voluto e rinnegato, ancora tra le grinfie della guerra nazista?


Persona e il Cinema

Ma di “Persona” colpiscono altresì la propedeuticità delle immagini e la sua estetica. “La sola cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film”, ecco spiegato perché il titolo doveva assumere in un primo momento la denominazione di “Cinematografo”. Proprio come i primi dettagli che Bergman offre allo spettatore, ossia un proiettore che viene acceso, la pellicola che scorre. L’intero prologo di “Persona” è un inno alla storia del cinema, finanche un compendio di sperimentalismo che sfocia nel subliminale (il pene eretto), in sovraesposizioni, in un simbolismo fortemente emotivo che richiama l’inconscio collettivo junghiano (di cui sopra). L’evoluzione sonora che accompagna le immagini in modo ipnotico e netto, fino alle visioni fortemente traumatiche, è così fluida e tagliente da richiamare un certo genere che fa dello shock sonoro un principale cavallo di battaglia, l’horror. Parlando di estetica è impossibile ignorare la fotografia di Sven Nykvist (collaboratore bergmaniano di lunga data) magistrale nel chiaroscuro e nello studio dei due volti femminili (Elisabeth che passa dalla sua stanza a quella di Alma, immagine sottolineata da un fortissimo contrasto di luce e che rende smarrito anche lo spettatore, indeciso se ciò che ha appena visto sia realtà o solamente il frutto di un’allucinazione originata dallo stato di dormiveglia della giovane infermiera). Puramente estetiche sono anche le interpretazioni di Bibi Andersson e Liv Ullman, l’una persa nella confusione delle sue parole, emesse senza soluzione di continuità, l’altra, per contro, racchiusa in uno stato di afonia paralizzante che contravviene al verbocentrismo della pellicola.

Propedeuticità dicevamo. A quasi mezzo secolo dall’uscita di “Persona” sono stati tantissimi i film e i registi che hanno cercato di ripercorrere le tematiche affrontate da Bergman, dal soggetto femminile (“Identificazione di una donna” di Antonioni), alla psicoanalisi e al sogno. Nel 2001 David Lynch realizzò “Mulholland Drive”, capolavoro fortemente influenzato dai caratteri bergmaniani di “Persona”. Se il sogno per il regista svedese è la ricerca disperata di dare un senso all’esistenza, mostrando l’inquietudine di chi non ha ancora aperto gli occhi (Alma, che inizialmente ha come massima aspirazione un mediocre matrimonio ed una vita innocua) per Lynch è la volontà di dar voce alle oppressioni di una realtà da incubo, fagocitata dal potere. Alma/Diane e Elisabeth/Camilla sono ulteriori sdoppiamenti di una stessa ideologia (il mestiere di attrice, l’analisi introspettiva femminile, il sentimento di amore-odio, l’omosessualità, la disillusione e l’incomunicabilità, la morte) seppure i temi lynchiani siano prospetticamente più improntati sul surreale e sul nonsense.

Affine alla visionarietà di Buñuel e all’onirismo di Fellini (quest’ultimo considerato come un fratello), il cinema di Ingmar Bergman raggiunge con “Persona” la vetta della sua filmografia, proprio perchè giunge nel momento in cui è la sua di “persona” ad essere rapita dall'ispirazione e dalla depressione, la stessa che lo affliggerà anche nei primi anni settanta durante la produzione di un altro grande capolavoro, “Sussurri e grida”. Un male doloroso ed intimamente introspettivo, “prova della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede”.


20/01/2011

Cast e credits

cast:
Bibi Andersson, Liv Ullman, Margaretha Krook, Jorgen Lindstrom, Gunnar Bjornstrand


regia:
Ingmar Bergman


titolo originale:
Persona


durata:
85'


produzione:
Svenk Filmindustri


sceneggiatura:
Ingmar Bergman


fotografia:
Sven Nykvist


scenografie:
Bibi Lindstrom


montaggio:
Ulla Ryghe


costumi:
Borje Lundh, Tina Johansson


musiche:
Lars Johan Werle


Trama
Elisabeth è un'attrice affermata che ha smesso definitivamente di parlare ed è in cura presso un manicomio. Alma è una giovane infermiera piena di speranze e molto dinamica che decide di prendersi cura dell'attrice. Vivendo per un certo periodo in completo isolamento su un'isola, le due donne appariranno molto diverse tra loro, sebbene i loro percorsi termineranno con un'assoluta immedesimazione dell'una sull'altra.