Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
7.5/10

"Abang Adik" è un film articolato in tre atti: nel primo vengono presentati personaggi mentre agiscono nel loro ambiente in una situazione di relativo equilibrio; nel secondo vi è la rottura dell'equilibrio e la fuga dei protagonisti; nel terzo, chiave di volta dell'intero film, l'equilibrio si ricompone. I protagonisti sono due giovani malesi che vivono nei quartieri difficili della capitale Kuala Lumpur. Pur dividendo il medesimo tetto hanno caratteri e aspirazioni diametralmente opposte. Abang, il primo, nonostante la sordità, è più maturo e volitivo del secondo, Adik, a sua volta scansafatiche, irresponsabile e a tratti rissoso. La contrapposizione tra i due caratteri e i due corpi ricorda quella dei due fratelli de "Il bosco di betulle", di Andrzej Wajda: la menomazione fisica e il dato caratteriale costituiscono un sistema oppositivo fatto di pieni e vuoti costantemente posti sotto il vigile occhio della macchina da presa. Anche le giornate dei due fratelli non potrebbero essere più diverse: instancabile e umile faticatore nel mercato di Pudu Pasar l'uno, scioperato perdigiorno l'altro. Il sistema dei personaggi è completato dall'operatrice ONG Jin En, che cerca di regolarizzare lo status giuridico degli abitanti del quartiere fornendo loro i documenti necessari per ottenere la carta d'identità, ambito traguardo sociale in un contesto sociale degradato in cui le ronde poliziesche alla ricerca di irregolari sono una costante quotidiana. Money è invece un'attempata e pacifica donna trans che ha a cuore la coppia di protagonisti.

Le precarie condizioni economiche, la monotona quotidianità alla ricerca di un'occupazione e il rischio di finire in carcere per qualche illecito costituiscono una sorta di ineluttabile gabbia intorno ai protagonisti. La sensazione che la deprivazione di diritti discenda dalla ferrea legge della giungla, la quale non è neppure negoziabile si percepisce fin dalla prima sequenza: all'ombra di una costruzione semiabbandonata e celata alla vista della gente comune, sotto uno spiraglio di luce che filtra dall'alto e di fronte a una pozza che sa di gora infernale, Adik, insieme a un losco boss di quartiere, vende falsi documenti d'identità ai malcapitati di turno. Una retata improvvisa spariglia le carte, ma ovviamente non risolve i problemi. Per questo, "Abang Adik” non presenta nel primo atto un quadro poi molto dissimile rispetto a una pellicola come "Manila in The Claws of Light" (1975) di Lino Brocka. Abang, infatti, che sembra credere nel riscatto sociale e cerca di tracciare una linea netta tra legalità e illegalità, si scontra di fatto con la sordità morale di Adik. Eppure è nel terzo atto che il film spicca il volo. Lungi dallo scrivente rivelare il finale, non si può passare sotto silenzio che quella tenue fiammella che nello spettatore viene alimentato da Jin En, estintasi nel secondo atto si ravviva in quello successivo. Qui vi è un dialogo tra un monaco buddhista e Abang, che per comunicare nella lingua dei gesti non può fare a meno di mostrare le catene che porta ai polsi, e che pure vorrebbe dignitosamente celare. Catene le quali a loro volta paiono agitate sul volto dello spettatore a mo' di tacita denuncia della sua condizione. Allora lo spettatore, obbligato dalla frontalità e fissità della ripresa, ci pare possa fare anche a meno dei sottotitoli, perché le immagini sono ben più eloquenti di mille scritte. E questo è un momento di cinema vero. Il regista Jin Ong, d'altronde, pur essendo al suo debutto, vanta una lunga esperienza in fatto di produzione cinematografica, di consulenza discografica e gestione degli artisti. Sa come e quali corde sollecitare.

Ci piace a questo proposito sottolineare il grande lavoro nella fotografia. La Kuala Lumpur sfavillante di luci che fa da sfondo all'inquadratura di Adik in campo lungo perde la sua sfarzosa livrea cromatica nei campi medi e stretti, quando i protagonisti del dramma ostentano il loro incarnato ingiallito da luci intense, che a loro volta rischiarano invece intorno a loro pareti disadorne, suppellettili miserande, vite a perdere. Negli interni, sempre nelle ore notturne, le tonalità sono calde (giallo, rosso, violetto) ma stordenti. Al proletariato suburbano non è dato illuminare le loro vite con la luce bianca, la vera luce! Altra nota di fotografia è la superficie spesso madida della pelle dei protagonisti: si suda per il lavoro (nel caso di Abang), o per le preoccupazioni (nel caso di Adik).


29/04/2023

Cast e credits

cast:
Tan Kim Wang, April Chan, Serene Lim, Kang Ren Wu, Jack Tan


regia:
Jin Ong


titolo originale:
Fù dōu qīngnián


durata:
115'


produzione:
More Entertainment Sdn Bhd


sceneggiatura:
Jin Ong


fotografia:
Kartik Vijay


scenografie:
Alice Wang


montaggio:
Mun Thye Soo


costumi:
Ng Keok Cheng


musiche:
Ryoka Katayama


Trama
A Kuala Lumpur (Malaysia) Abang e Adik vivono come fratelli pur non essendolo. Hanno in comune un tetto, la giovinezza e la povertà, ma sono caratterialmente assai diversi. L’omicidio involontario di un’assistente sociale cambierà le loro vite per sempre.