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recensione di Domenico Ippolito
7.0/10

Burhan Qurbani, regista e co-sceneggiatore del film, ha detto che l'idea per l'adattamento di "Berlin Alexanderplatz" è arrivata durante le passeggiate al parco Hansenheide, nel quartiere di Neukölln. Lì è venuto a contatto con la comunità di spacciatori che popola il parco. Qurbani avrebbe voluto raccontare la storia di uno di loro, ma si è reso conto che la pellicola non avrebbe ottenuto l’impatto desiderato. Legandola al libro di Alfred Döblin del 1929, capolavoro del modernismo europeo, invece, la storia del suo Franz Biberkopf avrebbe "costretto gli spettatori a guardare".

La trasposizione di questa celebre opera (di cui Fassbinder realizzò una stupenda serie televisiva nel 1980) non è, però, un mero pretesto. La primissima inquadratura offre un forte impatto emotivo: due persone sono in acqua, in mare aperto, un uomo e una donna; lo schermo è rovesciato, il mare è rosso. I due sono al limite, stanno per affogare; la ragazza non ce la farà, per lui forse c’è una speranza. Lo vedremo, infatti, approdare sfinito su una spiaggia. Quella è l'Europa e lui, Francis, uno delle migliaia di africani che sfidano la vita per raggiungerla. Sa di essere scampato alla morte, diversamente dalla sua donna; si promette di "essere buono", di non sprecare questa seconda possibilità, vivendo onestamente, a Berlino.

Il prologo, parafrasando Döblin, ci rivela che il nostro "da principio ci riesce. Ma in seguito (…) si trova preso in una vera e propria lotta con qualche cosa (…) che ha tutta l'aria di un destino. Tre volte questo mistero sbatte contro di lui e gli butta all’aria ogni piano". Così Burhan Qurbani ci scaraventa dentro il viaggio lisergico di un uomo nel cuore grigio dell'Europa: Berlin Alexanderplatz. È il luogo che con la celebre Fernsehturm, la torre della televisione, la geometria squadrata della vecchia pianta socialista, farà da palcoscenico, insieme al parco della periferia, alla sua nuova vita in Germania.

Dapprima vedremo Francis lavorare in nero come carpentiere, senza permesso di soggiorno. Infatti, i sottoproletari berlinesi di Döblin diventano i clandestini nel film di Qurbani. Poi arriverà Reinhold. Una faina tedesca che promette a lui, e a tutti quelli come lui, qualcosa di più che "un pezzo di pane e burro". Un appartamento, soldi, un'auto. Una ragazza. Dovranno solo abbandonare il cantiere e diventare corrieri della droga per lui e per il suo capo, il boss Pums. Il nostro Francis all'inizio tiene fede al suo giuramento e non ci sta, ma quando perde il lavoro si affida al criminale. Che riconosce in lui un "cattivo con potenzialità". Perché anche Francis, che nel frattempo verrà ribattezzato Franz, abbandonando così il suo "nome da schiavo", ha qualcosa da farsi perdonare. Non aveva rigato dritto nella sua vita precedente, e quando Reinhold gli chiede se abbia mai ucciso, dal silenzio dell'uomo capiamo ogni cosa. Nasce così una simbiosi tra i due. È molto sottolineata la caratterizzazione che Albrecht Schuch (già visto nella serie "Bad Banks") dà al suo Reinhold, eppure la sgradevolezza del personaggio la giustifica. Uno psicotico, con una postura mefistofelica, la mano a reggersi una schiena dolorante. Un diavolaccio a cui l'equilibrio del mondo è stato negato. Che non riesce ad amare le sue donne, e quando riconosce l'amore, vorrebbe distruggerlo. Anche Franz si lascia andare a una vita dissoluta, ma ancora si pente e vuole riprovare a tornare "buono". Cadrà miseramente. Come faceva notare Walter Benjamin a proposito del Franz Biberkopf del romanzo, "a consumarlo è la fame del destino".

L'attore che dà anima e corpo a Francis/Franz, Welket Bungué, è nato in Guinea-Bassau e si è trasferito in Portogallo da bambino coi suoi genitori, apprendendo da suo padre cosa voglia dire questo passaggio per un uomo già adulto. Saremo costretti a guardare, diceva il regista, perché questa è la storia di cosa significhi arrivare in Europa dall'Africa, oggi, nel 2020. Il regista Qurbani è nato in Germania ma i suoi genitori sono afghani rifugiati in Europa. Aveva già messo in mostra il suo talento con "Shadada", di natura autobiografica, in concorso alla Berlinale nel 2010, e col successivo "Wir sind jung. Wir sind stark" sugli episodi di violenza xenofoba nella città di Rostock contro i richiedenti asilo del 1992. In "Berlin Alexanderplatz", però, abbandona la prospettiva documentaristica del suo cinema, abbracciando soluzioni da film epico. Divide la sua pellicola in cinque parti, per una durata complessiva di oltre tre ore. Come faceva notare ancora Benjamin, Döblin introduceva nel romanzo moderno degli elementi fondamentali dell'epica, l'oralità e il montaggio: pubblicità, articoli di giornali, canzoni; Qurbani lavora, per quello che gli è consentito, nella stessa direzione, attivando una serie di inserti audio, la voce fuoricampo, l’utilizzo della musica, della poesia, che provano a scardinare la struttura lineare del film.

A risollevare lo sconfitto Franz arriverà Mieze (Jella Haase), che fa l'escort ma lo accudisce come un'infermiera. Una mamma e una puttana. Qurbani ci mostrerà anche la sua personale interpretazione della Pietà michelangiolesca: Mieze che abbraccia Franz, una prostituta che sorregge uno spacciatore. Ma la forza che giustifica l’immagine e tiene insieme queste due anime, è l’amore. Franz troverà l'amore in Mieze, ma Reinhold sbucherà fuori di nuovo, sprigionando le sue diaboliche perversioni per distruggerlo. Perché, ancora Benjamin: "questa è l'educazione sentimentale del delinquente come ultimo stadio del romanzo di formazione". 


28/02/2020

Cast e credits

cast:
Welket Bungué, Annabelle Mandeng, Nils Verkooijen, Richard Fouofié Djimeli, Jella Haase, Albrecht Schuch, Joachim Król


regia:
Burhan Qurbani


durata:
183'


produzione:
Sommerhaus Filmproduktion


sceneggiatura:
Martin Behnke, Burhan Qurbani


fotografia:
Yoshi Heimrath


scenografie:
Silke Buhr


montaggio:
Philipp Thomas


costumi:
Anna Wübber


musiche:
Dascha Dauenhauer


Trama
Francis in fuga dal suo paese natale, l'Africa, cerca di rifondare la propria vita a Berlino.
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