Ondacinema

recensione di Diego Capuano
7.0/10
Nell'America Oggi di Robert Altman il piccolo Casey Finnigan veniva investito da un'automobile e, inizialmente stordito, rifiutava di farsi accompagnare in ospedale. Soccorso in ritardo e caduto in coma, morirà poi. L'accaduto scaturirà dilemmi morali ed esistenziali che scardinano la Babele altmaniana.
Nell'Iran Oggi di "No Date, No Signature" di Vahid Jalilvand il piccolo Amir Ali ha la peggio in un incidente che pare inizialmente poco più di un intralcio stradale. Repressioni e coscienze di singoli e collettivi esploderanno ponendo più di una domanda ai personaggi del film e agli spettatori.
Le comunanze che fanno da ponte tra i due film ribadiscono, se ce ne fosse il bisogno, la potenza della scuola altmaniana che si staglia oltre i decenni e i continenti. Per poi obbligarci ancora una volta a fare i conti con un cinema, quello iraniano, che ha nel tempo modificato approccio, geografie ed umori, per fotografare, oggi come ieri, una realtà sempre e comunque più complessa di ciò che news e reportage sensazionalistici possono mostrarci.

Nel cinema iraniano che tra gli anni 80 ed i 90 il mondo imparò a conoscere, la città era invisibile se non assente. Il mondo - quando non il cinema negli scarti tra realtà e finzione - sembrava girare sui bordi delle povere periferie. Non per gusti estetici, ma per allargare in realtà l'obiettivo sull'essere umano. La dignità e la scoperta di una nazione e di un cinema nasceva tramite l'umanizzazione del personaggio/uomo comune.
A cavallo dei due secoli e con un cineasta simbolo come Jafar Panahi a fare da apripista spirituale, gli scandagli umani che partivano dalla lezione neorealista per tanto dire sull'Iran che non conoscevamo si posano con maggior frequenza verso una scrittura più lavorata dove talvolta il genere cinematografico (giallo soprattutto) è un'arma per mettere il dito nella piaga in contraddizioni, problematiche e derive dell'Iran contemporaneo. Passando sempre e comunque dall'uomo comune, sebbene vi sia un'apertura piuttosto evidente verso una media biorghesia che pure ha il diritto di essere raccontata.

Forse sarà inutile sottolinearlo, ma il successo internazionale di Asghar Farhadi ha aiutato ed incrementato la produzione e l'attenzione verso un cinema che può arrivare con immediatezza anche agli occhi dell'Occidente.
Il secondo lungometraggio di Vahid Jalilvand mette in contrapposizione le peregrinazioni morali del medico legale Kaveh Nariman e della sua responsabile moglie e le azioni del meno abbiento Moosa, padre del bambino scomparso, e della sua più cauta moglie. Mentre le azioni di quest'ultimo finiscono con l'essere dominate da un istinto che potrebbe produrre ulteriori patimenti per la povera famiglia,  la ragione di Nariman ha il lascito dei dubbi che possono essere negli stessi occhi di chi guarda il film.

Jalilvand è particolarmente attento ad evitare il manicheismo e i dilemmi esistenziali si dipanano in un labirinto che non prevede vere dispute nelle quali inchiodare buoni e cattivi. Le condizioni umane vengono tracciate con pochi tocchi e, come ovvio che sia, partendo da sfere culturali e pratiche la posizione di un rispettabile medico prevede al cospetto della società dominante rispetti e credibilità non equiparabili a quella di un invisibile padre di famiglia devastato da problematiche irrisolvibili.
Nel rilanciare il gioco dell'indagine psicologica Kaveh sembre avere come unico confronto diretto quello con la moglie, che provvede ad amplificare l'insolubilità del dubbio, mentre la già fragile ragione di Moosa si imbatte con il venditore del cibo avariato che sarebbe stato fatale per la dipartita del figlio. E, dunque,  la miseria umana di un nucleo si scontra con esistenze non molto più agiate, causando collisioni materiali che appiattiscono e annullano ancor di più classe sociali già marginali.
Le scelte del medico non si ergono a bilance della giustizia nazionale, ma partono piuttosto da una coscienza che fino ad allora, presumibilmente, aveva trovato risposte senza prima porsi domande.

Il regista fa avanzare la storia mettendosi al servizio del suo script, con una pulizia che permette di introdursi negli ambienti della Teheran di oggi, nonché nella testa delle persone che ci vivono e che vediamo protagoniste del film. Un risultato encomiabile e che sa appassionare e al quale è possibile muovere però un'obiezione: la coda che si sofferma sul post-riesumazione della salma è di troppo. Jalilivand vuole provare a superare la sospensione finale tipica di alcuni film di Farhadi, non rinunciando però a tenere seminascosta la certezza che ha dato scaturito il dramma, rivendicando rispetto all'illustre collega un approdo più frontale alla psicologia del suo protagonista. Ma la diretta essenzialità galleggia in una involontaria sottolineatura. Che non preclude però un altro prezioso ritaglio della bandiera di una nazione che è fondamentale mantener  viva nella cinematografia contemporanea.
03/11/2017

Cast e credits

cast:
Navid Mohammadzadeh, Amir Aghaei, Hediyeh Tehrani, Zakiyeh Behbahani, Saeed Dakh, Alireza Ostadi


regia:
Vahid Jalilvand


titolo originale:
Bedoune Tarikh, Bedoune Emza


distribuzione:
102 Distribution


durata:
104'


sceneggiatura:
Ali Zarnegar, Vahid Jalilvand


fotografia:
Peyman Shadmanfar


scenografie:
Mohsen Nassrollahi


montaggio:
Vahid Jalilvand, Sepehr Vakili


costumi:
Mohsen Nassrollahi


musiche:
Peyman Yazdanian


Trama
Il dottor Narima, anatomo-patologo, un uomo virtuoso e di solidi principi, ha un incidente con un motociclista e la sua famiglia, in cui ferisce un bambino di otto anni. Pagati i danni al motociclista, si offre di portare il bambino in una clinica vicina. La mattina dopo, viene a sapere che lo stesso bambino è stato portato in ospedale per l’autopsia. Nariman deve affrontare un dilemma: è lui il responsabile della morte del piccolo a causa dell’incidente o la morte è dovuta a un avvelenamento da cibo, come sostiene la diagnosi degli altri medici?