Ondacinema

recensione di Domenico Ippolito
8.0/10

Anselm Kiefer e Wim Wenders sono due figli del secondo dopoguerra tedesco. Entrambi nati nel 1945, sono cresciuti in un Paese dove un doppio oblio era appena iniziato: la damnatio memoriae di Hitler e dei dodici anni della sanguinaria esperienza del nazionalsocialismo, il passato più recente; la rimozione delle macerie lasciate dai bombardamenti alleati, il legame della civiltà tedesca coi suoi secoli di Storia. Come ha scritto W.G. Sebald in "Storia naturale della distruzione": "la ricostruzione (…) equivalse per la Germania a una seconda liquidazione, per tappe successive, della sua storia precedente: (…) impedì fin da principio che si volgesse lo sguardo al passato".

Nelle loro vite, carriere e ricerche formali, molti artisti e gente comune di questa generazione avrebbero volto lo sguardo da un’altra parte, come capitò anche allo stesso Wenders. Anselm Kiefer, invece, decise di restare e di volgerlo indietro, o meglio, al mito.

Presentato in anteprima a Cannes nel 2023 come evento speciale, girato tra Germania, Francia e Italia, arriva anche da noi in sala "Anselm", a stretto giro dopo il successo, parzialmente inatteso, di "Perfect Days". Wim Wenders ha raccontato che l’idea di fare un film insieme ad Anselm Kiefer ha più di trent’anni, ma soltanto negli ultimi tempi il progetto è riuscito a concretizzarsi. In questo lungo processo, "Anselm" ricorda "Pina", straordinario documentario di Wenders sulla coreografa tedesca Pina Bausch, due progetti assimilabili anche perché esulano dal documentario puro e rifuggono il biopic.

In "Anselm", infatti, lo sguardo in 3D di Wenders si sofferma implacabile sulle opere del pittore e scultore tedesco, considerato uno dei maggiori artisti contemporanei. Già dall’apertura, assistiamo con gli occhi immersi in inquietanti costumi femminili da ballo, privi di corpo, disposti dentro un bosco e scrutati lentamente nelle loro forme e pesi che ne sostituiscono le teste, mentre voci di donne si rincorrono fuoricampo. Kiefer appare nei suoi giganteschi atelier, talmente vasti da essere percorsi in bicicletta, mentre lavora alle sue opere, altrettanto monumentali. Produrre, fabbricare, forse, sono i termini più adeguati, poiché l’artista utilizza disparati materiali – dichiarato è il suo amore per il piombo –, i quali vengono bruciati e rappresi direttamente con la fiamma ossidrica, il suo "pennello", mentre gli assistenti spengono i fuochi con le pompe d’acqua e le braccia dei macchinari posizionano sulla tela le sostanze da applicare.

Tra filmati d’epoca e di finzione, dove a interpretare l’artista da giovane è il figlio di Kiefer, Daniel, seguiamo gli esordi della carriera. Di fine anni Sessanta è la scandalosa performance delle Besetzungen (occupazioni): foto in bianco e nero dello stesso Kiefer che si autoritrae mentre esegue il saluto nazista in alcuni luoghi simbolo (anche davanti al Colosseo di Roma). L’intento dell’artista non è quello di provocare ma di risvegliare l’attenzione su quanto accaduto in Germania e in Europa solo pochi anni prima e che, a suo parere, è stato frettolosamente accantonato nonché, come da lui stesso ripetuto, "se fosse ancora possibile fare arte dopo il fascismo".

L’interesse dell’arte di Kiefer sulla Storia si declina in una riscoperta del mito o, più propriamente, nella sua corretta collocazione poiché, come affermato, "il mito è sempre contemporaneo". Dunque, la riappropriazione dei miti e degli eroi germanici, con opere che poi andranno a confluire nel padiglione della Germania Ovest, da lui curato, alla Biennale di Venezia del 1980, è un tentativo di screditare la mistificazione, operata dal nazismo, di eventi, personaggi simbolo, canzoni e paesaggi che appartengono invece alla civiltà tedesca.

E il mito ritorna a visitare la Storia poiché, in fin dei conti, "è un altro modo per comprenderla, fuori dalla razionalità". A inizio degli anni Novanta sono esposti a Berlino i cosiddetti "bombardieri pietrificati", in un periodo che coincide coi raid su Bagdad degli Alleati durante la guerra del Golfo. Non solo la Storia, ma anche la mitologia è un costante riferimento per l’arte di Kiefer, così come l’ispirazione poetica, puntualmente contrappuntata da Wenders, che inserisce nel suo film le voci fuoricampo di testi letterari, come quelli di Ingeborg Bachmann, nonché la celebre Todsfuge (Fuga di morte) di Paul Celan, con la dizione originale del poeta, rumeno di origine ebraica e di lingua tedesca, sull’esperienza della deportazione.

La "splendida solitudine" dell’artista non solo viene ricreata da Wenders ma fatta propriamente sua, con un tono immaginifico e visionario, a partire dalla presenza di Kiefer da bambino, interpretato da Anton Wenders, pronipote del regista, con le sue fantasie e scoperte, le quali si legheranno con l’arte compiuta da adulto, in un procedimento consustanziale di accumulazione, di impossibilità di scindere o di sottrarre l’artista dai suoi luoghi. Già dagli anni Settanta, infatti, Kiefer sceglie di vivere lontano dalle città e dal loro caos, dove sarebbe impossibile la creazione dei suoi immensi atelier, che si fanno mondo a sé stante, corpo e mente del mito contemporaneo.


16/05/2024

Cast e credits

cast:
Anselm Kiefer, Daniel Kiefer, Anton Wenders


regia:
Wim Wenders


titolo originale:
Anselm – Das Rauschen der Zeit


distribuzione:
Lucky Red


durata:
93'


produzione:
Karsten Brünig


sceneggiatura:
Wim Wenders


fotografia:
Franz Lustig


scenografie:
Karin Betzler, Sebastian Soukup


montaggio:
Maxine Goedicke


costumi:
Heike Fademrecht


musiche:
Leonard Küßner


Trama
Immaginifico e visionario, il nuovo documentario di Wim Wenders sull'artista tedesco Anselm Kiefer, uno dei maggiori e controversi artisti contemporanei.