Ondacinema

recensione di Alessio Cossu
5.5/10

A distanza da qualche anno dalla sua ultima apparizione ("Tutto tutto niente niente", 2012) Cetto La Qualunque ritorna sul grande schermo con l’intento di rinverdire un sottogenere della commedia italiana: quello della comicità nata e celebrata dal cabaret televisivo e approdata a furor di popolo sul grande schermo.

Il regista, che per la sceneggiatura si è avvalso della collaborazione di Piero Guerrera, presenta dunque la terza uscita della saga di Cetto La Qualunque. Stavolta, tuttavia, la presunta inossidabilità comica del cialtronesco e disinvolto meridionale rampante sembra aver perso un po’ di smalto in più d’una occasione. E tutto ciò nonostante Giulio Manfredonia abbia dato al suo collaudato personaggio una dimensione, almeno inizialmente, transalpina, nell’evidente tentativo da un lato di sfuggire al facile clichè della troppo nostrana satira di costume, dall'altro di preparare lo spettatore alle aspirazioni autocratiche di Cetto. Nell'incipit del film questi si è infatti trasferito in Germania, dove indulge a uno stile di vita smaccatamente mafioso che, a tutta prima,  tanto più riso dovrebbe suscitare nel pubblico quanto più netto è il contrasto con l’ambiente circostante, apparentemente non inquinato da tale fenomeno. Eppure, svicolando dalla realtà filmica, eclatanti fatti di cronaca hanno mostrato il contrario, per cui la internazionalizzazione del protagonista, voluta dal regista, risulta meno paradossale e perciò stesso meno comica.   

In realtà, ben guardare, neanche ci accorgiamo di essere in Germania, visto che la vicenda sembra sempre ruotare tutta intorno al protagonista: le risorse attoriali di Cetto ci trasportano in Italia ben prima che egli vi faccia ritorno, annullando così la presunta distanza etica e geografica tra Italia e Germania. E' proprio la presenza scenica di A. Albanese a permettere al film di non scendere mai al di sotto della linea di galleggiamento, anche quando l’intreccio sembra aver imboccato un vicolo chiuso.

Ciò che spinge Cetto a rientrare in Italia è l’imminente fine di una zia che in articulo mortis gli rivela di essere figlio naturale di un principe di vaga ascendenza borbonica, instillando così nel nipote il desiderio di farsi a sua volta monarca. E’ a questo punto che Cetto, sbaragliata la debole concorrenza locale, grazie anche alla sapiente guida del pianificatore elettorale, riesce ad imporsi come monarca. Indossando i consueti abiti che sfidano le più comuni regole del buon senso cromatico, villaneggiando nei comizi (sia dal palco che in televisione), esercitando la più becera corruzione, Cetto prevale su tutti. La verve granguignolesca del protagonista, oltre che segnalarsi nei comizi, profana addirittura i templi della presunta etica mafiosa, tanto che Cetto mette da parte gli ammonimenti del suo pianificatore, secondo il quale, almeno in campagna elettorale, bisogna occultare le relazioni adulterine salvaguardando così la propria adamantina immagine pubblica. Qui Manfredonia fa il verso ai luoghi comuni di tutta una tradizione di film gangsteristici. Anche il burrascoso legame con la moglie rientra all’interno di tale clichè. Cetto veste poi i panni del gaffeur più che quelli di un aspirante monarca quando intraprende il percorso di formazione che spetta a tutti i nobili degni di questo nome: a poco valgono i consigli sul bon ton quando si tratta di contenere la propria ruspante istintività.

Tutt'altro che originali le sequenze incentrate sul rapporto col figlio, ossia la presunta educazione sentimentale e l’intestazione delle aziende decotte con la conseguente carcerazione. In realtà la relazione padre-figlio appare estremamente stilizzata e puramente legata all’esigenza di evitare, agli occhi degli spettatori, un imbarazzante silenzio su un personaggio entrato ormai di diritto nella saga di Cetto. I dialoghi tra Melo e Cetto paiono dunque dei riempitivi, in cui tra l’altro l’interpretazione del ruolo del primo è vistosamente meno efficace di quella del secondo.

Paradossalmente, in un ipotetico confronto con le prime due versioni cinematografiche di Cetto, a ridimensionare il valore dell’ultima sono proprio quelle gag e battute (prevalentemente gergali) che avevano lanciato il protagonista sulla ribalta cabarettistica del piccolo schermo, ma che, a furia di essere reiterate, risultano fin troppo prevedibili perdendo così di vis comica.

Tra le sequenze invece più incisive e riuscite, sicuramente il confronto elettorale in TV, nel quale ciò che maggiormente stride è l'assenza di un moderatore super partes. Altri nervi scoperti del malcostume contemporaneo a cui Cetto non è immune sono l’esterofilia sessuale e l’avversione alla ricevuta fiscale. Quanto alla conclusione del film, la dimensione monarchica del protagonista, miracolosamente scampato ad un attentato orditogli contro dalla teutonica consorte, solleva implicitamente una domanda: considerato che la parabola comica del protagonista appare inversamente proporzionale alla statura politica da lui raggiunta e al tempo trascorso dall’inizio della saga, potrà esserci un ulteriore Cetto in cui siano equilibratamente contemperate la sua crescente aspirazione al potere e la genuina comicità? Chi vivrà vedrà.


13/12/2019

Cast e credits

cast:
Antonio Albanese, Nicola Rignanese, Katsiaryna Shulha, Gianfelice Imparato, Davide Giordano, Lorenza Indovina, Paola Lavini, Manfredi Saavedra, Cesare Capitani, Guido Roncalli


regia:
Giulio Manfredonia


titolo originale:
Cetto c'è, senzadubbiamente


distribuzione:
Vision Distribution


durata:
93'


produzione:
Wildside, Fandango, Vision Distribution


sceneggiatura:
Antonio Albanese, Piero Guerrera


fotografia:
Roberto Forza


scenografie:
Marco Belluzzi, Gianni Casalnuovo


montaggio:
Alessio Doglione


musiche:
Emanuele Bossi


Trama

Cetto La Qualunque ritorna dalla Germania e, sostenuto dai suoi compari, si getta a capofitto nell’ennesima campagna elettorale per legittimare la sua ascesa al trono dopo che una sua zia gli ha svelato la sua presunta ascendenza principesca.