Ondacinema

recensione di Stefano Santoli
7.5/10

Sogno tecnologico bolscevico
atea mistica meccanica
macchina automatica, no anima
Ecco la terra in permanente rivoluzione
ridotta imbelle sterile igienica
una unità di produzione
Tecnica d'acciaio
scienza armata cemento
tabula rasa elettrificata
(C.S.I., Tabula Rasa Elettrificata)


La scoperta e il sostegno di Aleksei Fedorchenko è tra i regali più preziosi di Marco Müller al cinema. L'autore di "Silent Souls" (premio Osella per la miglior fotografia a Venezia 2010, premio della critica internazionale e vincitore morale di quell'edizione), probabilmente a tutt'oggi il suo capolavoro, approda per la seconda volta al festival di Roma, dopo il bellissimo, pasoliniano Decameron al femminile sull'etnia Mari ("Spose celestiali dei Mari di pianura", 2012). Presentato in anteprima mondiale all'edizione 2014 del festival di Roma (dove il regista russo è stato insignito del "Marc'Aurelio del futuro"), "Angeli della rivoluzione" torna ad omaggiare le circa 180 etnie invisibili che sopravvivono, concentrate in Siberia, nel cuore profondo e sconosciuto dell'impero russo. In "Silent Souls" Fedorchenko ci parlava dei Merya; nel film successivo dei Mari; adesso tocca a Ostiachi e Nenci (chi fosse interessato a scoprire le galassie dell'universo etnico che si nasconde in Russia, può dare un'occhiata qui).
Questa volta, Fedorchenko torna a parlare al passato, come nel suo esordio "The First on the Moon" (premio Orizzonti a Venezia 2005), calandoci negli anni '30, ai tempi dello stalinismo e del tentativo di "russificazione" dell'URSS.

"Angeli della rivoluzione" è un film dall'impostazione marcatamente simbolica, che racconta del tentativo di omologazione culturale delle etnie minoritarie da parte dell'egemonia dominante, compiuto ricorrendo prima alle maniere deboli, con l'arte, quindi passando alle maniere forti: intervento armato e genocidio. Se l'interesse di Fedorchenko non si sposta dalla questione etnica, la sua attenzione si rivolge però adesso non alla messa in scena delle tradizioni, attuali e vive, di un'etnia (come nel precedente film), quanto al racconto delle azioni dei sei angeli dell'ironico titolo. Introdotti ciascuno da un capitolo autonomo, lo scultore, il compositore, l'architetto, il regista teatrale e il regista cinematografico sono guidati da Polina la Rivoluzionaria (personaggio modellato su di una figura realmente esistita), affascinante e gelida pasionaria interpretata da Daria Ekamasova (già al fianco di Fedorchenko nel precedente film).

Prima che raccontare di un tentativo di omologazione culturale, quindi, "Angeli della rivoluzione" si concentra sulla grottesca messa in scena, in chiave surreale, dell'asservimento della cultura al potere. Il film risulta, così, carico di riferimenti all'uso strumentale dell'arte da parte del regime stalinista, concentrandosi di volta in volta su una delle cinque arti prese in esame, rappresentate tutte nel momento dell'avanguardismo storico.

Fedorchenko sceglie la chiave mimetica: il linguaggio cinematografico è tutto rivolto al desiderio di emulare, in tono a volte farsesco, le ingenuità simboliche dell'arte piegata all'ideologia. Secondo i dettami del potere, la musica dovrà ispirarsi ai rumori industriali e al passo di marcia del plotone; la scultura celebrare in modo colossale l'ateismo; l'architettura razionalizzare e verticalizzare gli spazi naturali, e via dicendo.

La messa in scena di Fedorchenko è teatrale, ironicamente didattica, frontale: quasi a far vivere allo spettatore - posto di fronte a dei tableaux vivants - il medesimo disagio e il medesimo smarrimento di popoli costretti a vedersi propugnata una cultura totalmente estranea e aliena - attraverso una metodologia che è al contempo grezza, ingenua e violenta. In questa messa in scena che teatrale a volte lo è anche diegeticamente, fanno la loro comparsa dei burattini: in questo, Fedorchenko sembra alludere al ruolo di burattini svolto inconsapevolmente dai suoi stessi protagonisti, mossi dalle mani del potere.

I sei "angeli", nella loro opera di rieducazione, cercano di individuare punti di contatto con le popolazioni locali, tentando di tradurre gli ideali rivoluzionari entro le coordinate del bagaglio culturale etnico. Ma la sintesi è chiaramente impossibile: ricondurre elementi di una civiltà arcaica e animista entro gli schemi di una civiltà razionale ed egemonica significa svuotare la prima dall'interno. Comporta l'annichilimento di spiritualità animista, riti sciamanici, divinità tradizionali.

Fedorchenko, oltre a farci vivere sulla pelle il disagio di chi è costretto a subire un tentativo di genocidio culturale, sceglie di complicare ancor di più il discorso rendendoci intimi e quasi complici dei suoi sei "angeli". Infatti questi ci appaiono come bambini non cresciuti e finiranno per essere vittima del loro idealismo - ne sono presagio cinque figurine d'angelo fatte saltare in aria, su di una torta, dai colpi di fucile sparati da alcuni bambini in una scena del film. Pur con tutto il loro radicale idealismo, nel loro essere terribilmente ingenui e avulsi dalla realtà di cui sono attori, gli "angeli" risultano buffi, comici, a tratti persino simpatici. In ciò, Fedorchenko è geniale.

Tuttavia, pur rimanendo estremamente notevole, la pellicola risulta appesantita dal ricorso insistito e tenace del regista a collocarci nell'ottica di chi subisce questa particolare forma di violenza per via "artistica". "Angeli della rivoluzione" risulta a un dato punto soffocato dall'ambizione del suo autore a emulare, parodizzandole, le avanguardie storiche. La pellicola torna a respirare nell'ultima parte, quando finalmente la narrazione prende il volo e le tradizioni etniche divengono protagoniste, riappropriandosi del proprio vigore, salvo innescare una reazione a catena che terminerà con il brutale intervento armato e la sconfitta di tutti.

L'importanza della pellicola è di rilevanza universale, valicando i confini della Storia e della Russia. Come sta a significare la fondamentale scena finale, ambientata nell'oggi, "Angeli della rivoluzione" dispiega il suo significato sul presente. E non solo sull'odierno imperialismo russo (a proposito: stupisce l'approvazione del film da parte delle autorità russe). Infatti, è dramma globale quello della standardizzazione di modelli culturali unici a scapito di tradizioni locali e minoritarie. Siamo ancora, e sempre, alla mutazione antropologica di pasoliniana memoria.
E' proprio il cinema, purtroppo, con il suo linguaggio, uno dei maggiori veicoli di tale omologazione. E la difficile fruizione del cinema di Fedorchenko, evidentemente "per pochi", è in questo senso un inequivocabile segnale. Perciò il suo cinema è tanto prezioso.


25/10/2014

Cast e credits

cast:
Darya Ekamasova, Oleg Yagodin, Pavel Basov, Georgy Iobadze, Konstantin Balakirev, Alexy Solonchov


regia:
Aleksei Fedorchenko


titolo originale:
Angely revoluciji


distribuzione:
Ant!pode


durata:
108'


produzione:
Dmitry Vorobiev, Aleksei Fedorchenko, Leonid Lebedev


sceneggiatura:
Aleksei Fedorchenko, Denis Osokin, Oleg Loevsky


fotografia:
Shandor Berkeshi


scenografie:
Aleksei Fedorchenko, Artem Khabibulin


montaggio:
Roman Vazhenin


costumi:
Olga Gusak


musiche:
Andrey Karasev


Trama

 

1934. C’è del marcio nel nord dell’Unione Sovietica. Gli sciamani di due popolazioni indigene, gli Ostiachi e i Nenci, non ne vogliono sapere di accettare la nuova ideologia. Per conciliare due culture lontane, sei artisti partono alla volta della Siberia, per raggiungere le foreste intorno al grande fiume Ob. Guidati da “Polina la Rivoluzionaria”, si ritrovano presi fra il martello della rivoluzione che ribolle come una bottiglia di sidro e la falce di un mondo dove cani alati, angeli burloni e patate a forma di cuore non ne vogliono sapere di adeguarsi ai dettami della nuova realtà. Senza contare che in giro ci sono ancora i fedeli dello zar che non gradiscono gli entusiasmi rivoluzionari degli artisti.