Misericordia. Forse converrebbe partire da qui, dal titolo originale "The Mercy". Donald Crowhurst, velista amatoriale, nel 1968 decide di partecipare a una regata in solitaria attorno al mondo. Un'impresa impossibile, una missione destinata in partenza al fallimento; Donald però non può arrendersi, e non può per orgoglio, superbia, ambizione. Donald è un Ulisse
senza qualità, un uomo comune che sfida le leggi di Natura per ignoranza, che non vuole mostrare le proprie fragilità e rendere testimonianza della propria inettitudine. Misericordia, allora, chiede infine. Per la sua
hybris, certo, ma soprattutto per aver mentito: per essersi allontanato dai suoi famigliari, dai suoi affetti; per aver nascosto loro la sua reale condizione, le sue umanissime debolezze. Per aver cercato di sembrare ciò che, a conti fatti, non è; per non aver accettato se stesso e la propria natura.
Ecco qual è l'aspetto più interessante di "Il mistero di Donald C.", perfettamente coerente con il cinema del suo regista. Un cinema
umano, troppo umano pure quando parla di persone straordinarie, quali possono essere Philippe Petit ("Man on Wire") o Stephen Hawking ("
La teoria del tutto"). "The Mercy" è la storia di un'ossessione, come quella raccontata da James Gray in "
Civiltà perduta": l'idea di circumnavigare il globo terrestre sulla propria imbarcazione, senza alcuna sosta, assorbe completamente i pensieri di Donald. Quando, però, quel sogno comincia a prendere i connotati della realtà, ecco affiorare i turbamenti, i ripensamenti; ecco che quel sogno si trasforma progressivamente in incubo. Da cui è impossibile scampare, pena una vergogna indelebile e un disastro economico. James Marsh approccia questa materia così complessa e stratificata nel modo però più semplice possibile, incapace di trovare le giuste intuizioni - sia sul piano meramente formale e cinematografico, sia su quello narrativo e relativo alla sceneggiatura - in grado di liberare il prodotto dalle più stantie convenzioni del
biopic. Difetto che affliggeva, tra l'altro, proprio quel "
The Theory of Everything" che rappresenta, a ogni modo, il più grande successo commerciale nella carriera del regista inglese.
James Marsh rimane un onesto
metteur en scène, autore di un cinema fieramente
british, elegante e composto persino negli squarci onirici (troppi, didascalici e poco contestualizzati). Peccato che la messinscena semplifichi a dismisura la storia di Crowhurst, giocando principalmente sulle contrapposizioni tra casa/mare, luce/oscurità, felicità/tristezza. In questa vicenda dal respiro epico - e infatti non mancano sequenze dove il protagonista deve fronteggiare un temibile mare in tempesta, con effetti speciali non pienamente soddisfacenti - Marsh mette in evidenza il lato più intimo del racconto: il viaggio di Donald diventa quindi un viaggio interiore, alla ricerca dei momenti di gioia perduti. Il film cade però in momenti lirici
malickiani poco riusciti, in facili espedienti retorici (i
flashaback dei momenti all'interno del focolare domestico; i vari
voice-over che riproducono i pensieri di Colin Firth) e in assurde parentesi mistiche, con Donald che continua a ripetere frasi come "sono un'entità cosmica".
A questi, inoltre, si aggiungono altri problemi narrativi. L'immedesimazione nel protagonista risulta davvero difficoltosa, considerando come le motivazioni che inducono al viaggio rimangano molto superficiali e il personaggio stesso di Donald non brilli certo per caratterizzazione. I preparativi iniziali, prima del viaggio in mare, appaiono assai frettolosi, senza il giusto approfondimento, e l'ossessione di Donald non riesce a penetrare il cuore dello spettatore. La parte finale non fa che peggiorare la situazione, introducendo il tema del rapporto tra realtà e finzione, verità e menzogna, culminante in una futile invettiva al potere dei
mass media, prima di una chiusura che, attraverso falsi filmati di repertorio, ribadisce l'importanza del ricordo e della memoria.
"Il mistero di Donald C." rimane dunque pellicola sotto diversi aspetti fallimentare, incompiuta, incapace di appassionare e mettere in luce la complessità della materia di partenza. James Marsh non riesce a trovare una via personale al racconto, non introduce un nuovo punto di vista, si limita a una confezione tanto sobria e classica quanto sostanzialmente inerme (e si confronti, sugli stessi assunti di partenza, "
All is Lost" di J.C. Chandor, opera di tutt'altra stazza). La retorica contamina la delicatezza di sguardo, la semplicità vince sulla stratificazione. E quel che resta, di "The Mercy", alla fine è veramente poco.