Ondacinema

recensione di Vincenzo Chieppa
5.0/10

La canzone che scorre sui titoli di coda sembra voler dare non soltanto un giudizio, ma una chiave di lettura, l’interpretazione di un’opera che si muove tra generi e sottogeneri alla ricerca di un bersaglio che fatica a cogliere.
"People Ain’t No Good" cantano i Nick Cave & The Bad Seeds. Non c’è del buono nelle persone, e il perché lo si capirà nel finale, dopo che per un lungo tratto si era stati portati a pensare che, tutto sommato, qualcosa di buono nelle persone ci fosse, una premura forse interessata, ma pur sempre una premura.

Siamo nell’outback australiano, meravigliosa e desolante patria dei cult movies della saga di Mad Max (e anche qui siamo in un contesto distopico), capace di accogliere tanto lo sguardo antropologico di un Herzog ("Dove sognano le formiche verdi") quanto la storia vivace e surreale di un camper di drag queen ("Priscilla, la regina del deserto").
Un uomo (interpretato da Zac Efron) ne incontra un altro (ruolo che il regista Anthony Hayes ha riservato a se stesso) che dovrà condurre il primo al confine, in cerca di una nuova vita. Il viaggio - attraverso l’outback appunto - sarà occasione per i due di studiarsi e conoscersi, fino all’evento che sconvolgerà le loro esistenze, il ritrovamento di un’enorme pepita d’oro sepolta nel terreno.
Quel rapporto fugace e disinteressato, ravvivato da un paio di chiacchiere attorno al falò (forse una citazione – mal riuscita – di "Easy Rider"), dopo un’iniziale diffidenza reciproca, diventerà la base di una joint venture inevitabilmente condita dal sospetto. Eppure, una volta definiti i ruoli (il protagonista resterà a guardia della pepita, mentre l’altro uomo andrà a cercare un mezzo per estrarla), quel sospetto diventerà – e non poteva essere altrimenti – affidamento, ancorché guardingo.

Si diceva dei generi, e in effetti generi e sottogeneri per tutto il film inseguono situazioni e ambienti. Dal preponderante western (anche se qui, proprio come in "Easy Rider", ci si sposta dal – e non verso – l’ovest), al thriller che si rivela soltanto nel finale per mezzo di un plot twist non così sorprendente. Dal survival, con la carcassa dell’aereo che è una citazione di "Fino alla fine del mondo", ma che richiama anche "Lost" e il magic bus di "Into the Wild", fino all’horror, per effetto di presunti elementi soprannaturali che si palesano nei momenti in cui sogno, allucinazione e delirio iniziano a dominare la scena. Allucinazioni da sete, fame, caldo, isolamento. Follia e paranoia indotte dai sogni di ricchezza e dai timori di venirne derubati ancor prima di averla effettivamente conseguita.

Nota è la lezione di Zizek secondo cui gli elementi esterni intervenuti a sconvolgere la trama (qui la pepita) andrebbero ignorati ed estratti dal contesto per comprendere il vero significato del film. E quindi la pepita – una "pietra" proprio come quelle citate dal filosofo nelle sue argomentazioni, la cometa di "Deep Impact" o la roccia di "Picnic ad Hanging Rock" (Australia anche lì) – dovrebbe essere messa da parte per vedere soltanto la disperazione di un uomo che vaga verso un futuro incerto in preda alle sue angosce e ai misteri di un passato che ci è del tutto ignoto.
Racchiuso in un non-luogo, una zona che potrebbe sembrare la Zona tarkovskiana, in cui succedono cose che (forse, o forse no) vanno oltre la comprensione, l’uomo è in realtà vittima di un delirio progressivo del tutto spiegabile razionalmente, ed è questo il punto in cui il film si trova a fallire, perché non sfrutta le potenzialità dell’irrazionale, esponendole soltanto come prodotto della mente affaticata di un uomo in preda alle allucinazioni. La pepita avrebbe potuto essere un emulo del monolite kubrickiano o dell’oceano pensante di "Solaris" (ancora Tarkovskij), e invece è solo una pepita, al più elevabile a metafora, mai a oggetto filosofico.

Occasione sprecata, dunque, per un film che esagera – consapevolmente o meno – con i richiami (a partire dal "Greed" di Von Stroheim), finendo per farsi apprezzare quasi soltanto per location e paesaggi, magistralmente fotografati da Ross Giardina, che insieme al regista Anthony Hayes (anche co-sceneggiatore) propone inquadrature debitrici dei western di John Ford e del "Lawrence d’Arabia" di David Lean.
Zac Efron, dal canto suo, prova a nobilitarsi degradandosi nel corpo e nella mente, seguendo l’esempio del Di Caprio di "Revenant", ma non è mai del tutto convincente, pur apparendo convinto del progetto. Il fatto è che è proprio il progetto a essere carente, perché quando in un soggetto si intravedono potenzialità mal sfruttate è davvero sminuente celarsi per l’ennesima volta dietro l’alibi dell’entertainment.


29/06/2022

Cast e credits

cast:
Zac Efron, Anthony Hayes, Susie Porter


regia:
Anthony Hayes


titolo originale:
Gold


distribuzione:
Adler Entertainment


durata:
97'


produzione:
Deeper Water Films, Rogue Star Pictures, South Australian Film Corporation, Screen Australia, Stan


sceneggiatura:
Anthony Hayes, Polly Smith


fotografia:
Ross Giardina


montaggio:
Sean Lahiff


costumi:
Anna Borghesi


musiche:
Antony Partos


Trama
In un'Australia distopica, un uomo parte dall'Ovest per raggiungere il "confine". Lo accompagnerà un altro uomo, a bordo di un pick-up, attraversando l'outback. Nel tragitto i due troveranno una enorme pepita d'oro incastonata nel terreno.