Ondacinema

recensione di Emanuele Richetti
7.5/10

“Il cinema mente, lo sport no”. Parte da questa affermazione godardiana Julien Faraut per provare a instaurare una prima, paradossale connessione tra due delle più grandi passioni dell’uomo. “Il cinema mente, lo sport no”: la finzione e la verità. Perché queste due grandi arti riescono ad affascinare a tal punto anche le menti più eccezionali? Cosa le lega? Gil de Karmadec, primo direttore tecnico del tennis francese, nel 1966 effettuò uno studio circa le basi dello sport di cui era innamorato. Arrivò anche a organizzare delle manifestazioni, prima del Roland Garros, dove i giocatori assumevano davanti agli spettatori “delle posizioni fisse, immobili, senza palla, o eseguendo dei gesti nel vuoto”[1], riproducendo le mosse che effettuavano durante le gare. Ma il cinema, appunto, mente, e la registrazione di queste sessioni non è paragonabile alla verità, alla naturalezza del medesimo gesto in una competizione sportiva. Tre anni dopo, de Karmadec ottenne la possibilità di registrare direttamente il torneo Roland Garros, arrivando però alla conclusione che “il metodo francese d’insegnamento del tennis non è né universale né applicabile a tutti”. Dal 1977, quindi, de Karmadec adottò il metodo del ritratto, analizzando l’individualità dei vari campioni prima che la tecnica a loro comune. Nel 1985 dedicò l’ultimo di questi lavori all’americano John McEnroe: il materiale scartato dal direttore francese costituisce per Faraut l’occasione di provare a “rivelare, a chi vorrà ascoltare, alcune verità nascoste”. Così nasce “John McEnroe – L’impero della perfezione”.

Ma quali sono queste verità nascoste che Faraut cerca di portare in superficie, raschiando il terreno rosso tipico del torneo francese? Cosa hanno di così speciale quelle immagini su John McEnroe? La prima qualità apprezzabile nel girato, istintivamente evidente, è data dalla differenza con le riprese tradizionali televisive: de Karmdec, infatti, osserva il campione americano nelle partite del Roland Garros con la propria macchina da presa, appostata a bordo campo, nel punto più vicino al giocatore. Le immagini ricavate possiedono quindi un senso di immersione sconosciuto a quelle che solitamente siamo abituati a vedere, e sembra proprio di stare lì vicino a McEnroe durante i match, di poterlo toccare, sentirne l’odore, ascoltarne i battiti cardiaci. È difficile restituire a parole le sensazioni che si provano a vedere un uomo dotato di un talento fuori dal comune così ossessivamente ripreso fin nei minimi dettagli. Sono immagini straordinarie nella loro semplicità, quelle utilizzate da Faraut per il suo documentario, e si potrebbero passare ore e ore senza staccare gli occhi dallo schermo, cercando di catturare quegli attimi di verità trasmessi da McEnroe attraverso i suoi tic e i suoi rituali, o ancora provando a capire come possano essere umanamente possibili certe giocate (quella velocità di pensiero, quella facilità in un movimento incredibile che contraddistingue i grandi campioni).

Lo sport, quindi: il primo protagonista dell’”Impero della perfezione” è lo sport nella sua dimensione più fisica, privato di tutte le sovrastrutture mediatiche. Poi, chiaramente, arriva lo studio del fuoriclasse, il tentativo teorico di comprendere la grandezza delle sue giocate attraverso rallenti e simulazioni virtuali. Attraverso, dunque, la deformazione e la decomposizione dell’immagine in movimento: ed è qui che entra infatti in gioco il cinema. Quale connessione esiste tra cinema e tennis? Nel corso di questo trattato audiovisivo imprevedibile e sorprendente, ecco allora che verrà pure chiamato in causa Serge Daney, storico critico cinematografico dei Cahiers; che verranno instaurati parallelismi tra McEnroe e la figura del regista cinematografico; che si rifletterà sul rapporto tra il campione e la sua immagine. Faraut evita che le proprie riflessioni teoriche appesantiscano il girato in pellicola utilizzando ampiamente l’arma dell’ironia prima di focalizzarsi, nell’ultima parte del documentario, sulla psicologia estremamente complessa e contradditoria del tennista statunitense. Il film, d’altronde, è su di lui, ed è giusto che si conosca l’interprete principale: i suoi difetti, il suo carattere; la rabbia, la solitudine, le relazioni familiari. Quello di McEnroe è un personaggio troppo affascinante per non concedergli un finale allora beffardo, in fondo tragico. Ingiusto, probabilmente, come solo lo sport sa essere. Dopo tutto, “il cinema mente, lo sport no”.


[1] Così è riportato dalla voce narrante di Mathieu Amalric


08/05/2019

Cast e credits

cast:
John McEnroe, Mathieu Amalric, Ivan Lendl


regia:
Julien Faraut


titolo originale:
L’empire de la perfection


distribuzione:
Wanted Cinema


durata:
95'


produzione:
UFO Production, Centre National de la Cinématographie, Région Ile-de-France, CNAP


sceneggiatura:
Julien Faraut


fotografia:
Gil de Kermadec


montaggio:
Andrei Bogdanov


musiche:
Serge Teyssot Gay


Trama
Il mitico campione di tennis John McEnroe, ex ragazzo prodigio e successivamente noto alle cronache non solo per il talento ma anche per il caratteraccio e una vita privata movimentata, è già stato protagonista di film e documentari, ma mai in modo così avvincente come in questo documentario di Julien Faraut, presentato alla Berlinale e in competizione al Cinéma du Réel, che vanta materiali di repertorio ed elementi di psicologia e di teoria del cinema, accompagnati dalla voce di Mathieu Amalric, con la premessa godardiana «Les films mentent, pas le sport».