Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
Se Dio fosse assoluta bellezza e bontà, come potrebbe 
racchiudere la pienezza della vita che è allo stesso tempo brutta e bella, 
cattiva e buona, ridicola e seria, umana e non umana?
C. G. Jung, Liber Novus


Sull'immaginaria isola di Kurage, dove resistono culti ancestrali e animisti, i membri della famiglia Futori sono ritenuti responsabili dei problemi che affliggono la comunità. I fratelli Nekichi e Uma, in particolare, intrattengono una relazione incestuosa che si pensa sia causa dello scontento degli dei. Di Uma, è invaghito il capovillaggio Ryu Ritsugen, il quale ha convinto gli abitanti a sostituire la coltivazione di riso con quella di canna da zucchero per conto di una multinazionale, e sta cercando di far vendere i terreni necessari alla costruzione di un aeroporto. Sta arrivando, insomma, la modernità. Tuttavia Kariya, l'ingegnere giunto da Tokyo per realizzare un pozzo, viene risucchiato da questo Giappone remoto e primitivo con la stessa violenza con cui subisce le avances di Toriko, la figlia minorata di Nekichi. A un dato punto del film esce di scena, e la sua fuoriuscita quasi non si avverte.
Il decimo film di Imamura, suo primo a colori, girato a Ishigaki nell'arcipelago di Okinawa, si confronta, come e più dei precedenti, con il grande enigma dell'identità giapponese e la sua messa in crisi di fronte alla modernità. Il contrasto fra natura e civilizzazione, la trasformazione della società da rurale in tecnocratica, sono temi che Imamura affronta negli stessi anni in cui Pasolini parlava in Italia di mutazione antropologica. L'ancestrale animismo messo in crisi dalla modernizzazione ne "Il profondo desiderio degli dei" è metafora universale, non soltanto del Giappone sempre più inesorabilmente occidentalizzato del dopoguerra. L'epilogo del film è quanto mai esplicito: cinque anni dopo gli eventi narrati, sull'isola è in funzione l'aeroporto, arrivano i turisti e giganteggia un cartellone pubblicitario della Coca Cola.
Prima ancora, era chiaramente simbolica la scena in cui avevamo visto agitarsi la coda di una lucertola, tranciata via dal mezzo cingolato che le era passato sopra durante i lavori per la realizzazione del pozzo.
Imamura, che pure mai si considerò parte di un movimento, viene affiancato a Nagisa Oshima quale esponente di spicco della Nuberu Bagu, la nouvelle vague giapponese. Sbocciata nel 1960 con il favore delle stesse major (convinte che svecchiare la produzione avrebbe garantito una crescita degli introiti), la "nuova onda" ebbe vita breve e tormentata: già nello stesso 1960 "Notte e nebbia del Giappone" di Oshima fu ritirato dopo pochi giorni di programmazione per la scomodità dei contenuti fortemente critici verso il trattato nippo-americano. Gli ostacoli furono sempre maggiori: nel 1965 Imamura non fu il primo a fondare una propria casa di produzione (la Imamura Productions). E di fronte all'insuccesso commerciale de "Il profondo desiderio degli dei" (realizzato, ancora in larga parte, grazie agli investimenti della Nikkatsu), si vide costretto per un decennio a ripiegare sui documentari, prima di tornare alla fiction con "La vendetta è mia". Problema comune: intorno al 1970 i tantissimi cineasti che, negli anni 60, avevano innovato profondamente il cinema giapponese, si trovarono di fronte a una grave crisi, che per alcuni sarebbe stata definitiva.


L'anima popolare del Giappone

Io sono un contadino. 
Oshima è un samurai.
Shohei Imamura

Ne "Il profondo desiderio degli dei" Imamura volle mostrare la cultura meridionale, legata a un'ampia disponibilità di tempo libero: una cultura che giudicava più autentica, "reale", di quella moderna e artificiale intorno alla quale si andava strutturando il Paese. In tutta l'opera del cineasta ci troviamo di fronte a un'anima giapponese che la tradizione ufficiale preferiva nascondere, preoccupata di promuovere valori funzionali e produttivi. Laddove la tradizione ufficiale (che al Giappone piace mostrare all'estero) è imbevuta di valori legati all'armonia e alla fedeltà, rispecchiati ad esempio nelle forme del teatro No o della cerimonia del tè, Imamura dà risalto al caos vitale e primigenio in cui vivono gli strati più bassi e popolari della società (gli shomin, la gente comune), meno legati o del tutto slegati da concetti quali lealtà e devozione, e che perciò appaiono incivili. Strati sociali che sono stati soggetti in ogni epoca a forme di repressione, vittime di classi dominanti che hanno utilizzato la tradizione ufficiale proprio come strumento del loro dominio.
Il critico giapponese Tadao Sato ha riconosciuto in Imamura una particolare attitudine a entrare in sintonia e comprendere l'energia delle classi popolari, rafforzata dalla preferenza per ambientare i film, con vivido realismo, in luoghi reali e non ricostruiti in studio. Anche quando commettono dei crimini, i personaggi di Imamura rimangono incoscienti dei propri gesti. "Egoisti, lussuriosi, amorali, innocenti e completamente naturali" [1]: è evidente, ai nostri occhi, una certa affinità con gli umili di Pasolini.
Occorre riconoscere che Imamura non è stato il primo, al cinema, a dar voce a quest'anima popolare del Giappone. Essa fa la sua comparsa, sia pure con toni ben diversi, anche in Akira Kurosawa (si pensi ai contadini de "I sette samurai", ma soprattutto a film come "I bassifondi") e Kaneto Shindo (a proposito di isole non toccate dalla modernizzazione, il pensiero non può che andare a "L'isola nuda", 1960). Nagisa Oshima, invece, si colloca decisamente nell'alveo della tradizione ufficiale, sia pur, evidentemente, in posizione fortemente critica e demistificante, accanitamente iconoclasta. Continuando nel nostro parallelo con l'Italia degli stessi anni, potremmo quasi affermare che, se Imamura sta a Pasolini, Oshima sta ai giovani Bertolucci e Bellocchio.
E' anche - prima di tutto - una questione di stile. La narrazione di Imamura appare disordinata e caotica come l'umanità che descrive: "Il profondo desiderio degli dei" lascia l'impressione di una pellicola squilibrata e indisciplinata, dall'andamento rapsodico. Il regista mostra in effetti scarso interesse per la linearità narrativa: il film è una successione di scene dalla connessione spesso vaga e indeterminata. A questa caratteristica si accompagna l'assenza di uno sviluppo psicologico dei personaggi, che, insieme al ricorso costante a un registro ironico (e spesso alla pura comicità), contribuisce notevolmente a de-drammatizzare la narrazione. Si veda, su tutte, la scena in cui l'ingegnere costringe il suo aiutante, pena il licenziamento, a tagliare con l'ascia un albero di un bosco a lui sacro. E' una scena in cui viene rappresentata una violenza psicologica tremenda, eppure è resa con un tono umoristico: il ragazzo è ridicolo nel suo impaccio con l'ascia, e, infine, l'ingegnere precipita comicamente in una fossa. E' più che mai evidente, nel corso delle tre ore del film, la tendenza di Imamura a sdrammatizzare ogni enfasi, "alterando il percorso tragico di ciò che racconta" [2]. Nello stile di Imamura, distaccato, privo di retorica e scevro da ricercatezze formali, si è voluta vedere una delle poche tracce dell'esperienza come aiuto regista di Ozu.


Donne...

I film di Imamura sono ricchi di "intuizioni sulle donne e sul loro rapporto creativo con la vita" [3]. Personalità forti e impulsive, le donne di Imamura vivono di puri istinti. Ne "Il profondo desiderio degli dei" la rappresentante emblematica di questo tipo di femminilità è Toriko, la figlia di Nekichi che letteralmente non fa che saltare addosso all'ingegnere. Non rende giustizia al suo personaggio l'esser descritta, come è stato fatto, quale "ninfomane": e il suo esser "minorata" è un modo negativo di etichettare le qualità della sua natura istintiva, che appare in primo luogo nella sua innocenza, non alterata dalle sovrastrutture della coscienza e delle regole costrittive del viver civile. Toriko è la "quintessenza dell'istinto, della purezza d'animo prima della contaminazione della civiltà" [4]. In questa figura si coglie tutta la portata dello scarto del Giappone "reale" amato e descritto da Imamura rispetto alla cultura ufficiale, che tra l'altro vuole la donna sottomessa e spesso vittima dei soprusi denunciati ad esempio da Mizoguchi nella sua filmografia. Diversamente dalle eroine tragiche di Mizoguchi, le donne di Imamura, a partire dalla donna-insetto di "Nippon Konchuki" ("Cronache entomologiche del Giappone", 1963), si fanno carico del proprio destino rivelando una forza, combattiva e irredenta, che per l'uomo è tutt'altro che facile da piegare [5].
Fisicità e sesso in Imamura si legano a un bisogno primordiale e istintivo di contatto: sono una vera e propria forma di comunicazione, e nella donna il regista ritrae l'archetipo di una sessualità istintiva e felice. Si pensi alle misteriose qualità che, letteralmente, sgorgano come fosse una sorgente dalla protagonista dell'ultimo lungometraggio del 2001, "Acqua tiepida sotto un ponte rosso". L'acqua è elemento vitale primigenio, da cui tutte le forme di vita scaturiscono: nel film del 2001, è esplicito il binomio acqua-sesso che si scorge chiaramente già nel capolavoro del 1968. Nel sesso - vissuto liberamente, privo delle sovrastrutture morali imposte dalla civilizzazione - si celebra una felicità ancestrale ormai quasi perduta. Ancora una volta, non possiamo fare a meno di notare un'affinità fra Imamura e Pasolini (specialmente quello della "trilogia della vita").


...e animali

Il film si apre con una sequenza di cui è protagonista la fauna marina. Nel corso della pellicola vedremo vari animali protagonisti assoluti di singole inquadrature, con una particolare predilezione per i serpenti. Formiche, bufali, una rana, una farfalla; e poi ancora uccelli, gufi, granchi, gechi. Gli animali sono al centro dei film di Imamura sin dai titoli ("Porci e corazzate"; "La donna insetto" [6]). Sono onnipresenti anche nella prima palma d'oro vinta dal regista nel 1983 per "La ballata di Narayama" (la seconda la vincerà nel 1997 per "L'anguilla" ...ancora un animale), un film (tratto dallo stesso romanzo di Fukazawa Shichiro già portato sullo schermo nel 1958 da Kinoshita Keisuke) in cui Imamura descrive un'altra comunità ancestrale immersa nella natura, stavolta nel nord del Giappone, in luogo del sud de "Il profondo desiderio degli dei". E con l'inquadratura di un serpente si chiude l'intera opera di Imamura, nell'episodio realizzato per il film collettivo sull'11 settembre 2001, in cui si racconta di un soldato tornato dal fronte che, sconvolto dalla mostruosità dell'uomo, si comporta come un serpente.
In un'affermazione rimasta celebre, Imamura disse di voler instaurare uno stretto rapporto fra le parti basse della società e le parti basse del corpo umano: è altrettanto evidente il rapporto che il regista vede fra i suoi uomini e gli animali, all'insegna dell'istinto. Un connubio che arriva quasi a farsi negazione della differenza fra i concetti di uomo e di animale che riposa sul requisito unicamente umano dell'autocoscienza, da cui deriva la moralità. Sminuendo sin quasi ad annullare l'importanza dell'autocoscienza come peculiarità umana, ancora una volta Imamura ci fa venire alla mente Pasolini e il suo rivalutare la lieta incoscienza del popolo in luogo della presunta coscienza di classe (è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza, da "Le ceneri di Gramsci").


Innocenza e ferocia

I personaggi de "Il profondo desiderio degli dei" sembrano vivere in uno stato di natura dove vige una primordiale felicità, lietamente amorale o pre-morale (basti pensare all'incesto fra i due fratelli). La morale, evidentemente, è un posteriore costrutto della civiltà.
Eppure le cose non sono precisamente come appaiono. E' proprio quel che circonda l'incesto fra Nekichi e Uma a rivelarlo. Il rapporto fra i due fratelli è malvisto dalla stessa comunità in cui vivono: proprio questo rapporto, mal tollerato, sarà uno degli elementi di scandalo determinanti per la condanna finale che si scaglia su di loro, di fronte alla quale a nulla varrà la fuga in mare. Il presunto assassinio di cui sono considerati responsabili appare solamente un pretesto. Inseguiti e raggiunti via mare, saranno trattati con tremenda ferocia da una folla assetata di sangue, che al momento del massimo climax indossa maschere rituali. Quasi come se attraverso di esse si dovesse compiere una giustizia divina.
L'episodio rivela in tutta la sua ferocia il lato oscuro della tradizione primitiva, intriso di thanatos e opposto alla vitalità dell'eros. Nel film ricorrono riferimenti a riti barbarici e violenti, terribili pratiche di controllo demografico della popolazione (si allude a tempi in cui le donne incinte venivano gettate in mare da una scogliera). A ben vedere è chiaro: Imamura non si schiera dalla parte di nessuno. Il suo netto distinguo fra modernità e tradizione è tutt'altro che manicheo. Non esita a denunciare i mali della civilizzazione (sia pur con l'importante filtro stemperante dell'ironia), ma ciò che è ancestrale e "naturale" non è per ciò stesso migliore del portato della civilizzazione. Dalle dinamiche della comunità, così subordinata al capovillaggio, traspare chiaramente come questo presunto stato di natura sia tutt'altro che incorrotto dalle leggi che l'uomo dà a se stesso, e che non sono naturali, come non lo sono le logiche di potere e la loro intrinseca ferocia, che trascende quella insita nella natura.
Lo sguardo di Imamura è neutro: si limita, impassibile, a osservare. La metafora, decisamente abustata, dell'entomologo, in effetti si presta bene a Imamura, che constata e non denuncia. A un passo dal cinema-verità o dal documentario, non esita tuttavia a scardinare dall'interno quest'attitudine con tocchi e trovate surreali. Le maschere rituali indossate nel pre-finale furono ispirate al regista da un episodio reale: in occasione di una festività, maschere di quel tipo furono indossate da alcuni giovani del piccolo villaggio presso il quale stava girando il film. La comunità era ristretta, tutti sapevano chi si celava sotto le maschere: erano ragazzi anche poco rispettabili, che però, grazie a quelle maschere, venivano improvvisamente fatti oggetto del sacro rispetto che si deve alle divinità [7].
Alla fine del film, dunque gli "dei" uccidono. Costringono, addirittura, il figlio all'assassinio del padre. La commistione di fondo fra innocenza e ferocia appare insolubile. Innata, nell'uomo, l'intolleranza nei confronti del diverso. E l'intransigenza della comunità si scontra inevitabilmente con la libertà individuale.
Cinque anni dopo, sullo sfondo del manifesto della Coca Cola, l'aedo paralitico (anche questa una metafora?), visto più volte nel corso del film, canta in primo piano la leggenda dei fratelli Izanagi e Izanami, i mitologici creatori del Giappone. Facile riconoscervi in Nekichi e Uma, e nella loro fine, un riflesso sinistro.
Sull'isola atterra un aereo carico di turisti, che vengono accompagnati in uno squallido tour panoramico, a bordo di un trenino che sembra uscito da un parco divertimenti. L'innocenza perduta? Ma quale innocenza, se non era mai stata esente da ferocia? La sola vera innocenza probabilmente era quella di Nekichi e Uma. E quella di Toriko: la minorata, l'emarginata. Ecco che la rivediamo, Toriko: si getta improvvisamente in mezzo alle rotaie, di fronte a quel trenino di turisti che è guidato proprio dal fratello parricida. Il fratello frena, ma Toriko sparisce sotto al treno. Il fratello scende a cercarla e non ne trova traccia. Era solo un fantasma? Evaporato come lo spirito di un Giappone definitivamente perduto? Non è dato sapere. Di certo, la tradizione non è mai stata soltanto innocente. Forse, a essere davvero innocente, è solo l'istinto sessuale femminile, primigenio e inconsapevole.



Note


[1] Donald Richie, "Shohei Imamura e le due tradizioni giapponesi", in A. Piccardi, A. Signorelli, "Shohei Imamura", catalogo Bergamo Film Meeting 1987.
[2] M.R. Novielli, "Storia del cinema giapponese", Marsilio, p. 210.
[3] D. Richie, cit., p. 13.
[4] Fu lo stesso Imamura ad affermare: Le mie eroine sono fedeli alla vita. Guardatevi attorno. Le donne giapponesi sono forti... sopravvivono agli uomini. Le donne che si autosacrificano come le eroine di ‘Ukigumo' (‘Nuvole fluttuanti') di Naruse e di ‘Saidaku Ichidai Onna' (‘Vita di O-haru donna galante') di Mizoguchi non esistono.
[5] M.R. Novielli, cit., p. 243.
[6] I film, rispettivamente del 1961 e del 1964, sono noti in Italia con i titoli "Porci, geishe e marinai" e "Cronache entomologiche del Giappone".
[7] L'episodio è descritto nell'intervista a Imamura da parte di H. Niogret, in Piccardi-Signorelli, cit., p. 58.

28/04/2016

Cast e credits

cast:
Rentaro Mikuni, Choichiro Kawarazaki, Kazuo Kitamura, Hide


regia:
Shohei Imamura


titolo originale:
Kamigami no fukaki yokubo


distribuzione:
Nikkatsu, Imamura Productions


durata:
172'


produzione:
Masanori Yamanoi


sceneggiatura:
Keiji Hasebe, Shohei Imamura


fotografia:
Masao Tochizawa


scenografie:
Takeshi Omura


montaggio:
Matsuo Tanji


musiche:
Toshirô Mayuzumi


Trama
L'ingegner Kariya arriva da Tokyo a Kurage, un'isola immaginaria del Giappone meridionale, per scavare un pozzo d'acqua destinato a uno zuccherificio. A contatto con gli abitanti del luogo, legati a un panteismo primordiale, la sua razionalità entra in crisi.