Non fosse stato per il talento inestimabile di Rowan Atkinson, il personaggio di Johnny English non avrebbe mai avuto né senso logico né sussistenza qualitativa. Senza di lui, come per gli altri due capitoli della trilogia incentrata sulla spia più imbranata di sempre, anche questo capitolo conclusivo sarebbe stato un ammasso di pessime scelte da buttare, inutilizzabili per qualsiasi scopo umoristico e altrettanto inconcludenti da un punto di vista della comunicazione narrativa. Non è sorprendente infatti notare come, proprio grazie all'uomo che è stato anche Mr. Bean, "Johnny English colpisce ancora", pur con una trama fortemente sciatta e senza un grammo di intuizione visiva valida, funzioni decentemente guadagnando tutto dal suo genio comico assoluto, vivendo della sua risonanza ormai presente nell'immaginario collettivo, livellandosi su una prova attoriale capace di sintetizzare il proprio poliedrico talento performativo attraverso gag slapstick, tempi comici perfetti, smorfie incredibili e stunt altrettanto rocamboleschi.
Oltre le regole del buon senso e della credibilità, Atkinson governa a briglia sciolta con corpo e mente tutta la struttura dell'avventura di English lungo la Francia e l'Inghilterra, contro fantasmagorici attentati digitali, tra yatch giganti, pillole dell'iperattività e bellissime donne. La sua vecchiaia, la sua comicità completamente sorpassata dalle riflessioni di genere postmoderne e contemporanee, la natura analogica del suo capello brizzolato e dell'occhiolino sbilenco sono i protagonisti di un film che volontariamente mischia la realtà diegetica con quella extradiegetica e che non distingue l'attore dal suo personaggio, scoprendoli un unicum imprendibile al servizio della sicurezza nazionale e della risata inaspettata. Non c'è scetticismo che tenga di fronte alla cascata di soluzioni comiche proprie del repertorio dell'attore, alla forza quasi commovente di un interprete disposto a far ridere non leggendo nel contesto un dettaglio da ribaltare attraverso la farsa, bensì mettendosi in ridicolo come ha sempre fatto nella sua carriera.
Il tema è quello della natura inaffidabile della tecnologia, del potere intrinseco della vecchia materialità tradizionale sul troppo nuovo e sul troppo veloce. Banale? Non con una rilettura direzionata dalla mentalità dell'attore, capace di aggiungere un senso stranamente inossidabile ai messaggi didattici di cui si fa alfiere. Certo, escludendo la partecipazione dell'attore e il suo influsso il film è insufficiente, un prodotto senza un elemento valido esteriore al suo protagonista (neanche Emma Thompson riesce a salvare un vanaglorioso primo ministro macchiettistico). Tuttavia è tanto grande il potere positivo di Atkinson che è difficile non provare affetto e rispetto per questo eroe della comicità, anacronistico insegnante di eleganza e gentilezza, stile ed "etica lavorativa". Tanto quanto è difficile non sorridere dell'ultima avventura di una spia che riesce a trasformare la lentezza in rapidità fulminante, la confusione in una logica sopra la logica, la sbadataggine in una forma di professionismo e l'incompetenza nell'ultima possibile arma per salvare il mondo ancora una volta.
cast:
Emma Thompson, Jake Lacy, Olga Kurylenko, Ben Miller, Rowan Atkinson
regia:
David Kerr
titolo originale:
Johnny English Strikes Again
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
89'
produzione:
StudioCanal, Working Title Films
sceneggiatura:
William Davies
fotografia:
Florian Hoffmeister
scenografie:
Simon Bowels
montaggio:
Tony Cranstoun, Mark Everson
costumi:
Annie Hardinge
musiche:
Howard Goodall